XV. Incomprensione
Divise verdi percorrevano da un capo all'altro il corridoio al quarto piano dell'Ospedale San Mungo, entravano nelle camere di degenza con alcuni fogli tra le mani e una piuma in tasca e ne uscivano consultandosi tra loro a bassa voce. Non era orario di visite e non c'erano familiari o amici dei pazienti a interrompere il giro mattutino dei Medimaghi.
Una fila di sedie di metallo seguiva la parete spoglia di fronte alle camere. Seduta con abiti civili, e nessun cartellino identificativo attaccato a essi, Hermione era in quel momento l'unico filo discordante nel complicato intreccio della sanità magica londinese. Qualche membro del personale l'aveva guardata, incuriosito, ma nessuno si era azzardato a redarguire il Ministro della Magia per la sua presenza in reparto a un orario non consentito. Dovevano aver ipotizzato che avesse un motivo istituzionale per essere lì, giacché nessuna informazione riguardo un ricovero suo o di un suo familiare era divenuta di pubblico dominio.
Rilassò il busto contro lo schienale e accavallò le gambe. Il rumore tranquillo di sottofondo – passi e discussioni, impegno ed empatia – accompagnò il fruscio di due pagine della Gazzetta del Profeta girate per saltare gli articoli di argomento sportivo. Considerò con maggiore interesse quella successiva, nella quale, con caratteri semplici e pochi colori, erano riportate file di immagini di volti maschili e femminili di tutte le età, specialmente quelle terminali, e coppie di date. Da Nata Babbana, le foto dei maghi l'avevano affascinata fin dal primo istante in cui aveva notato con sorpresa che i soggetti protagonisti si muovevano: salutavano, si abbracciavano e continuavano a occuparsi, all'interno di cornici o di album, delle attività in cui erano stati ritratti. Quella pagina del quotidiano, invece, dava un'immediata sensazione di sobrietà: visi quasi immobili, seri, su uno sfondo neutro. Erano raffigurati in primo piano e le mani non erano visibili, così non era possibile dire se fossero stati cristallizzati nell'intenzione di alzarle per salutare per sempre e non salutare mai più, da una pagina di inchiostro e lacrime.
Si soffermò sulla penultima fila, sulla foto all'estrema destra della pagina, accompagnata dalla combinazione di un nome e un cognome a cui non aveva mai pensato se non negli ultimi tempi. Un volto magrissimo e lineamenti severi, capelli fini e radi, ma un accenno di dolcezza negli occhi scuri, l'evidenza di qualcosa che non era stato consumato dalla malattia. Si domandò se quello sopravvivesse ancora nelle iridi di suo figlio, di qualunque colore fossero – lei non l'avrebbe scoperto mai. Non sapeva quanto recente fosse quella foto, eppure la donna già presentava segni evidenti di un malessere fisico che si sarebbe rivelato irrimediabile. La breve didascalia di accompagnamento restava generica, per rispetto della sua volontà di vivere l'ultimo periodo nella discrezione preziosa che i mezzi familiari potevano garantirle. Tuttavia, se pure non ci fossero state due date così vicine tra loro, separate solo da un'insopportabile manciata di anni, nessuno avrebbe potuto dubitare che fosse stata una patologia inguaribile la causa del lutto. Astoria Malfoy era la persona più giovane nell'intera pagina di necrologi.
Devo contattare il preside di Durmstrang, non posso dare la notizia a Scorpius tramite una lettera. Devo informare il Ministero. Devo far pubblicare un necrologio sulla Gazzetta del Profeta. Devo organizzare un funerale privato. Dimmi, cosa puoi fare tu?
«Eccomi, Ministro. Mi perdoni se l'ho fatta aspettare, ma ero stata avvisata di un orario diverso per la sua visita. Cosa posso fare per lei?»
Hermione alzò lo sguardo e incontrò l'espressione cordiale di Hannah Abbott, vestita della stessa uniforme che aveva già visto sui suoi colleghi, nell'attesa che lei si liberasse per riceverla. Consapevole di poter rubare solo poco tempo al suo turno in ospedale, non indugiò che per un mero istante con le dita sulla carta, quindi chiuse il giornale e lo ripose in borsa – avrebbe continuato a conservarlo.
