9

Avanzo, un passo dietro l'altro, varcando la soglia in punta di piedi. Sento ancora addosso il calore emanato dalla sua pelle, molto simile ad un incendio indomabile. La mia mente sembra quella di una persona ubriaca, intontita da un colpo forte e improvviso alla nuca.
Forse agendo d'impulso, ho cambiato di nuovo il corso degli eventi. Mi sento come se avessi appena giocato a poker con il destino che, presto o tardi tornerà a farsi beffe di me.
Non ho paura di affrontare le conseguenze. Ho paura di svegliarmi e rendermi conto di essermi persa. Ho paura di non riconoscermi. Ho paura di avere vissuto in un sogno.
Travis chiude la porta alle mie spalle indicandomi la strada davanti a sé.
Ci troviamo in uno stretto corridoio simile a quello che, generalmente si trova nelle stanze d'hotel.
Il pavimento in finto parquet scuro, le pareti tinteggiate di bianco con dei colpi di spugna color argento e i fari sul tetto a rendere pallidi i nostri volti.
Un mobile con uno specchio sulla destra, dove Travis appende il giubbotto. Aiutandomi a togliere il mio, lo sistema accanto al suo. Ha un ordine direi maniacale. Un dettaglio che non mi dispiace nel complesso, visto che quasi sempre i ragazzi sono disordinati.
Tolgo pure le scarpe muovendo finalmente le dita dei piedi, premendo le piante fredde sul pavimento già caldo. Travis fa la stessa cosa e, a piedi nudi svolta a sinistra.
Lo seguo trovandomi al centro di uno spazio apparentemente grande, arioso e accogliente. L'odore che percepisco nell'immediato, oltre a quello di vaniglia dello spray per ambienti, è quello del cibo italiano. Direi di basilico e sugo che va a mescolarsi all'odore del legno dei mobili, della pelle, del vino.
Le pareti qui sono in alternanza. Alcune di mattoni altre bianche. Una cucina ad isola in stile moderno è stata costruita adiacente al soggiorno dove, davanti ad una vetrata ampia, priva di tende, si trova un divano lungo ad L con i cuscini abbinati disposti in ordine. Un pouf al centro sopra il tappeto peloso. Sopra al pouf vi sono fogli, cartelle, un portatile, un bicchiere da whisky e una bottiglia di bourbon appena aperta.
Alla parete laterale: una tv a schermo piatto enorme dotata di impianto stereo. Davanti ad essa un altro divano, più piccolo. Un mobile in stile moderno sotto la tv, con una PlayStation e tanti giochi disposti in ordine di colore e forse anche di preferenza, su uno dei ripiani insieme a delle piante grasse. Tra le varie mensole vi sono libri, e statuine.
La cosa che mi fa sorridere è la mensola posta tra due pilastri piena di bottiglie di vino, molto simile ad una cantina.
Travis, nel suo ambiente, incurante della bellezza dell'appartamento, gira intorno al bancone in onice lucido e luminoso. Non c'è un filo di polvere su ogni superficie, il che è straordinario.
Apre il frigo pieno zeppo, scegliendo gli ingredienti per il pranzo.
Voltandosi propone: «Pasta?» scuote una confezione di spaghetti.
Sono davanti alla vetrata, quella alta di fianco alla tv. Su questa, al contrario di quella frontale, una tenda bianca pende di lato. Guardo di sotto. C'è una stradina piena di negozi, non solo di alimentari. «Hai gamberi e crema al pistacchio?» Chiedo distratta. Non mi capita poi così spesso di potere apprezzare la bellezza della città guardandola da una prospettiva diversa.
Non siamo poi così in alto come nell'altro appartamento ma la vista rimane comunque un punto fermo nella scelta del piano. Da questi piccoli e apparentemente insignificanti dettagli, inizio a comprendere molto sulla personalità di Travis.
Controlla nella dispensa cercando tra i vari barattoli. «Affermativo.»
Lo raggiungo staccandomi dalla vetrata prima di perdermi in uno dei miei sogni ad occhi aperti.
«Io mi occupo dei gamberi, tu degli spaghetti?»
«Posso accettarlo», mi sorride e intuendo la mia estraneità nel posto, ricordando come ho reagito nel suo appartamento durante la colazione, mette tutto a portata di mano sul ripiano in modo tale da non crearmi imbarazzo.
Apro la confezione con i gamberetti lasciandoli scongelare lievemente. In una padella creo un soffritto semplice per non cambiare il sapore alla pasta.
Aperto il barattolo con la crema al pistacchio, recuperato un cucchiaio, assaggio mentre rigiro i gamberetti in padella, aggiungendo giusto un pizzico di peperoncino.
Travis mi tira il cucchiaio dalla bocca. «Cosa?» Cerco di capirne la ragione.
Assaggia la crema usando il mio cucchiaino. «Ti piace il pistacchio?» scola la pasta.
«Se è buono e italiano come questo, si», rispondo mettendomi da parte per permettergli di buttare gli spaghetti sulla padella dove aggiungo due cucchiai abbondanti di crema al pistacchio, molto simile ad un pesto.
Travis non perde un movimento. A volte sembra tanto avere la curiosità di un bambino. Un aspetto così genuino e tenero da far incuriosire anche me.
