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Non riesco a contenere il sorriso che esce spontaneamente dalle mie labbra. Lo mostro come se fosse proprio l'ultimo della mia vita. Una sola medaglia da sfoggiare con orgoglio per qualche breve istante.
Non avevo mai sentito un bisogno così impellente di essere felice. Di sentirmi così tanto tra le nuvole, da toccare persino il cielo con un dito.
Tutto questo solo per una dimostrazione spontanea, per un gesto inatteso ma ben accetto. Uno dei pochi ricevuti dopo tanti anni passati a scappare via dai ricordi del passato.
Tengo il bicchiere di caffè tra le mani riscaldandole mentre una lieve folata di vento freddo mi scompiglia i capelli. Dalla bocca fuoriesce un po' di condensa che raggiunge la coltre di nuvole sulla mia testa, dalla quale, di tanto in tanto, spunta il sole giocando a nascondino con la terra.
Il quartiere è lo stesso di sempre. Niente nei miei venticinque anni sembra essere cambiato. L'ho sempre trovato pittoresco. Per anni ho scattato foto fermandomi allo stesso punto per avere un ricordo, ma l'immagine che vedo è sempre la stessa. Come quella da copertina, immutabile e storica. Persino l'odore che aleggia di zucche, prati bagnati dall'umidità e legno non è mai cambiato. A differenza della città questo, sembra proprio un piccolo spazio incontaminato tagliato da qualche altra parte e incollato in una posizione diversa. Come un tassello incastrato male in un puzzle sul punto di essere completato.
Imbocco il vialetto superando il cancello che cigola quando lo spingo distratta dall'euforia che continuo a provare.
Alzo il viso e mi fermo. Il sorriso si trasforma in una lieve smorfia. I miei pensieri prendono una piega diversa. Mi sento come se qualcuno avesse appena spento la musica.
«Dan», esclamo un po' troppo ad alta voce, trovando il mio amico seduto sul portico, infreddolito e in attesa da chissà quanto tempo.
Oggi indossa un trench color caramello con il cappuccio imbottito da un tessuto morbido. Un berretto nero a lasciare uscire dei ciuffi di capelli di colore chiaro.
Le sue guance sono rosee e le labbra sottili rosse, più marcate e in evidenza del solito.
Mi volto indietro e non c'è ancora nessuno per strada, neanche la sua auto. Ecco perché non ci ho fatto caso. Di solito la posteggia proprio qui davanti al cancello. C'è un silenzio direi assordante. Sono tutti addormentati o in procinto di svegliarsi e godersi questa giornata di ottobre. Una domenica come tante.
«Dove sei stata?» alzandosi mi raggiunge quasi sollevato di vedermi.
Mi sento colta di sorpresa dalla sua reazione e in parte anche dalla sua presenza. Su due piedi invento una scusa. Mi guardo persino per accertarmi di non essere intrappolata in qualche sogno. «A prendere un caffè. Era da tanto che non uscivo di domenica», rispondo aprendo la porta.
«Di solito lo fai in casa, all'alba non esci mai così presto. E ieri sera invece?»
«Ero casa», dico lasciandolo entrare.
Assottiglia gli occhi. «Ho bussato alla porta un paio di volte. Era tutto buio.»
«Quando? Se sei venuto qui di notte ero nel mondo dei sogni. Avresti potuto usare la chiave di riserva per controllare. Sai dove la teniamo.»
Gratta la fronte forse pensando solo adesso a questo. «In effetti era tardi. Ma di solito ti svegli in fretta quando senti dei rumori», appare sempre più guardingo.
«Ero troppo stanca. Sto lavorando come una matta», e sto passando il tempo con un ragazzo sorprendente che non mi fa dormire la notte, vorrei aggiungere. Ma questo non lo dico, non posso. Dan darebbe di matto. Non è ancora pronto a vedermi con qualcun altro. E io non voglio ferirlo.
Si siede sullo sgabello infreddolito, strofinando i palmi prima di soffiarci sopra per riscaldarli. «Cosi tanto da non avere il tempo di andare a trovare tua zia?» usa un tono di rimprovero. «Cazzo, qui dentro si gela. Non hai neanche avuto il tempo di accendere il camino? Di solito è la prima cosa che fai quando ti svegli.»
Dimentico quanto Dan mi conosca. Ma una persona, non può cambiare abitudini?
Purtroppo per lui sono un libro aperto, conosce ogni mio spostamento. Potrebbe persino prevedere le mie mosse.
Dovrò fare anche due chiacchiere con zia Marin, mi dico. Lei non può e non deve manovrarlo. Dan è un ragazzo meraviglioso, a volte o quasi sempre ingenuo e lei non può fare leva sul sentimento che prova nei miei confronti per spingerlo a tenermi d'occhio o a farmi sentire asfissiata. Perché così facendo rischia di rovinare tutto.
Mi sposto in camera pestando i piedi sul pavimento consumato dai miei passi, dalle mie corse, dai miei balli.