«Non si preoccupi, ma diamoci del tu.» Ricambiò il suo sorriso. «Purtroppo il mio nuovo assistente non è ancora molto a suo agio nel ruolo.» Parlò in tono leggero, mascherando l'irritazione per l'ennesima svista di quel giovane mago che le era stato mandato dall'Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia: era un vero peccato che la collaboratrice più efficiente che avesse mai avuto fosse passata al Wizengamot, e non per una promozione.
I capelli della Medimaga erano raccolti perché non la ostacolassero nel lavoro, le mani infilate nelle tasche: in una, il profilo della bacchetta era evidente attraverso il tessuto sottile della divisa. Indossava scarpe comode, perché quello, considerò Hermione, era un lavoro che richiedeva sforzo fisico accanto a concentrazione mentale. Persino l'instancabile infermiera di Hogwarts, dopo gli ultimi eventi, aveva annunciato con un profondo sospiro che era proprio il caso di andare in pensione. Hermione si impose di essere celere e non tenerla occupata più del necessario, sottraendola al benessere dei pazienti ricoverati.
Si mise in piedi. «Sono qui per il signor Paciock» le disse. «Dovrebbe esserti stato comunicato, quando sei stata contattata.»
Si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo quando ebbe in risposta uno sguardo confuso. Si ripromise di verificare che cosa il suo assistente le avesse scritto esattamente, per conto dell'Ufficio del Ministro, visto che le informazioni fondamentali erano errate o mancavano del tutto.
Hannah si ricompose e annuì. «È un mio paziente» le disse – Hermione ne era già a conoscenza, aveva chiesto di fissare un incontro con lei proprio per quel motivo. «Seguimi, la sua stanza è da questa parte.»
Camminarono lungo il corridoio, superarono una porta e si ritrovarono in uno identico, ma con ingressi su entrambi i lati. Molti erano chiusi, per la riservatezza degli occupanti delle camere, ma da qualcuno accostato o del tutto aperto poteva intravedere stanze uguali tra loro nella disposizione del mobilio, eppure ciascuna arricchita di tocchi personali. I reparti in cui la degenza si prolungava oltre qualche giorno mostravano chiari segni dello sforzo di tentare di chiamare casa un luogo che era arduo considerare ospitale: l'immagine di una famiglia su un muro chiaro, un vaso di fiori appassiti su un comodino, una pila di vestiti su una sedia accanto a un letto.
«Come sta?» si informò Hermione, mentre procedevano.
«Le sue condizioni sono stabili. A dire il vero, non sono mai migliorate negli ultimi anni, purtroppo. Non ti rammaricare se non sarà in grado di sostenere una conversazione.»
Prima che Hermione potesse chiedere un chiarimento – Neville era stato allontanato da Hogwarts e portato al San Mungo solo due settimane prima ed era perfettamente in grado di parlare – la Guaritrice si fermò davanti a una porta chiusa. La figura alta e silenziosa di un Auror era immobile, nella sua divisa, lì vicino; sciolse i muscoli solo per rivolgerle un rispettoso cenno.
«Entra pure, l'Auror Frank Paciock è qui, il suo è il letto vicino alla finestra» la invitò, allungando le dita verso la maniglia.
«No, aspetta» la interruppe Hermione.
Per il bene del nuovo segretario, almeno quell'incomprensione non era totalmente imputabile alla sua comunicazione difettosa, altrimenti il proposito di licenziarlo si sarebbe concretizzato più in fretta del previsto.
Hannah la guardò con aria interrogativa.
«Io sono qui per Neville Paciock, non per suo padre» chiarì.
La donna aprì la bocca ma non parlò, realizzando l'equivoco. Adesso che era stata sfiorata dal pensiero di Neville, non impedì a un'ombra di tristezza di incupire la cortese espressione professionale che le aveva rivolto fino a quel momento. Anche Hannah l'aveva conosciuto, a scuola.
«Ma certo» sussurrò. Si schiarì la voce. «Scusami.»
