Capitolo 1 - Un disastro
«Gran bella giornata del cavolo...» sbottò Melany, indugiando davanti al lavandino del bagno.
Quella notte non era riuscita a chiudere occhio a causa dell'agitazione che si era divertita ad annodarle le viscere senza pietà; di conseguenza, al mattino, aveva del tutto ignorato le tre sveglie che le avrebbero permesso di alzarsi con calma, lavarsi con pazienza, vestirsi con tranquillità. E invece il ticchettio immaginario del tempo scandiva spietato ogni secondo per ricordarle quanto fosse in ritardo.
"Che disastro... Che disastro!" lamentò nella mente, osservando la sua immagine riflessa nello specchio: la frangia era cresciuta troppo in fretta coprendole quasi del tutto la visuale, i suoi grandi occhi di smeraldo erano gonfi e sanguigni a causa del mancato sonno e la pelle chiara, diventata ancor più sbiadita dalla stanchezza, aveva deciso giusto quella mattina di ospitare un detestabile rigonfiamento. Proprio lì, al centro della fronte c'era un brufolo, un orrendo brufolo purpureo a somiglianza del bindi, la tipica decorazione delle donne indiane, detto anche terzo occhio. Peccato che non ci fosse nulla di ornamentale in quella cosa che aveva deciso di invadere il suo viso in una giornata importante come quella.
Ciondolando per il corridoio, con le braccia a penzoloni, entrò in cucina sospirando, si sedette al tavolo e sospirò ancora, rassegnata e sconfitta.
«Andiamo, Melly, hai sempre detto di voler vivere in una grande città e ora ci siamo!» esclamò sua madre, intenta a preparare la colazione.
Dai lunghi capelli biondo cenere e gli occhi nocciola, Claudia era una donna molto vivace che amava apparire e mostrarsi al meglio in ogni occasione: quella mattina aveva indosso un grembiule a cuoricini rosa, sotto cui spuntavano un sinuoso tubino nero e tacchi a spillo coordinati. Molto diversa, invece, era sua figlia Melany, che preferiva vestire abiti comodi e sportivi, purché rigorosamente colorati.
«Certo, ma quando l'ho detto intendevo che ci sarei andata da sola, l'anno prossimo per l'università e non quest'anno abbandonando scuola e amici all'improvviso!»
«Ah... Beh, allora è colpa tua che non ti sei spiegata bene!» ribatté sfacciata sua madre, ignara di quanto stesse sporcando il piccolo cucinino rosso laccato, da lei personalmente scelto.
«Colpa mia?!» Melany si drizzò in piedi e sbatté le mani sul tavolo, in tinta con il resto della mobilia. «E chi è quella, allora, che ha deciso di sposarsi con un tipo conosciuto il mese precedente e che, per non dirgli in faccia che voleva lasciarlo, ha costretto la figlia a scappare di casa sconvolgendo la sua vita?!» Quell'assurda situazione la mandava fuori di testa.
«Detto così mi fai sembrare un mostro! E poi l'ho avvisato...» replicò Claudia, agitando il cucchiaio di legno stretto in mano e schizzando ovunque gocce di latte.
«Certo, con un post-it sul frigorifero...» mormorò lei, risedendosi e sospirando ancora.
«Vedrai, tesoro, che sarà un'avventura stupenda. Puoi chiamarla: "Io e la mamma nella grande città, alla ricerca della fortuna e dell'amore appassionato"». Mimò nell'aria una scritta inesistente. «Magari per l'amore appassionato è ancora presto per te. Concentriamoci sugli studi, ok?» Ammiccò.
«Sì, come no... forse volevi dire: "Io e la mamma in una stupida grande città, sole e disperate, alla ricerca di qualcuno che abbia compassione di noi"». Ripeté il gesto della madre. «E stai tranquilla che non avrò tempo per quella roba lì. È già tanto se riuscirò a inserirmi a scuola senza troppi occhi puntati addosso».