Lui, come sempre, seguendomi, si siede sulla sedia girevole giocando con il funko pop di Freddie Mercury ancora dentro la confezione. Un regalo che mi ha fatto conoscendo la mia collezione segreta dentro l'armadio.
«Sai che ultimamente zia Marin esagera ed esaspera ogni situazione. Sono i farmaci...» scelgo degli indumenti puliti rimproverandomi per non avere ancora acquistato qualcosa di nuovo per il lavoro in web.
Dan guarda il portatile spento e le due rose sfiorandone una. «Non dare la colpa ai farmaci se sei tu a darle buca con delle scuse. Sai che le basta poco per allarmarsi.»
Ecco dove vuole andare a parare, mi dico controllando le sue dita che potrei spezzare se continuerà a sfiorare le mie rose. Zia Marin deve avergli chiamato subito dopo avere parlato con me. In qualche modo le mie scuse devono averla preoccupata o insospettita.
«Non le ho dato buca. Ho avuto un imprevisto al lavoro e non sono riuscita a fare in tempo a raggiungerla. Non è un delitto. C'eravamo viste il giorno prima e non che sia cambiato qualcosa nella mia vita in quel lasso di tempo.»
«Ma...» apre la bocca pronto a replicare.
«Non posso più avere un attimo di respiro in questa cazzo di vita che mi ritrovo? Sono una persona anch'io. Non sono una fottuta macchina per i casi umani. Non sono un centro sociale. Sono una persona e in quanto tale e ho dei sentimenti, delle esigenze e una vita anch'io!» urlo. «Mi dispiace tanto se non sono andata ad una fottuta visita perché ho avuto da fare. Mi dispiace se sto cercando di andare avanti facendo quadrare ogni singola e minuscola cosa. Mi dispiace persino che lei si sia presa la briga di chiamarti quando le avevo chiesto di lasciarti in pace.»
Dan rimane spiazzato dal mio sfogo improvviso. Si avvicina facendo un passo dietro l'altro, sicuro di riuscire a confortarmi. «Mi dispiace per quello che stai passando. Davvero. Ma lei c'è stata per te.» Mi abbraccia. «E me lo ha detto che gli hai proibito di chiamarmi. Ma lei è zia Marin. Nota quando qualcosa non torna perché ti ha cresciuta. Tu non ritardi mai, non inventi mai scuse per non stare con lei...»
Sento improvvisamente estraneo il suo tocco. Mi allontano senza una ragione ricomponendomi. Gli occhi pizzicano terribilmente ma ricaccio nel profondo il senso di rabbia reprimendolo all'angolo, dove spero di tenerlo ancora per un po' prima di esplodere e fare danni.
«Devo fare una doccia e poi andare da lei.»
Dan drizza impercettibilmente la schiena sentendosi colpito dalla mia innaturale freddezza. «Ti lascio sola. Chiama quando ti sarai calmata!»
«Dan...»
«No, Bi. Hai qualcosa di strano. Posso anche capire che ti senti sotto pressione per il debito con l'ospedale, per gli esami, la laurea e tutto il resto. Ma... non ti accorgi che a poco a poco ti stai allontanando dalla tua famiglia! Tutto questo perché sei stanca.»
Scrollo la testa tenendo a freno il tremore, i battiti scostanti. «Non sono stanca di voi. Non potrei mai esserlo. Ho solo bisogno di un po' di tempo per me stessa. Non chiedo poi così tanto. E il vostro continuo tenermi d'occhio, mi fa sentire insicura. In questi anni mi sono occupata costantemente di tutto facendo troppe cose per tenerci a galla. Sono cresciuta prima di ogni altra adolescente e non per mia scelta. Adesso chiedo solo un attimo per me. Io... ok, ascoltami...» afferro le sue mani circondandogli le braccia intorno al collo, guardandolo dritto negli occhi perché l'ho sempre fatto e, perché in questo modo mi sentirà sincera. «Mi farò perdonare per le mancanze che ho fatto. Ma ora come ora, dovete fidarvi di me. Sto facendo il possibile per essere serena. Tra i debiti, le cure, le spese e tutto il resto non chiedo poi così tanto. Solo un'ora, un giorno di libertà. Mi dispiace se sembro strana, ma l'ultima cosa che voglio è essere controllata. E tu più di ogni altra persona sai cosa succede quando non riesco più a trattenermi.»
Mi stringe a sé. «Ti conosco e so che c'è qualcosa che mi nascondi. Quando ti sentirai pronta, io ci sarò. Come ci sarà zia Marin. Siamo la tua famiglia. Ma non permetterò che tu ti metta nei guai.»
«So a cosa stai pensando e non è successo. Puoi rilassarti. Nessuno mi ha messo le mani addosso appropriandosi o approfittandosi di ciò che è mio.»