Hermione le fece intendere con un cenno che non c'era alcun bisogno di scusarsi e lei proseguì. «Anche lui è un mio paziente. L'abbiamo ricoverato nella stessa stanza dei suoi genitori» accennò con il capo alla porta alle sue spalle. Aveva il tono di chi non avrebbe mai voluto farlo.
Un'intera famiglia e una stanza d'ospedale per loro, un ricongiungimento che non aveva niente di dolce. Neville aveva vissuto con i genitori solo per un periodo così breve da non averne neanche memoria, prima che gli Auror Frank e Alice Paciock venissero torturati fino alla pazzia, restando vivi e inadatti a prendersi cura anche di loro stessi. Il bambino che era stato affidato alla nonna paterna aveva ritrovato una quotidianità con i genitori quando la sua stessa salute mentale si era compromessa.
«Come sta?» chiese di nuovo, stavolta riferendosi al paziente che entrambe avevano conosciuto come un compagno di scuola buono e leale, coraggioso in una guerra che ora viveva dentro di sé.
«Alterna momenti in cui non ha piena coscienza della realtà ad altri in cui è totalmente se stesso, ed è una persona amabile.» La voce della Medimaga si fece più calda su quell'ultima, personale considerazione e Hermione le sorrise: non aveva difficoltà nell'immaginare cosa intendesse. Lei stessa, ripercorrendo nella mente i momenti in cui era stata con lui a Hogwarts nell'ultimo periodo, aveva difficoltà a riconoscere quelli in cui i suoi comportamenti erano turbati.
«Riteniamo» continuò la Guaritrice, «che si tratti di una manifestazione tardiva conseguente allo stress della guerra e al trauma fisico e mentale delle torture. Un disagio che si è aggravato nel tempo, fino a condurlo a comportamenti francamente disinibiti e irrazionali.»
Un disagio che era divenuto evidente quando quei comportamenti avevano avuto conseguenze, in un caso irreparabili, sugli studenti.
«Le torture» rifletté a voce alta Hermione. «Durante il settimo anno di scuola, i Mangiamorte usavano la Maledizione Cruciatus sugli studenti.»
«Sì.» Chiuse per un istante gli occhi e fece un respiro; Hermione le riservò il tatto di non indagare se anche lei ne avesse subite, perché, in caso affermativo, nessuna delle due avrebbe voluto rivivere il ricordo del dolore più atroce immaginabile inflitto con la magia. «Neville ne ha ricevute più di tutti, non ha mai esitato nel contrastarli» commentò Hannah con ammirazione. «A volte li provocava proprio per essere punito ed evitarle ai più piccoli.»
«È così coraggioso.» Conoscendolo, Hermione poteva figurarsi in maniera vivida memorie che non aveva vissuto, in quell'anno trascorso lontano da Hogwarts e vicino alla morte.
«Anche gli animi più forti si piegano al dominio della mente. È come se una parte di lui, quella colpita dai Carrow, fosse ancora intrappolata sotto le loro bacchette e talvolta prendesse il sopravvento – ultimamente con più frequenza.»
«Danneggiato in conseguenza di una Maledizione Senza Perdono come i suoi genitori, ma in maniera diversa.»
Hannah annuì con aria mesta. Poi si animò di urgenza: «Ministro, io e i miei colleghi potremmo testimoniare per lui. Non era capace di intendere e di volere quando ha pianificato quegli avvelenamenti, non può essere punito per questo.»
«Ci sarà un processo e probabilmente sarete convocati.»
«Ma...»
Hermione interruppe quella rapida protesta con un cenno della mano.
«Ma neanche io voglio vedere un uomo che non si può considerare pienamente responsabile dei propri crimini condannato ad Azkaban.»
La Medimaga si mostrò subito più sollevata. «Ha bisogno di cure mediche, non di una prigione.»
«Tuttavia è anche necessario che sia sorvegliato, è un soggetto potenzialmente pericoloso.» Hermione la guardò fisso. «Una studentessa è morta» aggiunse in tono greve.
