Non ricordarsi mai Picenium
«E quindi che vuoi fare?»
Sarà la milionesima volta che mi sento fare questa domanda negli ultimi mesi. Se sapessi cosa fare mi limiterei a farlo, e non continuerei a chiedermelo duecento mila volte al giorno.
Odio che i miei drammi sentimentali diventino l'unica fonte di conversazione. Una volta ero una persona simpatica. Credo.
Faccio spallucce e non rispondo, mentre bevo un altro sorso del mio drink.
«Cosa vuoi che faccia» sento dire a Cecilia, mentre con la cannuccia raschio il fondo del bicchiere. «Lo deve mollare e basta, una volta per tutte».
«Non è così semplice. Sono quattro anni...» replica Nina stupita.
«Appunto. Sono quattro cazzo di anni.» Cecilia inizia a innervosirsi. «Se dopo quattro anni ti scopi un'altra...» e non finisce la frase.
Appoggio con più forza del dovuto il bicchiere, ormai vuoto, al bancone. Ceci e Nina si girano a guardarmi preoccupate, mentre io comincio ad agitare vigorosamente la mano, facendo un cenno al barista. Quando vedo che mi ha notata e si sta avvicinando, dico alle mie amiche, in tono perentorio: «Non sono uscita per parlare di queste cazzate. Sono uscita per bere. E ora, noi beviamo» mi rivolgo al barista, che nel frattempo si è piazzato di fronte a me, dall'altra parte del bancone: «Quattro gin tonic, grazie» gli urlo, cercando di farmi sentire sovrastando la musica assordante. Lui mi fa un "tre" con le dita, indicando me e le mie amiche. Scuoto la testa e ripeto, sporgendomi verso di lui: «Quattro... io ne bevo due!».
Sento le ragazze ridere dietro di me e Ceci, pigliandomi il braccio, mi riporta tra loro: «Hai intenzione di ubriacarti? Domani hai lezione...»
"Sticazzi", mi dico tra me e me, e penso che il mio decrepito professore di letteratura latina è già un miracolo che riesca a trovare l'aula giusta in cui entrare il giovedì mattina.
«... il bello di lettere è che a nessuno frega nulla che tu ci sia o non ci sia. Il brutto è che, ad ogni angolo, ti ritrovi quei fricchettoni che si sentono dei poeti maledetti solo perché reggono Kafka da un lato, e una canna dall'altro...» mimo il gesto del vomito, e poi mi giro a pagare i gin tonic che il barista aveva appena appoggiato sul bancone.
«Guarda che io ti invidio» replica Nina mentre, con scrupolo, si mette a posto la frangetta «da me ci sono solo montati che passano la vita a studiare anatomia ma che non vedranno mai una vagina dal vivo...».
«... effettivamente preferisco i cannaioli!» rido, anche se certe volte, all'università, faccio fatica a rimanere educata quando ricevo proposte altisonanti del calibro di "Ti va di venire ad una riunione in cui dibattiamo dei problemi degli operai comunisti sotto il regime zarista della Russia prestaliniana?" oppure "Che ne dici di aderire ad una manifestazione in cui protestiamo sull'ingiustizia di privare la biblioteca di Ateneo dei codici dei manoscritti della Vaticanorum... qualcosa?".
Non sono mai stata una fan delle lotte ideologiche. L'unica volta che, al liceo, ho aderito ad una protesta, è stato perché il tizio che mi piaceva era rappresentante di istituto e mi aveva convinta, come c'era scritto su tutte le lenzuola penzolanti dalle finestre del liceo, ad "Okkupare" con lui. Avevamo okkupato la scuola per due giorni interi (non ho idea né ora, né tantomeno ce l'avevo allora, del motivo per cui stessimo portando avanti quella protesta), ma era stato stupendo: ci sentivamo un po' come quei sessantottini dei film che lottano per qualcosa di importante, avevamo i megafoni, le birkenstok ai piedi, urlavamo in coro frasi come "Pro-te-stiamo, da qui non ci leviamo" (mi sembrava una frase così geniale, all'epoca...), fumavamo tanto, limonavamo con i rappresentanti d'istituto nei corridoi. O quantomeno, io ci limonavo.