Sistema due piatti su due tovaglie create da piccoli pezzi di canna incastrati e tenuti dritti da un bordo di stoffa ben cucito, le posate avvolge dal tovagliolo, due calici e una bottiglia di vino al centro mentre con attenzione servo la pasta imitando gli chef che ho sempre guardato in tv insieme a zia Marin.
Aspetta che mi sia seduta e senza fare complimenti assaggia una generosa forchettata di pasta. «Hmm», lecca le labbra.
Nascondo un sorriso soddisfatto mangiando tranquillamente, guardando il tetto pieno di travi in legno e fuori. I miei occhi saettano sempre verso quella direzione dove il cielo grigio sembra scendere. Tra i palazzi più alti infatti, posso notare una calotta di nebbia pronta a riempire ogni angolo.
Travis stappa la bottiglia versando un generoso bicchiere di vino. «Vuoi farmi ubriacare?»
Alza il calice nella mia direzione. «Vuoi ubriacarti?»
Sbuffo bevendo un sorso del vino bianco che ha scelto. È delicato ma forte allo stesso tempo. Lo sento quando scende lungo la gola e il calore si espande nell'immediato su tutto il petto facendomi tossicchiare. «Hmm», imito il suo verso dopo essermi ripresa.
«Chi ti ha insegnato a cucinare così bene?»
Caccio in bocca l'ultimo gamberetto. «O ti adatti o muori di fame», biascico pulendomi le labbra.
Intuendo di avere stuzzicato la sua curiosità continuo: «ricordi che ti ho raccontato di avere perso i miei genitori a quindici anni?»
«Si, hai iniziato a cucinare da quel momento?»
«Zia Marin ha avuto un periodo buio. Insomma, aveva perso suo marito, il fratello ovvero mio padre, ed è entrata in depressione. Non faceva più niente se non piangere e recarsi al cimitero dove si sedeva per ore sulla loro tomba. E pensare che non sapevo neanche cucinare un uovo. Ero viziata...» abbasso lo sguardo sulle mie mani tenute in grembo. Le dita strette, in una morsa dolorosa. Perché il passato non è solo una ferita aperta. Il passato è quel dolore intenso che provi tramite un ricordo e non se ne va più. Non va più via la sensazione simile al fuoco e poi al vuoto.
«Quando sono morti i miei genitori la mia vita ha subito un brusco cambiamento. Prima facevano tutto loro. Zia Marin stava già male a causa del suo problema alla spina dorsale poi per la depressione e io cercavo in tutti i modi di non perderla. Le cucinavo sempre un dolce e alla fine ho imparato, un aiuto in più l'ho avuto anche grazie ai programmi di cucina che lei guardava e al mio amico Dan che ha un locale.»
Mi stringo nelle spalle alzando il viso.
I ricordi sono come schegge. Frammenti che tagliano ancora e ancora la mia fragile esistenza.
Il silenzio mi mette quasi paura. «Tocca a te». Sorrido timida riempendo il vuoto.
Travis beve un sorso di vino. Inizialmente non parla. In parte incassa il peso delle mie parole. «Che cosa vuoi sapere?»
«Sai cucinare. Hai una casa pulita, in ordine. Non ami la polvere o il caos.»
«Si, mi sono adattato anch'io», dice sfuggente.
Decido di non indagare oltre e alzandomi tolgo i piatti. Ovviamente si solleva dallo sgabello a ruota seguendomi. Sta osservando le mie mani.
«Non mi piace parlare del passato. Non voglio che pensi che non voglia...»
«Lo capisco. Non preoccuparti.»
«No, non capisci. Io ho chiuso con il mio passato. Per questo non parlo della mia faccia o di cosa mi ha costretto a cambiare vita.»
Dopo avere lavato i due piatti e le posate, mi siedo sul ripiano. Un vizio che ho sempre avuto e non sono mai riuscita a togliere. A Travis non sembra dargli particolare fastidio.
«È stato doloroso?»
Fa un passo verso di me trovandosi davanti. Indugia. Le sue mani si fermano ai lati delle mie cosce chiuse e tenute strette. Abbassa il viso ritrovandosi alla mia altezza. «Che cosa vedi esattamente?»
La domanda mi spiazza. I suoi occhi non tradiscono alcuna emozione. Non riesco a leggere niente.
«Posso essere sincera?»
Fa un altro passo verso di me. In riflesso allargo un po' le gambe e lui si sistema al centro senza mai toccarmi, mantenendo sempre un certo rispetto. Siamo ancora faccia a faccia. «Dimmi la verità. Guardarmi attentamente. Che cosa vedi?»
La mia mano avanza tremula verso il suo viso. Si irrigidisce nell'immediato come un animale pronto a difendersi. Quando vede che sto sfiorando la parte illesa torna a respirare ma rimane comunque guardingo, attento ad ogni mia mossa. Poso il palmo sulla sua guancia percependo il suo calore, il pollice accarezza la pelle, la leggera peluria che pizzica i polpastrelli al loro passaggio. Risalgo sul sopracciglio toccando il taglio di circa tre centimetri. Ha una profondità millimetrica ma percepisco lo stesso il distacco tra la pelle lesionata e quella liscia che ha naturalmente.