La strega socchiuse gli occhi e increspò appena le labbra, in un momento di partecipazione. Spiegò: «Stiamo cercando di ridurre le crisi con pozioni neurologiche, ma non è semplice trovare il dosaggio più adeguato al caso specifico. Vogliamo essere sicuri che non sia più una minaccia per altri, o per se stesso, fino a che non spariranno.»
«Se spariranno» considerò Hermione con pessimismo, alludendo ai signori Paciock che avevano trascorso più della metà della loro vita sotto stretto controllo medico.
La Guaritrice intuì il corso dei suoi pensieri. Hermione si chiese se edulcorare le notizie facesse parte dell'addestramento professionale dei Medimaghi. «Il suo è un caso diverso dai genitori, ma sì, non abbiamo certezze.»
I misteri incomprensibili della mente umana, magica o Babbana che fosse. Quella di Neville nascondeva trappole e inganni e lui era stato il primo a caderci. Hermione, che aveva sempre ammirato la pura razionalità, doveva riconoscere che non sempre i pensieri seguivano disposizioni lineari, talvolta si dipanavano in intrecci confusi e insospettabili. Le risposte ai misteri non erano sempre ovvie – Severus Piton non aveva incantato la scopa di Harry durante una partita di Quidditch al primo anno di scuola, l'Erede di Serpeverde non era Dr-... – e lei non aveva potuto sospettare di Neville prima, perché era ovvio che lui fosse un amico che non poteva commettere nulla di male, eppure era ovvio che la lista di evidenze che aveva collegato alla fine puntasse a lui. Nulla poteva incrinare la fiducia, e tutto poteva farlo, quando una persona si rivelava differente, quando rifiutava di farsi conoscere davvero. Ovvio, come talvolta non occorreva assemblare complicati antidoti, ma un Bezoar, un antidoto universale, era la risposta a un veleno ignoto.
Hermione sollevò la borsa che teneva in una mano. «Gli ho portato un regalo.» Neville le aveva scritto per chiedere scusa, dichiarandosi disposto a impegnarsi per stare meglio e ad accettare qualunque conseguenza la giustizia magica gli avrebbe destinato. La sua lettera era stata di una sincerità disarmante, così lei aveva deciso di andare a trovarlo in ospedale. «Una pianta.»
La Medimaga si illuminò. «Ne sarà contento» esclamò, per poi farsi più seria. «Di quale pianta si tratta? Non possiamo permettere che abbia a disposizione una che potrebbe essere pericolosa nelle sue mani, ora che sembra più tranquillo.»
Hermione ridacchiò. «Niente di velenoso, non ti preoccupare.» Infilò la mano all'interno della borsa e scavò tra il contenuto – l'aveva dotata di un utile Incantesimo di Estensione Irriconoscibile. Ne estrasse una confezione contenente un piccolo vaso, che era ricordo e affetto. «È solo una Mimbulus Mimbletonia.»
Le pareti che per anni aveva chiamato casa la accolsero con la stessa familiarità di sempre: una foto di Rose con il fratello neonato in braccio, un Frullobulbo rigoglioso in un vaso, il camino spento all'angolo. Il divano al centro della stanza era quello su cui crollava, esausta, dopo una giornata di lavoro al Ministero e il resto delle ore dedicato ai figli piccoli. Sul tavolino aveva l'abitudine di lasciare la pila di libri in lettura – prima che Hugo all'età di cinque anni ne prendesse possesso per disegnarci, poiché era abbastanza basso da permettergli di arrivare alla giusta altezza senza arrampicarsi. Nella libreria di legno chiaro lei aveva dovuto far posto alla collezione di volumi di Rose, che era cresciuta nel tempo, da quando aveva imparato a leggere.
«Sei tornata.»
Eri tu per prima a dire di non volere niente di tutto ciò: finito qui, potrai tornare da Weasley, sarai contenta.
Ron la accolse con parole incrinate di incertezza sul finire, la sua affermazione poteva sembrare una domanda. Le andò incontro uscendo dalla cucina, con un tramezzino in mano e speranza in bocca. Nella propria, Hermione sentiva solo il sapore sgradevole che non riusciva a cancellare.
«Mamma!»