Afferro il mio primo gin tonic e me lo secco quasi tutto in un sorso. «Ma chi cazzo l'ha mai votato, poi...» mi domando ad alta voce.
«Cosa?» mi chiede Nina, urlando sopra la musica.
Mi ricordo improvvisamente delle mie amiche dietro di me. Gli domando, a voce più alta di prima: «Mi stavo chiedendo: chi cazzo l'ha mai votato, Tazio, come rappresentate di istituto? Io no di certo. Parliamoci chiaro: quando mai, nella vita vera, uno con un nome del genere vince le elezioni di qualcosa...». Ceci e Nina cambiano espressione, e assumono la tipica faccia consolatoria che tante volte ho visto rivolgermi in questo periodo. Stanno pensando che sono matta, ma mi lasciano fare solo perché ho il cuore a pezzi. E io me ne approfitto un po': «... intendo. Hai un nome di merda. Non puoi avere una vita felice. No?»
Cecilia non dà troppa corda al mio discorso sconclusionato e sdrammatizza: «Pensa che i miei genitori volevano far scegliere il mio nome a mia sorella, che all'epoca aveva cinque anni. Beh, ragazze, per fortuna ha vinto "Cecilia", perché per un attimo ho seriamente rischiato di chiamarmi "Kelly", come la Barbie...». Io e Nina scoppiamo a ridere, e Tazio mi si allontana momentaneamente dalla mente. Ancora divertite - e vagamente su di giri - ci confondiamo tra la gente, andiamo al centro della pista e cominciamo a ballare.
---
Sono quasi le quattro, e mentre guardo l'ora sul cellulare mi rendo conto che Tazio mi ha scritto un messaggio.
Ci vediamo venerdì? Per parlare...
In un impeto di rabbia, spengo il cellulare. Sono abbastanza ubriaca da rischiare di rispondergli con frasi troppo patetiche, o troppo offensive, quindi decido che questa è la soluzione migliore. Tocco Ceci sulla spalla (Nina è già andata via da qualche ora: fa un'università seria, non come me, e domani deve studiare) e lei si libera dall'abbraccio con Luca.
«Pepi, sono distrutta» le dico sopra la musica, e indico l'uscita.
Lei annuisce, dice qualcosa di veloce all'orecchio di Luca, lo prende per mano e mi segue, mentre mi faccio strada tra gli ultimi discotecari rimastoni: sporadici individui che, sballati, sgambettano ad un ritmo tutto loro e coppiette neo-formate che stanno consumando quelli che hanno tutta l'aria di essere dei preliminari sui divanetti in ombra in fondo alla sala. Non sono mai andata forte coi rimorchi in discoteca - sono una di quelle che di solito piace più per come è dentro, che per come è fatta fuori, e in posti come questi non si riesce mai a fare delle conversazioni particolarmente profonde. Non che abbia mai avuto la possibilità di avere un legame di una sera con qualcuno, comunque: ho cominciato ad andare in discoteca parecchio tempo dopo aver conosciuto Tazio, e non sarei mai stata neanche lontanamente interessata a tradirlo con qualcuno di passeggero. A questo pensiero inizio a boccheggiare, di nuovo.
L'aria fuori è fredda e mi entra nei polmoni facendo ricominciare a funzionare il mio apparato respiratorio. Con mio grandissimo sconcerto, mi rendo conto che sta piovendo. Sono uscita ore prima per andare al lavoro e si stava bene. Ora mi sento congelare, anche se siamo parzialmente riparati nel sottotetto davanti al locale.
«Che freddo...» dico, sfregandomi le mani sulle braccia nude. «Chiamo al volo mio fratello e gli chiedo se è in giro. Vuoi un passaggio a casa?» domando a Cecilia.
Lei mi guarda con gli occhi di fuori. «Tuo...» biascica. «No, grazie mille. Mi porta Luca. Tanto va nella mia direzione, vero?» si rivolge al ragazzo di cui tiene ancora la mano.
Lui le sorride un po' impacciato: «Più o meno...» estrae le chiavi della macchina, e fa scattare l'apertura di una Panda parcheggiata proprio dall'altro lato della strada.