Abbassa di poco le spalle. Lascio che mi baci le guance e capisco di averlo rassicurato. Perché in fondo lui sta mantenendo il segreto. Sta reggendo insieme a me il peso di quello che ho deciso di fare per salvare la famiglia, la casa, la dignità di entrambe per non cadere a picco.
«La famiglia prima di tutto», sussurro.
«Si, la famiglia prima di tutto», scioglie l'abbraccio. «Adesso mi tolgo dai piedi. Ti amo», stacca del tutto la presa avviandosi alla porta.
Mi sento in colpa per le parole sprezzanti e la rabbia mostrata e lo seguo. «Non mi hai ancora detto come va al locale».
Si ferma sulla soglia infilando i guanti e il berretto. «Senza di te è un mortorio. Pensa che Pat non guadagna più come prima. Sta iniziando a rendersi conto di avere perso la sua unica fonte di guadagno e fortuna. Io ne sarei soddisfatto», mi strizza l'occhio tornando il mio amico di sempre.
Dovrei essere felice della notizia, ma nel sentire il nome di Patrick, mi irrigidisco. Ripenso alle sue mani addosso e provo ribrezzo.
«Chiama quando arrivi.»
Sorride ignaro della bufera che si sta abbattendo dentro la mia testa. «Uno squillo, oggi sarà un casino», saluta con la mano.
Chiudo la porta appoggiandomi contro la superficie, lasciando uscire un lungo sospiro.
Ritornando nella mia stanza recupero gli indumenti scelti prima e lasciati sul letto.
Lo schermo del telefono si illumina. Lo porto in bagno riempendo nel frattempo la vasca.
Ho bisogno di passare un paio di minuti nel mio angolino.
"Cara B,
Non voglio stressarti. Voglio solo renderti partecipe del fatto che sto facendo tanti bei respiri per prepararmi psicologicamente e per non sbagliare.
Sono molto dispiaciuto per prima. Spero un giorno tu possa perdonarmi.
In attesa,
- MisterX".
Sorrido entrando nella vasca. La condensa sale verso il tetto dove all'angolo vi è accumulata un po' di umidità. Aggiungo una saponetta azzurra lasciandola sciogliere in un mare di schiuma colorata, rilassandomi con la testa appoggiata alla piastrella liscia e scivolosa.
"Caro MisterX,
Hai solo avuto un brutto momento. Capita a tutti. Io ho appena urlato contro al mio amico senza una ragione. Mi sto sentendo così tanto in colpa...
Bravo, fai bei respiri. Forse dovrei anch'io, ma sono dentro la vasca immersa in un liquido azzurrognolo che odora tanto di vaniglia e questo basta a calmarmi.
Questa sera cosa vedremo?
Scegli bene il film o per te niente pizza. :P
Grazie per prima...
- B".
"Cara B,
Per che cosa mi ringrazi?
Non credo di avere fatto chissà che cosa per te. Forse è il contrario. Anzi, è il contrario, togli il forse. Sono io ad avere un grosso debito con te. Per avermi tirato fuori dal panico e dall'incubo che infesta ormai la mia vita da anni.
Che cosa ho fatto per meritarti?
Non te ne accorgi mai hai un gran cuore. Spero di non ferirti ancora.
Sei dentro la vasca, eh? Interessante. Questo mi spinge ad immaginarti in mezzo alla schiuma con il tuo bel sorriso da bambina.
Non dovevi dirlo. Adesso potrei chiedere se hai bisogno di compagnia.
Mi offro volontario, ovviamente. ;)
- MisterX".
"Caro MisterX,
Sei uscito dall'auto, alla luce del sole, rischiando di sciogliere il cubetto di ghiaccio che hai al posto del cuore, per me.
Anche se non sono d'accordo con quello che pensi sul tuo conto. Tu, per me, sei una bella persona. Devi solo accorgertene.
E per rispondere alla tua domanda: la vasca è piccola. Non c'è spazio. :P
- B".
Mi asciugo rivestendomi lentamente. Tra un messaggio e l'altro mi siedo davanti allo specchio sorridendo come una stupita ragazzina.
"Cara B,
Per te vale la pena rischiare di bruciarsi alla luce mentre intorno è solo tenebra. Ricordalo.
E si, ho un cubetto di ghiaccio al posto del cuore, ma a causa tua rischia di sciogliersi troppo in fretta.
Hai risposto che non c'è spazio, non hai detto di non volermi lì insieme a te. Lo prendo come un "punto amicizia" per me. :P
Adesso ti lascio alle tue cose.
A stasera.
- MisterX".
Controllo che sia tutto in ordine. Recupero la borsa ed esco di casa per prendere la metro.
A differenza degli altri giorni, non sento addosso il peso della fretta. Per questo motivo, mi godo la passeggiata ammirando tutto con occhi diversi. Un po' come se vedessi la città per la prima volta.
Notando un nuovo negozio di fiori all'angolo di una zona trafficata da pedoni, decido di visitare il posto. La vetrina stuzzica più del solito la mia attenzione con i suoi colori in mezzo al grigio dei palazzi che ci circondano.