«Stai facendo del tuo meglio fingendo di avere voltato pagina. Forse non lo ammetti, ma sei questo. Sei un sorriso finto, uno sguardo dolce in grado di nascondere dentro il peso di un dolore atroce. Non te ne accorgi che qualcuno non nota solo la maschera che hai deciso di indossare per proteggerti. Non te ne accorgi perché fingi di stare bene. Ma io lo vedo che non è vero.»
Le parole escono dalla mia bocca come un fiume in piena. Ma, non me ne pento. È quello che penso, quello che vedo davvero.
Travis afferra la mia mano come se fosse una mosca allontanandola dal suo viso. Mi regala una nuova scarica, un nuovo brivido, una nuova sensazione quando mi inchioda sul posto con i suoi occhi così diversi ma che vedono la stessa cosa. Mi vedono. Vedono la mia anima. Mi spogliano di ogni certezza. Mi regalano un attimo di pura follia.
La sua mano coperta dal guanto si posa sulla mia coscia. Il secondo gesto spontaneo che fa da quando ci siamo visti. Non indugia. Non si cura di una mia possibile brusca reazione.
Non mi agito quando sento la pressione del palmo, non mi ritraggo. Non lo farei a prescindere. La sensazione è più piacevole di quanto immaginassi.
Lascia andare la mia mano ancora tenuta in alto e da questo intuisco il suo volere, quindi non mi permetto più di toccarlo. Di azzardare così tanto.
Mi divarica le cosce sistemandosi più vicino. Un gesto questo che mi coglie impreparata.
Il suo viso si abbassa verso il mio, avvicinandosi così tanto da percepirne il suo calore, la fragranza che lo caratterizza. Odora di colonia, bagnoschiuma all'olio di cocco.
Le sue narici si dilatano quando i miei palmi dapprima messi bene in vista per avvisarlo di una mia imminente azione, si posano sul suo petto.
Indossa un maglione scuro morbido al tatto. Nessuna camicia sotto. Pantaloni stretti ed è a piedi nudi.
Ha un petto massiccio. Non sento particolari differenze. Non percepisco alcuna cicatrice sotto il tessuto.
Freme in seguito al mio tocco, seppur non invadente, ma improvviso.
Mi sorprende quando appoggia la fronte sulla mia premendo forte, come se dovesse trasmettermi ogni suo pensiero nascosto. Schiudo le labbra sentendo depositarsi sul basso ventre quella scarica pericolosa, in grado di farmi salire lungo la gola un gemito che trattengo a stento. Sento il mio corpo tendersi, la mia mente sul punto di perdere il controllo.
Chiudo gli occhi concentrandomi, godendomi il suo calore, il suo odore, tutto sulla pelle.
Le mie mani prudono, vorrebbero risalire sul suo viso e poi affondare tra i suoi capelli. Le tengo ben piantate sul suo petto.
«Hai ragione», sussurra roco. «Facevo del mio meglio fingendo di avere voltato pagina prima di incontrarti e avere la consapevolezza di essermi illuso.»
Spalanco gli occhi. I suoi sono aperti e vigili. Dritti e fissi nei miei impreparati alla loro forza, alla loro spietata bellezza. Così sinceri da disarmarmi. Così lucidi da farmi tremare le vene ai polsi.
«Che cosa vorresti dire?»
«Ho impiegato anni per costruire quei muri, quelle barriere, questa maschera che tu, quando sei arrivata, hai buttato giù con una facilità tale da disarmarmi.»
«Non credo di avere armi nascoste e di saperle usare», mormoro con la gola secca.
«Ti sbagli. Hai lasciato un cumulo di macerie al tuo passaggio così invadente e improvviso. Pezzi acuminati che rischiano di ferirmi. Per questa ragione continuo a fare attenzione con te.»
Non so se esserne lusingata o se preoccuparmi. «Mi stai dicendo che non ti piaccio?»
Alza il labbro. Trattiene una risata nervosa o una battuta che ha già sulla punta della lingua. Il suo fiato mi solletica le labbra.
Rimango in apnea fino a quando staccandosi, mi lascia con il dubbio. Va a sedersi sul divano, quello davanti alla vetrata, dalla quale si nota parte della città di Manhattan. Grattacieli, aerei che volano praticamente di continuo.
La vetrata è aperta sulla parte alta. Da questa entra il rumore di una città caotica sia di giorno che di notte. Sirene, voci, auto che sfrecciano, ambulanti, i musicisti che si esibiscono in una piazza vicina con i loro impianti stereo, le casse e i microfoni senza fili.
Scendo dal bancone sentendomi frastornata, perché il momento appena vissuto è stato da mozzare il fiato. Neanche Dan riesce a farmi provare una simile sensazione. Ma con lui siamo amici. Travis per me è ancora un estraneo.
È come se fossi leggera e allo stesso tempo fatta di piombo. Un palloncino volato via e trascinato in fretta dalla corrente.
Mi siedo accanto a lui mantenendomi a distanza. Come se non volessi invadere il suo spazio vitale.
Tiene la bottiglia e il calice in mano. Versa il vino facendo attenzione a non farne cadere una goccia. Me ne passa uno pieno. Ricordo quello che ha detto all'inizio alla mia domanda, rispondendo con un'altra domanda che, lì per lì poteva essere fraintesa come un gioco malizioso iniziato banalmente. "Vuoi ubriacarti?". Ciò significa che sono io a decidere e nessun altro.