Non abita affatto nella sua direzione, ma non le si può proprio dire di no. Il contrasto tra noi, comuni mortali, e lei, è sempre stato piuttosto evidente fin da quando, in prima liceo (io la conoscevo da poco), aveva deciso di darci un taglio netto, presentandosi un giorno con i capelli corti ed un ciuffo irriverente sul davanti: fatto che, ricordo bene, aveva piuttosto scandalizzato la sua bella e sofisticata madre cittadina che lei, per distanziare il più possibile da sé, ha sempre chiamato con un freddo e distaccato "Madre".
Il contrasto tra i suoi lineamenti fini, gli occhi neri da cerbiatta, e quel taglio maschile, è ciò che di più ha sempre affascinato chi le stava intorno. I suoi colori - tipicamente meridionali, con la pelle olivastra, abbronzatissima d'estate, e i capelli nero corvino - e il suo fisico, magro e slanciato, con pochissime curve, la fanno sembrare più una di quelle modelle che pubblicizzano, completamente struccate, creme viso o detergenti intimi, piuttosto che il genere di ragazze che attirano sguardi languidi da passanti qualunque. La sua bellezza non è mai stata prorompente o appariscente, ma discreta e totalizzante, tanto da stregare chi la capiva; e quelli che l'hanno amata, l'hanno sempre fatto con tale passione da impazzire letteralmente per lei. Di sicuro, il fatto che lei abbia sempre dimostrato una particolare debolezza per i casi limite - bipolari, maneschi, ubriaconi - non ha mai reso le sue relazioni catalogabili come "normali".
Mentre guardo il povero Luca, che le gira intorno da qualche tempo, mi rendo conto che non ha mezza possibilità con lei: innanzitutto è carino, e questa non sembra essere mai stata una necessità nella ricerca di Cecilia, che tende a fissarsi sui particolari, piuttosto che sul complesso (un sorriso sghembo; degli occhi profondi; una risata); in secondo luogo, non ha delle problematiche sociali evidenti che lo renderebbero interessante agli occhi di lei. Sembra un tipo... ordinario, ecco.
Ceci mi dà un bacio veloce: «Sorriso, Lali?» mi dice, mentre si incammina con Luca a passo svelto, sotto la pioggia.
Io chiudo gli occhi ed esagero un sorriso grandissimo.
Lei scoppia in una risata e mi urla, dall'altra parte della strada. «Non ci pensare, ok? Tu sei meglio di quel merdoso». Mi schiocca un bacio da lontano e sale veloce sulla macchina di Luca.
Rimango sola, sotto la tettoia, con la musica della discoteca attenuata in sottofondo, paralizzata dalle ultime parole di Cecilia, che mi riportano quella consueta sensazione di vuoto cosmico nelle budella. Come ogni cazzo di volta che penso a lui da sei mesi a questa parte. Qualche secondo e qualche respiro profondo dopo, riesco a riprendermi.
Estraggo il cellulare ma lo schermo non si accende. Inserire codice PIN.
O. Cazzo. Sono. Fottuta.
«Ceci!». Urlo verso la macchina che è appena sparita dietro l'angolo. «Ceciliaaa!». Ripeto, facendo qualche passo sotto la pioggia, ma ormai so che non può più sentirmi.
Rimango a bocca aperta, mezza nuda, drasticamente ubriaca, sotto la pioggia, in mezzo ad una strada deserta, col cellulare di cui non ricordo assolutamente il PIN in mano (credo di aver segnato, tempo fa, il codice PIN nella rubrica. Del cellulare. Dio, sono da internare).
Sto per fare tutto ciò che una vera ragazza matura farebbe in questo caso (accucciarmi e singhiozzare chiamando la mamma), quando sento una zaffata di odore di fumo provenire dalle mie spalle. Mi riprendo subito e mi volto di scatto.
«Ombroso ragazzo tatuato!» esclamo come se avessi vinto alla lotteria, più a me stessa che a lui, indicandolo. Se ho detto una cosa del genere ad alta voce devo essere più ubriaca di quello che pensavo.
«Strillante ragazza ubriaca» mi risponde lui, senza nemmeno alzare lo sguardo dallo schermo del cellulare. Non mi ero accorta della sua presenza fino a quel momento. È riparato sotto la tettoia del locale ed è appoggiato al muro, a qualche metro da me, con una sigaretta in una mano e il cellulare nell'altra. Con tre passi mi avvicino.