«Su, su! Sicuramente ti farai tanti amici. Ne sono convinta!» Claudia si avvicinò al tavolo e posò la loro colazione.
«Certo, lo dici a chi ha come migliore amica la compagna di banco dell'asilo... O forse dovrei dire "avevo". Lei è molto più socievole di me e ora che non ci vedremo più si dimenticherà della mia esistenza, trovando una nuova migliore amica» confessò avvilita, incurvandosi sempre più sulla sedia fino a sbattere la fronte sul tavolo.
Melany strizzò forte le palpebre. "È solo un brutto sogno. Un brutto sogno!" ripeté per l'ennesima volta nella mente. Quando riaprì gli occhi, però, era ancora lì, seduta in quel piccolo appartamento un po' buio e dalle pareti umidicce, a fissare le sue Converse rosse preferite.
«Ma no!» Claudia si accomodò di fronte a lei. «Quando si è migliori amiche lo si è per sempre. Non essere così negativa».
Il telefono di Melany cinguettò. Con la fronte ancora appoggiata sul tavolo, la ragazza prese il cellulare dalla tasca destra del cappotto, adagiato sulla spalliera della sedia, lesse le notifiche e piano piano riprese la posizione eretta, sorridendo.
«Ecco, scommetto che è lei, vero?» Claudia sorseggiò il caffè dalla tazzina.
«Cosa dice? Ti ha già rimpiazzata?» La madre sghignazzò e addentò un croissant.
«Naa! Ha detto che sarà qui sabato e...» Melany tacque fissando solo in quel momento l'attenzione sul piatto della propria colazione. «Ma questa roba cos'è?» Punzecchiò con la forchetta una strana poltiglia beige.
«Sono i panchichi! Visto che sorpresa? Non sei felice?» rispose contenta.
«Vorrai dire Pancakes, ma questi non sono Pancakes e no! non sono felice» brontolò Melany. Sollevò la forchetta e osservò la matassa colare come liquame.
Con che coraggio sua madre credeva di aver "cucinato" qualcosa di commestibile? La fiducia che aveva in se stessa era ammirevole.
«Come no? Ho seguito la ricetta alla perfezione, non vedi?» Claudia indicò la cucina alle sue spalle che pareva reduce da una guerra all'ultimo sangue. Neanche una mattonella si era salvata quella mattina, neanche una! Come facesse a combinare ogni volta un tale disastro era un mistero.
«Non so che ricetta hai trovato, ma normalmente i Pancakes sono solidi, spugnosi, non certo liquidi. E poi...», aggrottò la fronte, seccata, «perché tu hai un croissant preso al bar e questa schifezza l'hai riservata solo a me?»
Fra loro non c'era mai stata parità o reale libertà di scelta: sua madre prendeva per sé ciò che reputava migliore e per sua figlia ciò che sempre lei pensava più adatto alla ragazza. Non era una cattiva madre, quel che faceva era sempre a fin di bene; peccato che non fosse sempre chiaro per il bene di chi.
«Perché pensavo avresti preferito qualcosa fatto con le manine della tua mamma. Era un modo per iniziare una nuova vita insieme in questa casa». Esasperò un'espressione dispiaciuta.
Melany la fissò per nulla intenerita, alzò gli occhi al cielo e decise di lasciar cadere l'argomento. Non era il caso di rovinare la giornata ancora di più.
«Sì, okay, ma la prossima volta preparo io, come sempre. Vado. E pulisci la cucina!» Si drizzò in piedi, prese il giubbotto - di varie tonalità di viola - dallo schienale della sedia, raccolse lo zaino verde pastello che aveva lasciato sulla soglia della cucina e si avviò verso l'ingresso.
«Oh, accidenti! Non posso, tesoro!» gridò sua madre alle spalle. «Ho un appuntamento! Fai tu quando torni da scuola, va bene?» Sorrise, sventolando la mano in segno di saluto.