Il negozio è davvero grazioso e profumato al suo interno, grazie alla serie di candele poste a piramide su uno scaffale quadrato dove è possibile ammirare il lavoro cromatico appositamente scelto per attirare la massa a comprare.
Le mensole sono piene di oggetti di Natale, lanterne e luci accese.
Compro un regalo per zia Marin. So che apprezzerà il pensiero. Lo fa sempre, perché il bene tra di noi è più importante di un fraintendimento.
Notando le rose sorrido. Nessuna è come quella presente in quel giardino. Nessuna ha il suo odore. Nessuna è paragonabile alla loro bellezza.
Con un mazzo di fiori e un regalo dentro una busta color cartone con una renna stampata in rilievo color argento e un fiocco vistoso, proseguo la mia passeggiata scendendo i gradini della metro facendo attenzione ai turisti distratti o ai residenti che corrono da una parte all'altra tenendo le cuffie alle orecchie. Perché qui a New York, niente si ferma. Tutto continua a muoversi, a vivere.
Attendo poco prima dell'arrivo del treno. Salgo sul vagone che, oggi è particolarmente affollato, caldo e puzzolente. Non mi siedo. Me ne sto vicino alle porte, approfittando degli spifferi d'aria quando il treno si ferma, appoggiata ad un sedile.
Quando giungo finalmente a destinazione, affretto il passo, più che ansiosa di vedere zia Marin e spiegarle che mi dispiace.
So che è arrabbiata e delusa dal mio comportamento, ma deve capire che non posso sempre fare tutto. Non posso sempre avere il controllo di ogni cosa. Ci sono volte in cui mi fermo anch'io per riprendere fiato, proprio perché non ce la faccio più. Perché ho bisogno di recuperare un po' di quel respiro perso.
Salgo il breve tratto di strada fermandomi difronte al cancello attendendo che qualcuno mi apra dopo avere suonato il campanello per ben due volte.
Dal portone escono un infermiere insieme ad un uomo su una carrozzina, per una passeggiata. Mi sorridono entrambi salutandomi quando li supero per entrare.
L'ingresso è già stato addobbato a festa. Oggi c'è odore di biscotti allo zenzero e un clima di festa aleggia nell'aria.
Uno striscione legato da due fili di spago invita tutti all'evento per la raccolta fondi, che si terrà in una delle strade più trafficate di New York a fine mese.
Dietro il bancone la solita infermiera. Mi riconosce e con un sorriso continua a svolgere le proprie mansioni.
Non cambia mai quello chignon troppo tirato, noto arricciando il naso superandola.
Prendo le scale e in breve raggiungo il piano dove si trovano gli alloggi dei vari pazienti. So di trovare zia Marin in camera perché di domenica le piace dormire un po' di più e vedere qualche film in tv, magari lavorando a maglia.
Ferma davanti la porta, mi preparo ad affrontarla. Busso una sola volta e lei urla che è aperto. Una vecchia abitudine la sua.
Apro la porta sbirciando dentro e la trovo davanti alla finestra, sulla sedia a guardare la tv. Proprio come avevo immaginato.
«Ciao zia», saluto allegra mascherando l'ansia che mi divora dentro.
Mi guarda dalla testa ai piedi con aria critica. Vede in me qualcosa di diverso. Non lo nasconde. Come non nasconde la delusione. Come non trattiene quella punta di rimprovero nella voce quando apre bocca. «Sei qui, finalmente», saluta brusca.
Le bacio le guance porgendole i fiori e il regalo sedendomi davanti, nella piccola poltrona che lei non riesce ad usare perché farebbe troppi sforzi.
«Si, certo che sono qui. Te l'avevo promesso che venivo, ricordi?»
Scarta il regalo come una bambina curiosa, nonostante il broncio evidente. Quando vede il regalo dentro la scatolina finalmente sorride. «Fiori e una candela al gusto di biscotti al limone, proprio quello che ci voleva in quella stanza asettica», esclama contenta. «La prossima volta non dimenticate la mia coperta preferita. Quella che uso per le gambe. Mi manca la morbidezza. Quelle che mi offrono in questo posto sono ruvide.»
«Lo terrò a mente», rispondo guardando intorno alla stanza.
Non ha ancora messo niente di suo a parte la foto dei miei genitori e quella del marito sul comodino.
I farmaci sono tutti su un vassoio sul mobile, lontani dal letto.
«Devi tenere a mente che voglio vedere mia nipote ogni tanto», torna in fretta in sé.
Deglutisco a fatica stringendole le mani. «Ho avuto un imprevisto e non riuscivo ad arrivare in tempo. Avresti preferito che tornassi con qualche livido solo perché dovevo avere fretta di raggiungerti?»
Arriccia il naso inorridendo. Sa benissimo cosa significa non vedere ritornare indietro nessuno. Gli incidenti capitano, chissà quante volte continua a ripetere a se stessa questa frase, quando sente la mancanza dei miei genitori e di suo marito.