Accetto di buon grado bevendone un sorso, riscaldandomi mentre lui alzandosi con il bicchiere in mano, attizza il fuoco del caminetto posto di fianco a questo divano comodo, nuovo ed enorme. Il pavimento è dotato di impianto di riscaldamento e i miei piedi sono più caldi di sempre, visto che solitamente li ho gelati.
Davanti a me il pouf. Sbircio sugli appunti più vicini e, quando si siede, intuendo la mia curiosità, me li mostra senza problemi.
«Che cos'è?»
«È il resoconto di Nan», spiega. «Quando è venuta a trovarti portandoti il pranzo, ha scritto tutto in una relazione. È stato quello che ha messo nero su bianco di te che mi ha spinto a venire a controllare di persona.»
Leggo attentamente sistemandomi con un piede sotto il sedere e il calice in una mano. Nan deve ammirarmi e credere parecchio in me, se ha avuto la necessità di scrivere parole tanto dolci quanto professionali, a tal punto da spingere Travis, il suo capo, a venire a controllare.
«Non ho deluso le aspettative?»
«Le mie, le sue, direi di no. Ho fatto una scelta davvero importante affidandoti il lavoro.»
Mi appoggio al divano giocando con il bordo del calice e tenendo un cuscino in grembo. Mi guardo ancora un po' intorno. «E così... qui è dove avviene la magia?»
Ride. «È un appartamento tranquillo dove mi piace gestire il lavoro. Lo uso quando il mondo mi sta stretto e ho bisogno di pensare senza pressioni.»
«Dove dormi?»
Si irrigidisce. «Non riesco a dormire ultimamente. Ad ogni modo, di là c'è una camera da letto e un bagno. Capita di sentirmi stanco e di approfittarne per un sonnellino pomeridiano. Solitamente però riposo nel mio appartamento. Come vedi sono single e non sono un vecchio maniaco.»
Rido posando il bicchiere vuoto a terra. «No, non lo sei. Ma volevo controllare sul comodino.»
Scuote la testa chiaramente divertito dalla mia battuta. Sta escogitando qualcosa. Infatti, alzandosi mi fa sollevare. Tenendomi la mano mi porta oltre la cucina dove si trova un breve corridoio. A destra vi è un bagno a sinistra una stanza. «Controlla pure. Anche nei cassetti, non si sa mai.»
Appoggiato allo stipite della porta incrocia le braccia.
«Mi stai davvero chiedendo...»
«Hai paura adesso?»
Mi volto avanzando. La camera è piena di luce. Bianca la testiera del letto. Un piumone nero, le coperte e i cuscini bianchi. Superato il tappeto morbido, caldo sotto il tessuto dei calzini, raggiungo il comodino. Sopra c'è un libro, un thriller da poco uscito in libreria e una lampada, nell'altro una sveglia, un'altra lampada e una scatola di fazzoletti.
Scosto la tenda notando il fiume, gli alberi, il ponte. C'è anche un piccolo parco a pochi passi dal palazzo. Il verde del prato è in netto contrasto con il grigio.
«I cassetti», mi provoca esortandomi.
Riscuotendomi guardo l'armadio a parete poi lui divertito e ancora appoggiato allo stipite della porta.
«Posso fidarmi sulla parola.»
Nega indicandoli con l'indice. Posa poi il pollice sul labbro rimanendo in attesa.
Una posa sensuale rifletto affascinata. Mordendomi il labbro e sedendomi sul bordo del letto, apro il primo cassetto in basso. Lo faccio come se dovessi strappare un cerotto. Mi sento delusa. Dentro non c'è niente. Neanche una falena ad uscire.
Procedo con il secondo cassetto. Qui invece trovo il suo intimo. «Boxer e calzini firmati, non l'avrei mai detto», sussurro con sarcasmo. «È il momento della verità», dico per farglielo sentire. Apro il primo cassetto e scoppio subito a ridere. «Sei uno stronzo! Ammettilo, l'hai fatto di proposito», gli lancio addosso la confezione di profilattici. «È poi che ci fai con questi?»
Ride prendendola al volo. «Sei tutta rossa», dice avvicinandosi.
Trattengo la voglia di strillare o scappare rimanendo ferma.
Posa la scatola dentro il cassetto chiudendolo con una certa forza. «Vuoi controllare anche l'altro?»
Nego. «Ti credo sulla parola.»
Sorride. «Sulla parola?»
«Ok, non prendi nessuna pillola blu per...» faccio il gesto con il dito sollevandolo e lui inumidendosi le lebbra mi riaccompagna in soggiorno.
«E comunque la tua domanda era inutile perché sai che cosa si fa con quelli.»
Mi siedo di nuovo sul divano più che a mio agio, lui accende il portatile controllando qualcosa.
Lo vedo sorridere mentre il cielo si riflette mescolandosi nelle sue iridi. È come guardare i pianeti collidere, le stelle bruciare, i nostri mondi esplodere in mille bagliori colorati.
Scrive velocemente, le sue dita affusolate premono sui tasti senza mai guardarli. E mentre osservo le sue mani le sento ancora addosso e scrollo le spalle liberandomi da un formicolio improvviso.
Il mio telefono ronza. Corrugo la fronte controllando che non sia ancora zia Marin. Invece trovo un'e-mail.