"Ovviamente, non avevo dubbi" pensò Melany scuotendo la testa. Ormai ci aveva fatto l'abitudine. Infilò il giubbotto, caricò la cartella su una spalla e uscì di casa senza neanche risponderle. La sera prima sua madre le aveva anticipato la bellissima idea di preparare la colazione ma aveva pensato che, come in altre occasioni, si stesse riferendo a qualche dolciume congelato da infilare nel microonde e non che volesse davvero preparare da mangiare. Per fortuna, aveva sistemato degli snack nello zaino, comodi da sgranocchiare per strada.
Melany estrasse il telefono dalla tasca, mentre con l'altra mano reggeva una barretta energetica al cocco. "Dovrei essere lì in venti minuti" pensò osservando lo schermo del percorso salvato su Google. Non conosceva la città e, benché fosse lì da quasi un mese, non aveva alcun interesse a saperne di più.
"Mia madre è davvero inqualificabile... Spero trovi presto un altro fesso con cui andare a vivere, così potrò tornare a stare da sola. L'unica cosa positiva del suo ex era che la teneva il più possibile lontana da me. Ormai ho diciotto anni e chiunque nella mia situazione, con una madre del genere, cercherebbe indipendenza" ragionò fra sé e sé, scendendo le scale antistanti il palazzo in cui aveva traslocato.
Era il 10 settembre, giornata in cui nel suo vecchio paese si poteva godere ancora dei caldi raggi del sole che scaldavano gli abitanti fino a metà ottobre; invece, le temperature della nuova città erano più rigide e il vento soffiava portando con sé le prime tracce d'autunno. Melany sbuffò infastidita, stringendosi nel cappotto. Odiava tutto di quel posto: quel piccolo e umido appartamentino al piano terra trovato all'ultimo momento, i clacson assordanti delle auto che sfrecciavano sotto la finestra della sua stanza, la gente che sembrava guardarla pronta a ridere di ogni suo sbaglio... o, semplicemente, faticava a mandar giù ogni cosa di quel posto perché frustrata per non aver avuto voce in capitolo sul trasferimento.
Era maggiorenne da sei mesi e più di una volta aveva pensato di restare da sola nella vecchia casa, tuttavia i soldi degli impieghi temporanei della madre non sarebbero bastati per il pagamento di due affitti. Aveva pensato di trovare un lavoretto serale, ma non sarebbe riuscita a guadagnare abbastanza per sostenersi con quel poco che le avrebbero dato, né a organizzarsi con lo studio.
S'incamminò a passo svelto, mantenendo lo sguardo basso e maledicendo una madre tanto sciagurata. Se solo suo padre non le avesse abbandonate dieci anni prima tornando nel suo paese natale, l'Inghilterra, le cose sarebbero state molto diverse. Quando c'era lui era tutto più facile: non solo perché portava a casa uno stipendio buono che permetteva loro di concedersi qualche sfizio di tanto in tanto, ma soprattutto perché ogni cosa appariva in modo diverso accanto al suo papà, quando la famiglia era ancora unita. Felice. O almeno era quello che aveva creduto.
Scosse la testa per scacciare via quel pensiero triste.
«Ahio!» strillò, cercando di liberare la ciocca dei lunghi capelli biondi impigliata nella cerniera del giubbotto.
Borbottando lamenti silenziosi, proseguì la strada e sperò con tutta se stessa di poter trascorrere l'ultimo anno scolastico in pace. Le sarebbe bastato un buon posto in fondo alla classe o anche al centro ma non davanti, dove avrebbe potuto seguire le lezioni senza essere disturbata o sentirsi troppo in soggezione. Si chiese anche se sarebbe riuscita a trovare un'amica con cui scambiare qualche chiacchiera, tuttavia poco le importava. In quel momento, il suo unico pensiero era sopravvivere.
Sopravvivere a quella disastrosa situazione da cui non poteva fuggire.
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