«Mai. Ma avresti potuto avvisarmi prima. Non farmi aspettare con l'ansia. Controllavo di continuo il telefono, la porta e l'ora. Stavo per chiamare gli ospedali o...»
«Lo so e mi dispiace per questo. Non era mia intenzione darti buca.»
I nostri sguardi si incrociano per pochissimi secondi.
Annuisce. «Bene. Oggi sei qui. Intendi fermarti anche a pranzo o devi tornare al tuo lavoro?»
Tolgo il cappotto posandolo sul bordo del letto. «Rimango qui. Oggi è domenica, non si lavora.»
Torno a sedermi accanto a lei passando i palmi sui pantaloni. Non so che fare, come comportarmi. È la prima volta che mi sento tanto in difficoltà e in colpa per le bugie che si accumulano come carta ingiallendo e infestando tutto.
Zia Marin mi scruta di nascosto accendendo la candela dopo averle tolto il coperchio. In breve dentro la stanza aleggia un buonissimo odore. Una fragranza leggera in contrasto alla puzza del disinfettante e malattia che impregna l'aria.
«Come stai?» chiedo aprendo una rivista per tenere le mani impegnate. Sfoglio le pagine svogliatamente.
Riprende il suo lavoro a maglia diminuendo il volume della tv. «La cura mi fa stare male.»
«I soliti sintomi?»
Annuisce. Conosco perfettamente ogni reazione. Non dimenticherò mai le ore passate insieme a lei nel bagno di casa dopo ogni giro di chemio. Le lacrime, il dolore e le ore insonni passate a pregare che tutto finisse.
Se ci penso, riesco ancora a sentire l'odore della sua pelle sempre più sottile e fragile sudare freddo quando il dolore l'attraversava. Rivedo i suoi occhi sempre più spenti e sporgenti. Sento le parole sconnesse, i pianti disperati e i singhiozzi attutiti dal cuscino. Uno strazio dietro l'altro. E adesso... adesso siamo di nuovo qui, insieme a combattere.
«Tu invece, dov'eri?»
«Te l'ho detto, lavoravo.»
Recuperando il telefono dalla tasca interna della borsetta le mostro i bozzetti, il lavoro in parte già svolto.
I suoi occhi attenti vengono attraversati dal calore di un'emozione primordiale e forte. L'orgoglio si rende vivido grazie al sorriso. «Davvero un ottimo lavoro. E l'urgenza? Che cos'era? I tubi sono già esplosi?»
Nego. «Per sbaglio sono caduta dentro una vasca di colore e stavo per rovinare il pavimento. Quello con il mosaico che hai appena visto», cerco di essere più convincente possibile. Dentro mi sento uno schifo. Ma non posso dirle che ho solo inventato una scusa per correre dietro ad un uomo complesso, con dei seri problemi di fiducia. Darebbe solo di matto e farebbe domande alla quale non saprei dare risposta al momento.
Travis è il mio piccolo segreto. In un certo senso ne sono gelosa. Perché lui è... l'improvviso in mezzo alla calma.
Sorrido sotto i baffi ricordando le sue parole sussurrate nel cuore della notte.
Zia Marin non si lascia sfuggire questa sfumatura. «Conoscendo la tua propensione a fare casini non ne dubito. Ma eri sola?»
Ecco la domanda che mi costerà la sua fiducia. Dentro di me tremo ma fuori sono ferma e stabile come un pilastro. Non vacillo, non tentenno, non indugio.
«Ovvio che si. Ho dato un giorno libero agli operai. Volevo cavarmela da sola ma... a quanto pare stavo per combinarne un'altra delle mie.»
Le parole escono senza controllo in un susseguirsi di verità e bugie che si mescolano arrivando alle orecchie di zia Marin, sempre più attenta ai miei gesti.
«Posso farti una domanda?»
«Mi stai già facendo il terzo grado, non vedo perché no», replico sarcastica alzandomi dalla poltrona. Avvicinandomi alla finestra scosto la tenda guardando fuori. Ammiro il giardino, l'erba curata e qualche persona a godersi l'aria aperta.
Il cielo è pallido, la luce acceca le mie iridi sensibili.
Zia Marin, quando la guardo, tiene il sopracciglio alzato e una smorfia sulle labbra. «Ti vedi con qualcuno?»
Sento come un colpo secco alla nuca. Una scarica fredda attraversarmi di colpo senza darmi il minimo scampo.
Perché a lei non posso tacere la verità, posso solo regalarle una bugia dietro l'altra.
«Cosa?» mi fingo stupita dalla sua domanda. «No, certo che no.»
Stringe la presa sulla sciarpa che sta creando all'uncinetto. «Ah no? L'ultima volta che hai risposto così poi in casa è piombato Nic.»