"Cara B,
Hai avuto la conferma. Non sono un vecchio. Sul mio comodino non c'è nessuna confezione di pillole blu.
Adesso che non faccio più parte dei vecchi maniaci, ti fidi almeno un po'?
- MisterX".

Lo guardo mordendomi un'unghia poi rispondo con finta innocenza.

"Caro MisterX,
No. Niente pillole blu. Solo scatole sospette formatto extra dentro il primo cassetto.
#Contenitivimanonabbastanza?
- B".

Ride. Beve un sorso di vino mettendosi comodo sul divano digitando velocemente una risposta.

"Cara B,
Presumo tu stia già immaginando le dimensioni del mio amico o dovrei chiamarlo con il suo nome?
L'hashtag non me lo aspettavo proprio così, ma si, #ilmiouccelloèmessobene.
Sei un'osservatrice scaltra. Devo fare attenzione con te. La prossima volta nasconderò meglio certe scatole.
Ma una cosa di te la so anch'io. E mi diverte avere seppur in minima parte un vantaggio.
#socheintimoindossi.
- MisterX".

Avvampo. Sento proprio le guance prendere fuoco nell'immediato.
Da lontano posso osservarlo di nascosto. È lì con il volto basso e attento sullo schermo del computer che aspetta una mia risposta, tamburellando con le dita sul bordo del computer.
Si gira. Inspira ed espira lentamente, so che mi guarda. Sento scivolarmi dentro ogni suo respiro. Lo fa con un'intensità tale da mozzarmi il fiato. Riesce a spogliarmi l'anima senza sfiorarla. Scava dentro, come se cercasse di tirarmi fuori dalla voragine buia che ho creato.
È l'unica persona che riesce a far vacillare ogni mia convinzione, ogni piccola certezza tramutandola in dubbio.

"Caro MisterX,
Sai cosa indosso solo perché sono io a mostrarlo nei video che, guardi per aiutare il tuo amico o come hai detto tu: #iltuouccellomessobene.
Rettifico: #grazieaimieivideoèmessobeneefunziona. In ogni caso, ti sfido ad indovinare cosa indosso sotto oggi.
- B".

Accavallo le gambe bevendo un sorso di vino. Sono curiosa di leggere un nuovo messaggio.

"Cara B,
Intimo rosa di pizzo e se neghi ti sfido a spogliarti qui davanti a me. Magari puoi aggiungere un bel balletto così #aiutiilmioamico o come lo chiamo io #ilmiouccellomessobene.
- MisterX".

"Caro MisterX,
Di pizzo si, ma non rosa quindi il tuo #amicodormiente, dovrà..."

Sto scrivendo una risposta ma arriva un altra e-mail.

"Cara B,
Mi correggo: il tuo intimo è nero di pizzo non rosa. Ha anche delle trasparenze parecchio interessanti.
Nega adesso se ci riesci! :P
- MisterX".

"Caro MisterX,
Hai indovinato. Ma non ballerò per te e per aiutare il tuo amico/uccello.
Il mio ex lavoro da ballerina attualmente è off limit. Un 'filtro' per la precisione.
- B".