Sono solo uno dei veleni che hai trovato a Hogwarts, a intossicare la tua perfetta vita familiare. Riprenditela.
Hugo lasciò cadere a terra il libro illustrato che teneva sulle ginocchia, per alzarsi e correre verso di lei. Si lanciò tra le sue gambe, schiantò la testa sul torace e Hermione si piegò in avanti per abbracciarlo. Inspirò tra i suoi capelli – rossi, il colore dell'intensità, i sentimenti che l'avrebbero sempre animata, anche quando si scontravano contro il muro della realtà. L'unica a cui non avrebbe mai rinunciato era stretta al suo petto e le aveva tirato una ciocca della lunga chioma, nell'irruenza, ma lei non si era lamentata.
«Sei pronto?» gli sussurrò in un orecchio.
Era sempre stato un bambino piuttosto fisico nelle dimostrazioni d'affetto, e anche di più al termine di un viaggio di lavoro. Invece che tenerle il broncio per essere stata via, le mostrava quanto era felice che fosse tornata e le sue reazioni almeno lenivano il senso di colpa che lei si trascinava dietro.
Hugo scosse la testa, esibendo un sorriso per niente innocente. Era in ritardo, ma per fortuna lei non aveva altre incombenze per la giornata, se non dedicargli tutto il proprio tempo. Tuttavia trattenne la risata che minacciava di erompere, per dimostrargli che rifiutare la puntualità era una cattiva abitudine e non produceva piacevoli effetti comici.
«Vai a preparare le tue cose, va bene?»
Suo figlio si precipitò fuori dalla stanza prima ancora di acconsentire, a parole o con un cenno del capo, ma non prima di rischiare di inciampare sul libro che lui stesso aveva disseminato sul tragitto.
Hermione lasciò andare una risata leggera e Appellò il volume con un incantesimo non verbale. L'avrebbero portato via con loro.
Quando tornò con lo sguardo sull'altro adulto presente, gli scorse sul viso l'ombra di una risata e un sorriso che sapeva avrebbe trovato identico sul proprio, se avesse avuto uno specchio di fronte a sé a riflettere l'amore materno che la colmava, ogni volta che guardava i suoi due bambini.
Si raffreddarono entrambe le loro espressioni, il calore scomparso con Hugo, distante, nella sua camera.
Le pareti che per anni aveva chiamato casa la accolsero con la stessa familiarità di sempre. Eppure le differenze crepavano la superficie del quadro, incompleto e incompiuto. L'armadio nella camera da letto non conteneva più i suoi vestiti, invernali ed estivi. I suoi libri erano spariti da una libreria che ora appariva vuota, se non per gli scaffali occupati da Rose. La sua tazza preferita mancava, all'interno di un'anta in cucina, così come la miscela di tè che beveva solo lei.
In quella casa aveva smesso di collezionare ricordi di coppia e non se ne era accorta.
«Sei tornata?» ripeté Ron, stavolta rendendo l'interrogativo palese. «Ti sei decisa?»
Ron non capiva.
«Io ho capito. Avevi bisogno di tempo e spazio, da me, da noi, e te ne ho dato. Ora quando pensi di tornare a casa?»
A casa. Quella che lui aveva acquistato con le sue sole forze dopo il matrimonio, per loro, per godere appieno di una situazione economica che, per la prima volta nella vita, non gli destava preoccupazione. Casa sua, e lei che aveva vissuto con lui. E lei che se n'era andata.
Hermione abbassò gli occhi sulla manica. In quel momento, le pareva che lei e Ron fossero come due delle righe parallele sul tessuto della sua giacca. Strinse al petto la copertina del libro di Hugo.
«Ron, io non tornerò. Non ero confusa, quando ho detto di non voler più stare in questo matrimonio. Mi dispiace tanto» ribadì ancora una volta, come aveva fatto anche quando aveva portato via le proprie cose e, da allora, ogni volta che era passata a prendere il figlio.
Le guance dell'uomo si tinsero come i capelli. «Tu non puoi farlo!»
Hermione prese un respiro, ma l'aria fresca che giungeva dalla finestra aperta non alleggerì il peso delle sue scelte. «Ron...»