«Ciao» gli dico, con un sorriso smagliante e vagamente ridicolo. «Hai una sigaretta?» poi ci penso un secondo. «No, no, scusa, cancella, non è questo che volevo chiederti. Anzi, in realtà, ora che ci penso bene, se tu avessi anche una sigaretta non sarebbe male...» lui non alza lo sguardo neanche ora che gli sono di fronte. «... in realtà volevo sapere se puoi prestarmi il cellulare. Ma anche una sigaretta non mi dispiacerebbe. Non vorrei essere invadente, figuriamoci, ma ero qui con la mia amica Cecilia...»
«Sì che lo sei» risponde buttando fuori del fumo dalla bocca, senza staccare gli occhi da quel cazzo di cellulare.
«Ah...» rimango un attimo di stucco. «Ok, beh, sai una cosa, ombroso ragazzo tatuato, tu sei proprio un cliché, una macchietta, un Mister Gray qualunque e, se posso aggiungere, sei anche vagamente anacronistico» do forza ad ogni parola scuotendo l'indice davanti al suo petto.
Finalmente alza gli occhi dallo schermo e mi pianta uno sguardo fermo addosso. Per un attimo mi pento di aver fatto quel riferimento altamente letterario ad un libro erotico, perché ora penserà che io sia una bambinetta vagamente pervertita che nel tempo libero fantastica su milionari con la passione nascosta per il sadomaso.
Invece tralascia quella citazione, e mi chiede: «Tu sei ubriaca e usi il termine "anacronistico"?» sembra divertito, ma non ride. O sono io che non riesco a capire la situazione - cosa probabile, non lo nego - oppure questo tizio ha avuto una pessima serata.
«Sì. Sei estremamente anacronistico, caro Ooombroso» gli rispondo, allungando la O senza un particolare motivo, e barcollando un pochino. «Appoggiato al muro, sigarettina piantata in bocca, tutto strafigo nella sua aurea da cattivo ragazzo che si tatua contro un mondo che non lo accetta. Praticamente sei l'eroe di un libro di Jane Austen, se fosse vissuta in questo secolo». E io devo decisamente piantarla coi gin tonic.
«Tu sei matta da legare» commenta - giustamente -, terminato il mio sproloquio, ma finalmente sorride, ed estratto un pacchetto di sigarette dalla tasca, me ne porge una.
Il suo sorriso, come direbbe Junior, ha un'aurea potentissima: è talmente travolgente da renderlo quasi un'altra persona; ne rimango abbagliata, e mi concedo un attimo per studiarlo meglio nella sua interezza. I capelli sono scuri e arruffati, forse dalla pioggia, ed ha una barba corta di qualche giorno. Sembra mio coetaneo, forse qualche anno di più, ma l'atteggiamento è quello di un uomo maturo. Anche se è appoggiato al muro, si vede che è molto alto, azzarderei un metro e novanta. Porta una giacca marrone scuro, ma sul collo e parte delle mani si notano dei tatuaggi complicati che probabilmente continuano anche sul resto del corpo. Gli occhi sono piccoli e scuri, ma guizzano su di me, mentre parlo, in una maniera che, per un attimo, mi imbarazza.
Accetto volentieri la sigaretta mentre mi squadra da capo a piedi, e mi domando cosa può vedere: una ragazza sfatta dopo una giornata sui libri e cinque ore di lavoro, bagnata come un pulcino, col trucco colato fino alle guance, i capelli rossicci attaccati alla faccia, gli occhi rossi per le lenti che non sono affatto abituata a portare. Se avessi due pitbull al guinzaglio, probabilmente passerei per una tossica che elemosina in giro due euro per il biglietto del treno.
«Non mi giudicare...» borbotto, rispondendo al suo sguardo indagatore con una smorfia «... di solito sono una gran figa...»
«Ehi gran figa» mi risponde, indicandomi «ti stai dando fuoco ai capelli»
«Ma cazz...» urlo, e comincio a prendermi a pacche la spalla con le mani, mentre l'odore acre dei capelli bruciati mi riempie le narici. «Che serata di merda!» esclamo urlando e saltellando sotto la pioggia, continuando a sfregarmi i capelli come una matta. «Non è giusto! Una povera ragazza lavora cinque ore di fila ai tavoli, viene pure cazziata dal capo in quanto riesce a rompere nell'ordine due bicchieri di cui un calice da vino e una coppetta per il gelato all'amaretto...»