Chiude il portatile alzandosi come una molla. Non riesco a comprendere la sua reazione.
Gira intorno alla cucina aprendo la dispensa. Sceglie un paio di snack e dolciumi.
«Al volo», esclama lanciandomi delle confezioni, forse per valutare i miei riflessi. Reese's e Cookies.
Per fortuna sono sempre stata agile seppur goffa in determinate situazioni.
Torna da me sedendosi accanto. Sulle labbra continua a trattenere un sorriso. Lo spingo delicatamente e giocosamente.
«Caro MisterX, sei sempre così sicuro di te?»
«Cara B, si. So cosa mi piace e so cosa voglio.»
Scarto un Reese's dandogli un morso. «E cosa vuoi?»
Avevo quasi dimenticato il loro sapore. Mastico con gusto. Lui osserva le mie labbra, poi mi ruba il pezzo sparendo nell'altra stanza.
Rimango interdetta. Attendo che ritorni e quando lo fa, si stende sul divano. Chiede poi silenziosamente il permesso sistemando la testa sulle mie gambe, dapprima incrociate, che allungo mentre lui mettendosi comodo posa la testa sul mio ventre.
Sembra un gesto così normale da non pormi neanche il problema di essere in compagnia di un estraneo. In fondo non è più MisterX. Non lo è da quando i nostri occhi si sono scontrati e sciolti in un mare di sensazioni.
«Sei andato a controllare il tuo amico?»
Ride stringendomi i polsi. Apre i miei palmi intrecciando le nostre dita, sistemandole sul suo petto. In questo modo sono io ad abbracciarlo da dietro.
«No, dovevo fare una chiamata.»
«Come mai oggi non hai lavorato?»
«Ogni tanto piace anche a me staccare la spina», respira lentamente fissando davanti a sé. «In fondo non è poi così male trascorrere del tempo con qualcuno in grado di sorprenderti.»
Alzandosi a metà busto, voltandosi e sporgendosi lievemente, sfiora con le dita le mie labbra.
Corrugo la fronte. La sensazione dovuta al suo tocco è più che piacevole. Ma c'è qualcosa che lo impensierisce.
«Perché lo fai?» chiedo attenta.
«Fare che cosa?» prova a staccarsi ma lo fermo. «Trattarmi così. Insomma... non siamo amici, anche se inizio a ricevere qualche bollino, non siamo neanche conoscenti...»
Il suo viso si fa ancora più vicino. Sento le sue labbra sulle mie e tremo. Scivolo sulla superficie e lui reggendosi sulle braccia rimane lo stesso a pochi centimetri.
«Perché ne vali la pena», sussurra.
Poso i palmi sulle sue spalle. «Ma sei distante», mormoro tenendo a bada l'istinto di avvicinarlo ancora.
Ho la mente appannata. Un senso di benessere che mi spinge a rischiare. Non so neanche io quello che sto facendo.
«Meno di quanto mi piacerebbe.»
Sembra rimproverare se stesso perché alzandosi, lasciandomi senza fiato, si avvicina alla vetrata.
Ci metto ancora un paio di minuti per riprendermi. Con le gambe che sembrano fatte di gelatina, mi avvicino a lui. Poso il palmo sulla sua spalla. Lo guarda seguendolo mentre mi sistemo davanti.
Non riesco a mantenermi lontana da lui. Percepisco il bisogno del suo contatto. Di sentire ancora addosso il suo calore, quello della sua pelle sulla mia. Mi avvicino bramosa. Ignoro la sensazione di paura. Quella del rifiuto.
«Sto per fare una cosa», lo avviso e, prima di vederlo irrigidirsi, lo abbraccio rimanendo in punta di piedi. In equilibrio instabile.
Dopo una breve esitazione, quando penso che stia per allontanarmi, le sue braccia avvolgono anche me, mi coprono come una coperta calda tenendomi al sicuro. Perché in certi abbracci puoi farci di tutto, principalmente nasconderti. Puoi tenerci i pensieri, i sogni, la tristezza, la paura.
Affonda il viso sul mio collo e dalla mia bocca sfugge un respiro strozzato. «Terrò a mente che sai essere molto pericolosa.»
Indietreggiamo all'unisono, senza controllo. Mi ritrovo adagiata con la schiena contro la vetrata e il suo corpo premuto al mio.
Stringo l'abbraccio inspirando il suo buonissimo odore e il suo respiro cambia consumando l'aria intorno che diventa calda. Muovo in riflesso i fianchi e lui scuote la testa annaspando. «Adesso sciogliamo questo abbraccio simile ad una trappola.»
Alzo il viso e siamo vicinissimi. Un passo falso e potrebbe succedere di tutto. Soprattutto potrei perdermi.
«Vuoi usare un filtro?»
Nega strofinando la punta del naso sul mio. Un gesto così intimo che per poco non mi fa sciogliere. «No», sussurra. «Non basterebbe. Servirebbe più una parete», esclama tirandosi indietro. Passa il palmo sulla nuca allungando il collo.
Lievemente stordita, mi volto per non avere ancora l'istinto di trovarmi tra le sue braccia.
Fuori, il sole sta tramontando al di là della coltre di nuvole. I raggi arrivano ovunque riflettendo sulle superfici a specchio.
Che ore sono?
Il mio telefono squilla. Corro a recuperarlo sul divano dove l'ho lasciato.
«Pronto?»
«Bi, sono venti minuti che aspetto in sala. Che fine hai fatto? È successo qualcosa?Sono passate le sei e ancora non sei arrivata. Non sei mai in ritardo», zia Marin alza il tono spaventandomi.
Spalanco gli occhi che escono fuori dalle orbite. «Si, scusami. Arrivo.»
Guardandomi intorno più che confusa e nel panico, mi avvio alla porta.
«Bambi, dove sei? Mi vuoi dire che succede? Hai appena risposto con un tono simile ad una strafatta di roba.»