La sua risposta mi colpisce il cuore. Ricordo ancora quel giorno. Gli avevo chiesto di non seguirmi, di non complicare le cose perché eravamo così diversi io e lui. Ero decisa a lasciarlo andare. Avevamo litigato per questo. Ma gli avevo fatto promettere di non renderlo pubblico perché la nostra storia era un qualcosa di troppo grande per me. Inoltre, avevo ancora sedici anni e lui dieci in più d'esperienza sulle spalle. Ero pronta a lottare per lui, per tenerlo un sogno nascosto e un futuro certo. Ma le cose sono degenerate in pochi istanti.
«No, non c'è nessuno. Nic non doveva presentarsi in quel modo dopo avere litigato e reagito come un bambino per farmi un torto. Non doveva saperlo nessuno. Soprattutto tu che lo hai sempre visto come un uomo in cerca di una scappatella. Anche se alla fine gli hai voluto bene come un figlio perché hai capito che mi amava davvero. Ma adesso basta. Continuerai a rivangare il passato pur sapendo che mi fa stare male parlare di lui?» sbotto innervosita.
Mantiene la calma. Un altro degli aspetti che vorrei avere ereditato da mio padre e quindi anche da lei. Io non ci riesco. Rimango in apnea per uno, due secondi. Subisco per uno, due colpi. Poi però esplodo, sfogo la mia ira fermandomi quando intorno a me c'è solo terra bruciata.
«Chiedevo. Non dovrebbe più farti così male. Nic non c'è più e mi dispiace ma è passato tanto tempo. Hai tutto il diritto di farti una nuova vita. Non puoi continuare a piangere per lui. E Dan ti sta ancora aspettando.»
Le sue parole riaprono vecchie cicatrici mai scomparse, mai sbiadite. Queste bruciano dentro come tizzoni ardenti mettendomi in guardia mentre la persona che ho davanti continua a ferirmi.
Sto soffrendo così tanto. Dovrei mandare tutto al diavolo, ma rimango in piedi, piegata dentro come un ramoscello appesantito da un frutto acerbo.
Stringo i pugni in vita. «Forse per te è così. Forse adesso mi parli da adulta ma sai benissimo che i ricordi non si spengono. Non hanno una data di scadenza.»
Inumidisce le labbra dopo avere bevuto un sorso d'acqua. «No, non ne hanno. Tornano ad infestare la tua mente di continuo riempiendoti di dubbi, di se e di ma. Però bisogna andare avanti.»
Non riesco più a stare qui dentro. Afferro il cappotto. «Parli proprio tu che hai deciso di morire per raggiungere tuo marito? Da quanto tempo è morto? Forse dovresti seguire il tuo stesso consiglio», ringhio spalancando la porta.
«Dove stai andando?» Urla girando la sedia a rotelle per affrontarmi.
La guardo furente. «Ho bisogno di un po' d'aria. Qui dentro non si respira. C'è troppa puzza di tristezza», sbotto incapace di fermarmi.
Ho tutto sulla punta della lingua. Tutto concentrato nel petto. Sento quel limite pronto ad essere superato.
Si avvicina. «Non fare la ragazzina. Affronta l'argomento una volta tanto», replica duramente.
Mi sento ferita dal suo comportamento. «Affrontare che cosa? Nic è morto. Mi ha abbandonata proprio come ha fatto prima mia madre e dopo di lei anche mio padre. Proprio come vuoi fare adesso anche tu. Che cosa c'è da affrontare? La morte prende sempre tutto: i cuori, i visi, le persone, l'amore. Non c'è rimedio!» strillo. le lacrime bruciano gli occhi sempre più appesantiti dalla tristezza.
Si avvicina ulteriormente. «Non puoi capire che cosa significa dovere dipendere, soffrire...»
Singhiozzo forte. «Invece lo so! Perché ho sofferto anch'io insieme a te. Perché ci sono anch'io. Non lo vedi? Io sono qui. Lacerata dal senso di colpa, dalla tristezza e dal dolore. Ma sono ancora qui. Sto facendo di tutto. A quanto pare però non basta. Perché sei così egoista da non rendertene conto dei sacrifici che sto facendo per tenerti ancora un po' con me perché ti voglio bene.»
Scrollo via le lacrime con rabbia con una mossa secca. Tiro su con il naso e la guardo ancora male. «Vuoi morire? Ok. Fa pure! Ma non pretendere che io venga qui ad assistere. Non sarò ancora una spettatrice.» Sistemo la tracolla pronta ad uscire dalla stanza.
«Bambi...»
«No, non mi interessa. Fa come ti pare. Sono davvero stanca. Decidi se vuoi morire perché hai paura o se vuoi vivere perché hai coraggio di sconfiggere ancora la morte. Ma fallo da sola.»
Apre e richiude la bocca colpita dal peso duro e forte delle mie parole. «Non puoi salvare una morta a metà!»
Solo in questo momento ho la piena consapevolezza che sia troppo tardi. Noi non ce la faremo. Non supereremo più nessuno ostacolo insieme. Siamo quasi giunte al capolinea. Ben presto ci schianteremo contro qualcosa di duro e l'impatto sarà inevitabilmente forte, così forte da vedere tutto a rallentatore.