«Oh, questa sì che è roba tosta...»
Faccio finta di non sentire il suo commento e proseguo la mia lamentela frustrata «... una povera ragazza che vuole solo divertirsi e ubriacarsi ammerda con le proprie migliori amiche...»
«Beh, a giudicare da come barcolli direi che questo ti è riuscito bene!»
«... abbandonata a se stessa sotto la pioggia,» lo interrompo con sguardo serio «senza cellulare né modo alcuno per tornare sana e salva a casa...»
«Vagamente melodrammatica»
«... il tutto dopo circa otto ore sui libri a studiare la suddivisione delle regiones romane di Augusto...»
«Non mi è chiaro dove tu voglia andare a parare...»
«LATIUM ET CAMPANIA!» urlo puntando un dito al cielo, noncurante dei suoi commenti. «APULIA ET CALABRIA! LUCANIA ET BRUTTII!»
«... ah, ecco dove volevi andare a parare» dice lui perplesso, mentre io continuo, indicando il cielo, «SAMNIUM!»
«Hai rotto il cazzo, esaltata» mi urla qualcuno di sconosciuto dall'altro lato della strada.
Io mi volto di scatto e faccio qualche passo sotto la pioggia, fuori di me: «Ehi, porta rispetto verso l'Impero che ti ha dato i natali...»
Sento il ragazzo con cui stavo parlando - o forse dovrei dire: che mi ascoltava durante il monologo, che mi trattiene per un braccio e, con uno strattone, mi fa tornare al riparo sotto la tettoia, assieme a lui.
«Allora furia, dai dell'anacronistico a me e poi sguaini la spada in difesa dell'antico Impero romano?» mentre lo dice è serio, ma mi sembra sorridere con gli occhi.
«... effettivamente, se la metti così...» brontolo «... e per fortuna mi hanno interrotta, perché giuro che non mi sarei ricordata la regione successiva»
«Picenium» dice lui facendo spallucce.
Io apro la bocca, fissandolo, ma poi la richiudo senza dire nulla.
«Che c'è?» mi guarda di sottecchi. «Il "ribelle che lotta contro il mondo" ama la storia e legge parecchio. Siamo nel ventunesimo secolo, avere dei tatuaggi non è necessariamente sinonimo di cattivo ragazzo...» e poi aggiunge con un ghigno, scrutando il mio sguardo «... scommetto che "il merdoso" che ti ha spezzato il cuoricino non era tatuato»
Vacillo. Io, fino a qualche minuto fa, non mi ero resa nemmeno conto della sua presenza, mentre lui ha evidentemente sentito l'ultima frase che mi ha rivolto Cecilia, prima di andarsene.
Ripensare a Tazio mi coglie più impreparata del solito e l'onda d'urto che mi penetra nello stomaco è più forte che mai, perché questa volta non è solo una riflessione generica a lui, a ciò che ha fatto, a ciò che è perso, ma è un'immagine. E, purtroppo, è un'immagine anche troppo vivida, non riesco a cancellarla dalla mia testa, quella della sua schiena, mezza nuda, coperta per metà da un lenzuolo, da cui si intravede una scritta. Un tatuaggio sul fianco... è la prima cosa strana che vedo, in quella stanza mezza buia. Il primo pensiero compiuto: si è fatto un tatuaggio e non me l'ha detto?
Improvvisamente sento tornare la sensazione di malessere che mi blocca le vie respiratorie. Sono abituata a sentirla, ma questa volta è più intensa perché non si limita a stordirmi, ma mi ferisce fisicamente. Non so come trattenerla, non sono preparata. Mi volto di scatto, mi fiondo verso il ciglio del marciapiede e butto fuori tutti i gin tonic che ho bevuto nelle ultime ore. Ci metto un secondo a rendermi conto che il ragazzo appoggiato al muro mi sta sorreggendo e tenendomi dietro i capelli.