«Non succede niente. Non ho assunto nessuna sostanza. Ho detto che sto arrivando», replico più brusca del necessario mordendomi il labbro, tirando forte una pellicina.
Travis si avvicina mentre indosso le scarpe tenendo il telefono tra l'orecchio e la spalla. Sono così agitata da far sbloccare la lampo dello stivale.
Zia Marin sbuffa dall'altro capo del telefono. «Ok, farò finta di avere immaginato tutto. Mi trovi nella mia stanza. Non mi va più di rimanere in questa sala piena di piagnoni.»
«Ok, a tra poco.» Riaggancio senza neanche darle il tempo di continuare a brontolare.
«Dove vai?»
Travis si incupisce.
«Non sto sgusciando via dal letto come un'amante. Devo raggiungere mia zia che mi sta già aspettando da venti minuti. Ti avevo detto che mi tiene sotto controllo. Infatti pensa che io sia caduta in un brutto giro. Inoltre era strana. I farmaci devono averle fatto un certo effetto oggi», dico infilando il cappotto malamente con la mente piena zeppa di pensieri.
Travis indossa il suo giubbotto recuperando le chiavi dell'auto e dell'appartamento. «Ti do un passaggio. Così non rischi di essere investita. Non so se hai notato ma sei parecchio agitata e confusa.»
«Non devi per forza...» mi fermo notando la sua espressione. «Non sto scappando. Credimi, mi sarebbe piaciuto rimanere ancora un po' qui con te. Oggi il tempo è volato senza neanche rendermene conto ma, devo proprio andare.»
Apre la porta spalancandola, a grandi passi chiama l'ascensore premendo rabbiosamente e ripetutamente il dito sul pulsante.
Chiudo la porta piano, affiancandomi in silenzio. Le porte dell'ascensore si aprono e lui ha ancora la stessa reazione. Si accanisce su quei tasti.
Siamo soli dentro l'abitacolo, ma crea una certa distanza mettendosi all'angolo. Mi fa stare male, ma non so proprio come reagire.
«Non mi dici niente?»
Raggiungiamo troppo in fretta il sotterraneo dove si trova la sua auto.
Esce come un indemoniato dall'ascensore e una volta in auto, continua a non dire niente.
Accende il motore pronto a partire ma sporgendomi giro la chiave. «Trav!» la voce mi esce stridula.
«Che c'è?» sbraita.
Mi irrigidisco. Aggrotto la fronte.
«Io non so gestire questa cosa», dice innervosito e senza fiato gesticolando. «Dimmi dove cazzo devi andare.»
«La clinica si trova a cinque minuti da qui. Due strade dopo l'incrocio qui vicino», balbetto. «Non devi per forza...»
«Bene», continua a ringhiare interrompendomi.
Usciamo quasi sgommando dal sotterraneo, subendo gli insulti da parte di alcuni tassisti che si trovano sulla nostra strada quando spuntiamo come saette davanti a loro, tagliandogli persino la strada.
Caccio un breve urlo tenendomi al bracciolo dello sportello. Il cuore a battere forte dalla paura, dal panico crescente. Nel giro di pochi minuti sono davanti alla clinica. Illuminata dai fari e dalle luci si erge maestosa nel buio pesto presente in zona.
Non voglio scendere senza prima avere chiarito con lui qualunque o qualsiasi cosa ci sia stato prima, per cui mi volto aggiustando una ciocca dietro l'orecchio. Prendo un respiro e anche il coraggio di parlare.
«Trav, mi dici che cosa ho fatto di sbagliato?»
Guarda davanti a sé. «Non ti sta aspettando tua zia?»
Crede che sia una scusa?
«Non se tu mi tieni il broncio senza una ragione. Almeno dammi una spiegazione. Non farmi sentire una stupida.»
Notando la sua reazione così fredda e distante prendo una decisione che, con ogni probabilità cambierà molte cose.
Pesco il telefono chiamando mia zia.
«Bambi, dove diavolo sei? Ho chiamato Dan ma lui oggi non ti ha neanche incontrata...»
«Scusami tanto zia, per stasera non credo di riuscire a raggiungerti. Ho una cosa importante da risolvere. E non mandare Dan a casa, ti prego. Lascialo lavorare e riposare. Domani starò lì con te, promesso!»
Travis mi sta guardando con un cipiglio. Assottigliando la palpebra calcolando attentamente ogni mia mossa. Sentendo le mie parole aggrotta la fronte e gli si forma sotto l'occhio non coperto dalla maschera un'altra ruga. Ascolta ogni mia frase stringendo i pugni sulle ginocchia, con l'istinto di afferrare il telefono e fermarmi.
«Se non ti presenti domani non sarà solo Dan a farsi trovare dietro la porta ma io e i miei rimproveri. E voglio sapere cosa ti sta succedendo. Intese, signorina?»
«Si, a domani. Ti voglio bene.»
«Non fare cazzate. Ti voglio bene.»
Riaggancio più che in fretta guardando Travis. «Parti!» ordino agitata.
Il pensiero di averlo deluso o ferito mi fa stare male.
«Non avresti dovuto...»
«Odio vederti così!» urlo senza una ragione. «Mi rende nervosa. Mi fa sentire asfissiata. Quindi, portami da qualche parte. Anche di nuovo al tuo appartamento, non importa dove. Andiamo via, ma parlami. Non ignorarmi.»
Batte le palpebre come se si fosse appena svegliato da un lungo incubo.
Riavvia il motore guidando verso il suo appartamento. Inizialmente non sa che cosa dire. Forse si sente in imbarazzo per l'atteggiamento avuto. Perché lo so che sta elaborando tutto. Ogni cosa è partita proprio da lui, dalla sua reazione.
«Perché?»
«Perché non capisco che ti è successo. Prima eri così sereno poi... sei come cambiato. Mi hai persino urlato addosso.»