«No, non posso. Ma ci ho provato lo stesso perché in fondo, tutti vi aspettate sempre qualcosa da me. E sai una cosa, ci sono riuscita. Sono riuscita a farti ottenere quello che vuoi nonostante il prezzo da pagare sia alto. Sarai contenta di morire dopo avere provato il significato di lusso.»
Spalanca gli occhi tappandosi la bocca con una mano mentre l'altra la porta sul cuore. «Come hai fatto...»
«Non vuoi davvero saperlo. Conosco la tua cartella clinica e non ho mai preteso che tu stessi male solo per farmi felice. Il dolore che hai provato la prima volta è stato intollerabile anche per me. Tutto questo l'ho fatto per regalarti ancora un mese o un altro giorno, perché so che in fondo hai ancora qualcosa da vedere, da sentire e da fare.»
I suoi occhi diventano rossi, tremano proprio come le sue labbra. Calde lacrime iniziano a scendere ripercorrendo le rughe, sparpagliandosi sulla sua pelle pallida. «Io... non l'avevo capito...» balbetta.
«Adesso lo sai. Sai che non voglio vederti soffrire. Sai che ti ho portata qui per regalarti il tuo ultimo viaggio. In fondo, è quello che vuoi. Attenzioni, riviste, musica, viaggi quando c'è bel tempo, compagnia, gente intorno. Non mi sembra che hai disdegnato le visite al museo o in altri posti accompagnata da equipe preparate ad ogni inconveniente. Come vedi mi informano di ogni tuo spostamento. Proprio come tu fai con me. Solo che io non ho alcuna malizia nel farlo, e lavoro per mantenere nel giusto ordine ogni singola cosa sentendomi felice per te, mentre tu mi remi solo contro.»
Lascio sfuggire un altro singhiozzo riprendendo immediatamente il controllo.
Zia Marin appare come una a cui è appena stata data una brutta pugnalata al cuore. «Io... non ne avevo idea. Mi dispiace», asciuga delicatamente le lacrime. «Pensavo che volessi liberarti di me. Non che... che stessi lavorando per tenermi qui e vivere davvero solo perché non sono riuscita a farlo in questi anni e ti sentivi in colpa.»
Dilato le narici. Ormai sono scoppiata come un palloncino erroneamente scagliato su un ago affilato.
«Io non ho mai pensato un secondo di liberarmi di te. Mai. Tu al contrario pur conoscendomi hai raggiunto una conclusione affrettata», replico roboticamente. «E hai sabotato ogni rapporto.»
Inumidisce le labbra tremando. «Mi dispiace», singhiozza passando le mani sul viso arrossato dal pianto.
«È tardi», sussurro. «È tardi per le scuse.»
«Scusate il... ritardo. Che succede qui?»
Mi volto meccanicamente sentendo sempre più il peso della tristezza schiacciarmi il petto, il cuore, le viscere.
«Dan», gli occhi di zia Marin si illuminano seppur tristemente. «Sei venuto.»
Mi supera abbracciandola continuando a guardarci più che guardingo rimanendo in attesa di risposta.
Le porge dei fiori. «Sono arrivato in un momento sbagliato?» Chiede saettando con gli occhi da me a lei.
«No, me ne stavo andando.»
Corruga la fronte. «Ma come...»
«Dan, grazie per i fiori. Potresti metterli nel vaso insieme agli altri?» zia Marin gli dà un solo ordine con il chiaro intento di potere parlare ancora un po' con me.
Lui alza e abbassa la testa dicendo di si, allontanandosi da noi pur rimanendo attento.
«Rimani...»
«Non oggi. Ho bisogno di un po' d'aria e di scaricare la tensione. Non sarei di compagnia.»
Mi sporgo e lei mi abbraccia baciandomi le guance. «Farai attenzione?»
Per poco non crollo ancora davanti a lei. «Come sempre», dico invece staccandomi in fretta, come un cerotto.
Mi guarda in modo triste. «Ti voglio bene.»
So che è sincera. Ma non riesco a scrollare di dosso la sensazione che provo ormai da diversi minuti nel petto. Ciò che mi spaventa è tutto quello che vorrei urlare. Ma mi sento troppo lontana, caduta in un pozzo buio, incapace di scalare e uscire riscoprendo la bellezza della luna, della notte piena di stelle.
«Anch'io te ne voglio», la voce non mi esce neppure e sono costretta a voltarmi. «A presto.»
«Ciao, piccola mia», dice tenendo per sé il peso di una colpa divisa in due per tanto tempo.
Mi incammino verso l'ascensore. Troppo stanca per camminare e sfiancata mentalmente per potere reagire.
Le porte si aprono velocemente e una volta dentro il quadrato grigio, premo il tasto del pian terreno appoggiandomi alla sbarra metallica, ignorando la mia immagine riflessa dagli specchi laterali.