Lui la incalzò: «Gli stai facendo del male, lo sai?» Allungò un braccio per indicare in modo vago il corridoio da cui si accedeva alle camere da letto. «A entrambi, anche se Rose non è qui per mostrartelo di persona.»
Hermione ingoiò il sapore amaro del senso di colpa. Stava diventando quasi familiare, ma non più tollerabile: era come fare l'abitudine a un tormento mai cercato e inevitabile. Se Ron pensava di colpirla, non aveva fatto centro, perché spargeva sale su ferite che aveva aperto lei per prima: non aveva smesso di angustiarsi sin da quando era tornata da Hogwarts, non aveva permesso a del tessuto cicatriziale di sigillarle. Aveva ripreso in mano la propria vita, dopo una parentesi che le aveva lasciato solo ricordi insospettabili, e affrontava le conseguenze delle decisioni.
Sapeva come stavano i suoi figli, per quanto forti e comprensivi si mostrassero. Considerava con desolazione i momenti in cui l'esuberanza di Hugo si piegava a una nuova consapevolezza, quando, in una casa che aveva conosciuto da tutta la vita o in una nuova, si girava a cercare l'altro genitore e non lo trovava.
Lo sapeva, e perciò dedicava loro tutte le attenzioni che poteva. Aveva iniziato a scrivere a Rose insopportabilmente – per la ragazza – spesso: le chiedeva delle sue giornate, dei suoi programmi di studio, delle amicizie e delle partite a scacchi, di qualunque cosa volesse parlare con lei – ma, del padre, Rose non parlava più. Il tempo di Hugo si divideva tra Ron e lei, e Hermione si impegnava per rendere la propria metà un intero pieno, perché lui trovasse abitudini inedite anche nei nuovi spazi in cui si ritrovava con lei. Se i suoi figli potevano considerarla segretamente un'egoista per aver messo se stessa prima dell'unità familiare, mettendo fine a un matrimonio in cui si sentiva spenta, almeno non avrebbero potuto pensarlo nel rapporto materno. Loro sarebbero sempre stati la sua priorità.
«Mi dispiace» ripeté, concedendo a Ron di sentire l'ammissione di colpa nella voce incerta. Una colpa da cui non sarebbe fuggita, però, con il coraggio di cui abbondava e l'onestà che un uomo che aveva avuto accanto per anni meritava.
Quello che Ron non comprendeva, era che lei non aveva scelta. Si era accontentata, in passato, e adesso che sapeva di poter avere di più – più trasporto, più travolgimento, più passione – si sarebbe costretta a ricercarli anche tra braccia diverse da quelle che glieli avevano mostrati per prime. Prima o poi, quando il vuoto che le gelava le labbra – inspira, espira e continua: solo aria – si sarebbe esaurito. Si era ripromessa ardimento anche nelle scelte di cuore, in futuro.
Ron scuoteva la testa e non riusciva a capacitarsi delle sue parole – non riusciva a comprendere. Socchiuse gli occhi, un pensiero improvviso gli ferì lo sguardo. «C'è un altro?» domandò, con un tono freddo che lei non udiva da molto sulla sua bocca.
Hermione fece subito cenno di no – Qualunque cosa fosse, è finita – ma, per l'onestà che un uomo che aveva avuto accanto per anni meritava, aggiunse: «Per un brevissimo momento, ma non più. Le mie decisioni sono solo mie.»
Ron strinse i pugni ai lati del busto e lei accennò un passo nella sua direzione. «Ti prego» continuò, «non credere che lui abbia a che fare con noi due, sarebbe un errore.»
«Chi è?»
Hermione accarezzò la copertina del libro che reggeva. L'aveva tenuto Hugo, prima, ma il calore delle sue mani si era disperso. «Non è importante, sul serio, non c'è più nessuno.»
«Chi è?»
«Davvero, non è questo il punto» gli spiegò con tono implorante, pregandolo implicitamente di non insistere. «Io sarei arrivata a questo anche se...»
Lui la incalzò alzando la voce. «Chi è?» ripeté ancora una volta.