Gratta la guancia. «Ho avuto un momento di...» non trova le parole. Picchia persino il pugno sul volante ringhiando tra i denti qualcosa.
«Di cosa?»
«Te ne stavi andando così in fretta senza neanche guardarmi in faccia e io... sono andato nel panico. Ho pensato che stessi usando una scusa per scappare. Mi sono sentito un mostro. Ho pensato di avere sbagliato qualcosa.»
Sorpresa lo guardo di sbieco. «Sei andato nel panico», ripeto le sue stesse parole simili ad un pugno nello stomaco.
Conferma annuendo un paio di volte stringendo i denti, contraendo la mascella. «È come se dentro di me fosse scattato qualcosa quando sei scappata verso la porta», scrolla la testa passando la mano sul viso non intaccato dai segni. «Dio, che stupido! Tu stavi davvero andando da tua zia e io...»
«Mi serve una sbronza. Di quelle forti.»
Appiattita sul sedile, rimango a fissare la strada davanti a me. Non oso guardarlo. Non oso più aprire la bocca.
Di nuovo nel suo appartamento. Scivolo sul divano. Lui si avvicina cauto con un calice di vino rosso. Un segno di scuse.
Lo mando giù d'un fiato puntandogli l'indice contro quando prova a dissentire. «No, non mi fai la paternale e non mi dici quali sono i rischi del bere. Non mi succederà niente se sto sul divano. E no, non ti scusi così in fretta e non ti perdono finché non mi spieghi che cazzo ti è passato per l testa. Dovevi proprio vederti.»
Bevo il secondo bicchiere adesso con meno fretta ma svuotandolo come il primo, attendendo paziente.
Passa il palmo tra i capelli. Accende le luci dell'appartamento una ad una, mentre là fuori anche la città si accende tempestandosi di punti luminosi, alcuni ad intermittenza.
Il vino riscalda il mio corpo intorpidito. Bevo il terzo bicchiere sentendomi assetata.
«Mi mandi in tilt. Non capisco più un cazzo quando ci sei tu.»
Si siede accanto a me. «Mi sento un vero idiota per come mi sono comportato. Ho avuto una reazione immotivata. Il fatto è che...» beve anche lui. «Tu mi stai trascinando fuori da quel posto buio in cui mi sono adagiato. Mi stai strappando via dalla monotonia.»
«E non ti piace?» Lo guardo male.
«Mi fa impazzire», dice alzandosi. Raggiunge la vetrata appoggiando la fronte sul vetro. Quando respira si crea un alone di condensa che svanisce velocemente.
«È da anni che cerco la solitudine. Adesso arrivi tu... e tutto va a farsi fottere», sussurra in un soffio.
Mi avvicino a lui. Tolgo il bicchiere dalle sue mani e tirandolo al centro della stanza lo costringo a ballare con me. Ci muoviamo piano, da destra verso sinistra e viceversa. Oscilliamo guardandoci negli occhi.
«Era meglio prima o adesso?» biascico sentendo l'alcol prendersi gioco del mio corpo, della mia mente. Appanna tutto rendendomi leggera.
«Direi adesso.»
Sorrido tirando le sue mani, stringendole dietro la mia schiena.
«E tu invece, che mi dici?» mi mette alla prova.
«Mi piace come mi fai sentire ma odio allo stesso tempo questa tua imprevedibilità. Non posso controllarti e mi fa ammattire», dico in modo sconnesso. Staccandomi mi siedo sul divano. «Io non voglio destabilizzare il tuo mondo. Ma neanche il tuo può collidere di continuo con il mio.»
Va in cucina a prendere qualcosa mentre mi sdraio chiudendo le palpebre improvvisamente pesanti.
Percepisco il suo odore, solo così capisco che è vicino.
«Sei un terremoto dentro di me, Bi.»
Cerco la sua mano tirandola al petto. «E tu sei...»
Sento un fischio terribile alle orecchie, un urlo abbastanza forte da farmi accapponare la pelle. Mi sveglio di soprassalto, ho appena avuto un incubo. Ero io quella a gridare e non sono sul divano dove mi sono stesa prima di addormentarmi lasciando a metà la frase, ma sul letto, sotto la coperta che ha il suo stramaledetto odore.
Lui non è sdraiato. Non ha sentito la mia tristezza, la disperazione.
Mi alzo velocemente sentendo girare tutto, ma testarda esco dalla stanza cercandolo. Ho ancora addosso il sentore della paura dovuta all'incubo.
Supero la cucina e lo vedo. Se ne sta al computer, una tazza in mano e lo sguardo concentrato sullo schermo.
Percependo la mia vicinanza si volta, chiude il portatile velocemente, forse notando il mio sgomento e, alzandosi mi si avvicina cauto.
«Che succede?»
«Non c'eri», strillo con rimprovero spingendolo.
«Non riesco a dormire, te l'ho detto. Io...»
«Cazzate», afferrandolo per una mano lo tiro a me costringendolo a seguirmi in camera. Lui si lascia guidare stordito dal mio comportamento.
Scosto la coperta ed esita prima di sdraiarsi.
Spengo la luce sistemando la coperta.
«Bi io...»
Mi stendo su un fianco. «Abbracciami», ordino brusca. «Abbracciami e smettila di scappare.»
Apre e richiude la bocca frastornato. Lo vedo grazie alla luce proveniente dall'esterno.
Alla fine, prendendo un lungo respiro, fa come dico stendendosi, lasciando aderire il petto alla mia schiena.
Sento il suo fiato caldo sulla nuca e stringo maggiormente il suo braccio premendomi a lui come se dovessimo fonderci.
«Adesso dormi», mugugno imbronciata. «E non lasciarmi sola.»

♥️

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