«Vai via!» gli biascico, piegata verso la strada, e comincio a spintonarlo lontano da me: non voglio essere vista in queste condizioni. Lui però non si muove, la sua stretta è ferma. Mi guarda dall'alto, senza battere ciglio, con i capelli che si scuriscono bagnandosi di pioggia ogni secondo che passa. «Che figura di merda, che figura di merda...» dico tra me e me, ad alta voce, guardando il marciapiede bagnato, mentre mi dimeno e continuo a dare sberle all'aria, nel tentativo di allontanarlo. Sento lui che ride mentre mi schiva.
Mi gira tutto, e quando mi rialzo ho più freddo di prima. Batto i denti visibilmente, e stringendomi le braccia intorno al corpo, gli dico: «Devo proprio tornare a casa. Se tu potessi chiamarmi un taxi...» il numero di telefono di mio fratello non me lo ricordo a memoria, e chiamare i miei a quest'ora è fuori discussione.
Lui si toglie la giacca e me la mette sulle spalle. «A quest'ora i taxi te li scordi. Se mi prometti che non mi sbocchi in macchina e che ci diamo una mossa, ti porto a casa io» mi dice, rivolgendomi un sorriso stanco e alzando il cappuccio della felpa sulla testa.
Non ho assolutamente voglia di rispettare le regole base dell'educazione: No, grazie, non è necessario, me la posso cavare anche da sola. Nell'arco di un minuto e mezzo circa, sono riuscita a bruciarmi i capelli, immolarmi in nome di Roma e vomitare l'anima su un marciapiede: non è la serata giusta per rifiutare un aiuto e fare gli eroi.
Mi limito a guardarlo con gratitudine - sia per l'offerta di passaggio, che per la sua giacca. Mi fa cenno di seguirlo e, a testa bassa sotto la pioggia battente, ci dirigiamo verso la sua macchina.
Una volta seduta, al riparo da tutta quella pioggia, mi raggomitolo infreddolita e annuso il profumo che emana la sua giacca. Vengo colpita dall'odore piacevole della pelle, misto ad una fragranza più leggera e tenue. È il tipico profumo che il maschio Alpha usa in discoteca, quello che pubblicizzano alla televisione in cui compare un uomo a petto nudo muscoloso e tatuato che, arrogante e altezzoso, viene seguito da una scia di donne in visibilio... mi volto a guardarlo: potrebbe tranquillamente essere quell'uomo.
Anche lui mi guarda, e per un attimo i nostri occhi si scrutano in silenzio.
Poi parla lentamente, come se fossi demente: «Se non mi dici dove andare, stiamo qua tutta la sera...»
Io sgrano gli occhi. «Sì... scusa. Di fronte al Borgo Antico, grazie.» sussurro, dandogli l'indicazione del ristorante in cui lavoro, a qualche centinaio di metri da casa mia. Lui mette in moto e io mi soffermo sulle mani che stringono il volante.
«Li hai ovunque?» indico i tatuaggi. Sulle nocche ha tatuate delle lettere, mentre il resto è un grande marasma di linee e ombreggiature scure.
«Sì...» risponde. Poi si volta verso di me e aggiunge «... quasi ovunque» mi fa l'occhiolino. Rimango paralizzata: era una battuta maliziosa? Io non so mica gestirle, le battute maliziose.
«Perché ammicchi?» gli chiedo, stupita.
«Mi hai fatto una domanda... ho risposto» dice con semplicità, ingranando la prima.
Sono un bel po' stordita, il freddo e i giramenti alla testa sono forti, l'odore della pelle mi comincia a dare alla testa, e mi rendo conto di parlare soltanto dopo che ormai ho già aperto la bocca: «No. Hai ammiccato. Ti ho visto ammiccare. Hai lasciato intendere che fossi tatuato in tutte le parti del corpo» appoggio stancamente la testa sul finestrino, e poi aggiungo: «Hai fatto quello strano tono quando hai detto "Quasi ovunque". Hai anche fatto una pausa di sospensione abbastanza importante tra le due frasi, e hai aggiunto l'occhiolino» l'ultima frase la dico sbadigliando, e poi chiudo gli occhi.
«Tu sei strana...» gli sento dire.
«Sì. Ma tu non ammiccare. Sei troppo figo per poterti permettere di ammiccare...» rispondo vagamente, mentre la testa continua a girare. Sento la sua risata in lontananza, e piombo nel sonno.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top