Hermione inspirò profondamente. «Draco Malfoy.»
Allora Ron comprese.
Ma non del tutto, perché lui non aveva idea dei trascorsi che erano esistiti tra lei e un ragazzo pallido, biondo, tormentato. Sarebbe rimasta solo sua, la memoria del viso giovane che si sporgeva a guardare dentro un calderone, delle mani sottili che sminuzzavano ingredienti specifici che non ricordava più, della bocca ostile divenuta istintivamente calda quando si erano permessi di assaggiarsi tra rubinetti asciutti e specchi impolverati.
Sperò che capisse pure che la sua ritrosia non voleva essere una mancanza di chiarezza nei suoi confronti, solo l'intenzione di evitargli un ulteriore pensiero spiacevole, nella situazione in cui l'aveva messo sempre lei.
«Esci.»
Forse, col tempo. Sarebbero sempre stati i genitori di Rose e Hugo, quello non sarebbe cambiato mai. Ed erano stati amici, una volta.
«Certo, ora vado» gli concesse, perché la sua espressione disgustata palesava, senza possibilità di incomprensione, che faticava a sopportare la vista di lei. «Però...»
L'uomo si voltò verso l'apertura nella parete da cui il bambino era sparito. «Hugo, la mamma è pronta ad andare» gli gridò.
«Ron, non è importante, davvero. Ciò che conta sono Rose e Hugo, e ciò che noi siamo e continueremo a essere per loro.»
Lui si guardò in giro, come cercando un appiglio per sopravvivere all'abisso della verità in cui era sprofondato, dove l'aveva spinto lei. «Io non ti riconosco» scosse la testa. «Draco Malfoy!»
Ma Hermione, nei giorni passati a Hogwarts, aveva ritrovato qualcosa che era già esistito, con contorni più fumosi – e sarebbe sempre esistito come un interrogativo nebuloso. Ron non poteva riconoscere in lei qualcosa che non sapeva ci fosse mai stato.
«Ti chiedo scusa» sussurrò. Per avergli fatto del male, non per aver dato priorità a se stessa, come meritava.
«Vattene» ribadì, tornando a guardarla.
Hermione deglutì e chinò il capo. Lo mosse quando il ritmo di passi esuberanti preannunciò il ritorno di Hugo, che canticchiava sottovoce un motivetto su un Nero delle Ebridi e un kilt variopinto.
Ron fissò ostinatamente altrove, mentre il bambino avanzava con una borsa sulla spalla e lei gli passava un palmo sulla testa per mettergli in ordine i capelli e loro andavano via, insieme, verso quella che Hermione stava imparando a chiamare la sua nuova casa.
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Note:
Dal canon non è noto se e come siano presentati i necrologi all'interno della Gazzetta del Profeta. Quella sulle foto immobili è una mia ipotesi personale: io troverei vagamente inquietanti le usuali foto magiche anche tra quelle pagine.
Il lavoro di Hannah Abbott come Medimaga è canon.
Il tema della salute mentale nella saga non è affrontato in maniera approfondita, perciò mi sono presa un po' di libertà nella descrizione del quadro clinico di Neville e nel parlare di "pozioni neurologiche".
La Mimbulus Mimbletonia per Neville richiama quella che sempre lui riceve in regalo in Harry Potter e l'Ordine della Fenice.
Il Nero delle Ebridi è una razza di drago nel mondo di Harry Potter. Le Ebridi sono isole scozzesi, da qui il mio riferimento a una canzone – che non trova corrispondenze nel canon – su questo drago e un kilt, tradizionale indumento maschile scozzese.
Eccoci al penultimo capitolo!
L'immagine di Neville nella stessa stanza d'ospedale dei genitori spezza il cuore solo a me?
E direi proprio che Ron, finalmente, ha capito. Hermione ha preso una decisione e vi resta fedele.
Vi ringrazio per aver letto e vi do appuntamento all'ultimo capitolo! Poi mancherà solo l'epilogo.
Vi ricordo che sono anche su Facebook (Legar Efp) e Instagram (__legar__).
Alla prossima!
Legar
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