Prologo


 Nel momento in cui sento la porta del ristorante aprirsi alle mie spalle, mi domando che razza di problema abbia la gente con i cartelli molto grandi con sopra scritto "chiuso" a caratteri cubitali.

«Stiamo chiudendo» ribadisco infatti ad alta voce, stanca, senza nemmeno voltarmi e continuando a pulire il tavolino che ho di fronte con una pezza.

«Lali...»

Vengo investita da una voce maschile e il cuore cambia improvvisamente il suo battito, mentre la mano che regge la pezza mi trema impercettibilmente.

L'aria intorno a me diventa pesante tutto d'un tratto; smetto di percepire il ticchettio della pioggia che batte sulle finestre perché tutto ciò che sento, adesso, è il mio respiro che accelera e il suo profumo, quel profumo, che invade prepotentemente il mio spazio vitale.

Continuo a pulire il tavolino come se togliere la macchia ostinata che mi trovo davanti sia una questione di vita o di morte, le spalle ricurve e nessuna intenzione di voltarmi.

Sento il suo respiro affannato dietro le mie spalle, come se avesse appena corso; lascio trascorrere troppo tempo senza reagire, mentre la macchia non se ne va e io sto ancora decidendo se iniziare ad urlare imprecazioni o a vomitare. E proprio quando opto per fare entrambe le cose in contemporanea, «Non sono nemmeno più degno di uno sguardo?»

Tiro un sospiro profondo, gli occhi chiusi, e decido di prendere finalmente in mano la situazione, proprio come compete ad una donna con la D maiuscola che non ha nulla da temere – men che meno uno stupido borghesotto che millanta grandi doti culturali e che poi ha difficoltà nella comprensione di una parola così semplice come "chiuso"; perché, se ancora non fosse chiaro, siamo chiusi, cazzo, siamo chiusi, e sto per urlarglielo addosso mentre getto con impeto la pezza su quella macchiolina che non viene via perché è semplicemente un difetto del legno, mentre cerco di accartocciare in un angolo del mio cervello tutti gli stimoli che il mio elevato senso olfattivo sta cercando di inviarmi a intervalli regolari da quando lui ha messo piede nel mio ristorante, tentando così di farmi ricordare gli infiniti momenti del mio passato che a quel profumo sono indelebilmente collegati. Come se a farmeli ricordare non bastasse la sua voce, peraltro.

Sto davvero per dirglielo, che siamo chiusi e che questo vale anche – e soprattutto per lui. Che non è più come una volta, quando aspettava che finissi il mio turno di lavoro con un libro di diritto privato sul tavolo e un caffè d'orzo macchiato in tazza grande tra le mani. Vicino alla finestra. Con un sorriso caldo sul volto ogni volta che gli passavo velocemente a fianco, per caso, e mai per caso.

Sto per dirglielo che lui, qui dentro, non ci deve più entrare. Che su quel tavolino vicino alla finestra ora si mette sempre una signora grassa che i sorrisi caldi non me li fa, ma che comunque non riuscirebbe mai, mai mai mai a prendere a calci la mia intera esistenza come è riuscito a fare lui.

Mi volto lentamente. Ma quando i miei occhi incontrano i suoi – talmente disperati da sembrare quasi malati, non riesco a dirgli proprio niente.

Fa un passo verso di me, è bagnato da capo a piedi. «Senti, Lali, io...»

Senti tu, grandissima faccia di merda, sto per urlare a quegli occhi spezzati, lascia che ti renda chiara la situazione. Io sono una donna adulta, intelligente ed emancipata, frutto di anni e anni di lotte femministe, che nel tempo libero legge Dacia Maraini, che è cresciuta con Xena la principessa guerriera, e che di sicuro non ha tempo per star qui a sentirsi ancora mortificata da -

«... mi manchi. Non ce la faccio più senza di te» mi dice con un filo di voce, e il fuoco rabbioso che mi sentivo divampare nella gola comincia ad ammansirsi.

Mi limito a fissarlo senza muovermi di un millimetro, le spalle ancora basse e la faccia vuota. Lui non riesce a guardarmi negli occhi, e non si azzarda ad aggiungere altro.

Fai quello che farebbe Xena, mi ripeto con un mantra, mentre seguo il suo petto che, sotto la giacca, si alza e si abbassa ad una velocità sostenuta. Ma così, su due piedi, non riesco a reperire nessun letalissimo cerchio rotante.

E comunque Xena, alla fine, da quel grandissimo pezzo di merda di Marte, Signore della guerra, ci ritornava eccome; e ci faceva pure un figlio!

Mi schiarisco la voce: «Io sto lavorando. Non puoi piombare qui e...»

«Sono passati sei mesi. Sei mesi. Mi avevi detto che avresti avuto bisogno di tempo, e io questo lo capisco, ma sei mesi...»

Freno il desiderio di allontanarmi senza replicare niente, limitandomi ad alzare il dito medio nella sua direzione. Questo non sarebbe maturo, e io sono una persona incommensurabilmente pacata e matura: «Vattene» sibilo tra i denti. «Questo ristorante è pieno di sedie, e mi conosci abbastanza bene da sapere che non avrei alcun problema a lanciartene una addosso» poi mi volto di scatto e mi appoggio con entrambe le mani al tavolino di cui mi stavo occupando prima dell'interruzione.

Sento lui sospirare afflitto e poi allontanarsi, dietro di me. «Sì, ti conosco abbastanza bene da saperlo...» dice in un sussurro.

Dopo qualche secondo, la porta del ristorante si apre e si richiude, facendomi piombare di nuovo nel silenzio del ristorante.

La pioggia ricomincia a battere forte sulle finestre, mentre estraggo il cellulare dalla tasca e digito veloce un messaggio.

È tornato qui. Ha detto che gli manco. Stasera usciamo.

Premo invio e comincio a piangere.

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