Sento dei passi svelti sul pavimento liscio, le porte si chiudono ma una mano riesce a farle riaprire in pochi istanti. Dan si intrufola nell'abitacolo. Notando la mia espressione si incupisce. «Vuoi un passaggio?»
Nego. «Lasciami stare almeno per oggi.»
Annuisce e prima di uscire di nuovo dall'ascensore mi si avvicina abbracciandomi forte. Non mi muovo. Rimango impalata fino a quando non si allontana turbato dalla mia reazione così distante.
L'ascensore subisce uno scossone, le luci si spengono per pochi istanti ma non me ne curo. Rimango all'angolo mentre entrano altre persone chiacchierando, ignorando la mia presenza.
Esco dalla clinica camminando come uno zombie. Appesantita da ogni briciolo di consapevolezza mescolata ad una verità crudele.
Chissà come, mi ritrovo in metro, seduta in disparte, la testa appoggiata al finestrino con lo sguardo perso di chi ne ha viste tante e si è perso nei ricordi, nel dolore.
Il silenzio torna in fretta ed è doloroso. Perché il silenzio dopo il caos, il frastuono, le urla, le voci, i rumori, ti spinge a riempire quegli spazi vuoti che porti dentro. Il silenzio torna in fretta e tu hai solo voglia di piangere.
Perché sono sempre le persone a cui tieni, che ami più di te stessa a farti piangere, a ferirti a morte.
Ma, nonostante io abbia voglia di abbandonarmi alle lacrime, non ci riesco. Provo solo un amaro senso di stanchezza misto a tristezza. Una nausea sfiancante in grado di tirarmi giù, sempre più giù. Così in profondità che tornare in superficie non si può più.
Attualmente mi sento come quando hai un brutto incubo e ti svegli di soprassalto sentendo ancora addosso il sentore della paura. E allora non riuscendo più a dormire, continui a fissare un punto senza muovere un muscolo. Fermo, immobile, triste. Respiro dopo respiro tutto si confonde, si appanna davanti. E non vedi più niente. Eppure i tuoi occhi sono aperti. Ma non c'è niente. Solo vuoto e tristezza.
Raggiunta l'ultima fermata, le mani dentro le tasche, i piedi come piombo, mi costringo ad uscire trovandomi in una zona diversa, a me estranea.
So già che non tornerò a casa per qualche ora. Sarebbe solo come tornare all'inferno per sentire un po' di quel calore lacerante dentro. Perché tutto: le stanze, le finestre, le porte, le pareti, sono impregnate dai ricordi consumati dalla memoria e dal tempo. Un tempo che fugge via lasciando solo il rimpianto di una vita imperfetta e incompleta.
Salgo i gradini lasciandomi accecare dalla luce del giorno. Giro intorno mentre le persone si spostando ovunque come pedine di una scacchiera enorme. Alzo il viso e ad occhi chiusi prendo un respiro. Gonfio il petto lasciandolo uscire in una nuvola di vapore.
Riprendo la mia lunga passeggiata in mezzo ai grattacieli di Manhattan, raggiungendo il parco rendendomi conto della vita che non ho mai avuto ma che guardo attraverso quella delle altre persone.
Mi stringo nel cappotto prendendo un te' caldo, sedendomi ad una panchina distante, vicino ad un laghetto, ad piccolo un ponte dove qualcuno di tanto in tanto si ferma a guardare il panorama e il fondo del laghetto. Osservo delle oche nuotare nell'acqua fredda.
Il rumore di un tuono a preannunciare un temporale ormai alle porte, un lampo in lontananza a squarciare le nuvole all'orizzonte e i passi frettolosi della gente per trovare un riparo quando la pioggia inizia a scendere come lacrime amare.
Mi alzo e con la stessa andatura, un passo dietro l'altro, lasciandomi accarezzare dalla pioggia, raggiungo un quartiere diverso dal mio. Lo riconosco. Supero il cancello, la scalinata dal marmo scivoloso e sotto la tettoia sorretta dalle colonne mi ritrovo al riparo, seppur gocciolante.
Un uomo apre la porta lasciandomi passare. Indugio, poi afferro la maniglia ritrovandomi all'entrata.
C'è un silenzio sinistro ma piacevole. I suoni esterni attutiti dalle pareti massicce di un colore pallido. Nessun portiere dietro la scrivania.
Chiamo l'ascensore centrale a separare le due scale ai lati, attendendo senza fretta il momento in cui le porte si apriranno.
Il trillo preannuncia la fermata. Le porte scorrevoli emettono uno stridio e quando si aprono del tutto, da questo escono una coppia felice e un anziano signore con un bastone.
Abbassando lo sguardo mi fiondo dentro premendo il tasto dell'unico piano che conosco. Attendo circa due minuti buoni dovuti ad una fermata in uno dei piani del palazzo, prima di raggiungere il pianerottolo silenzioso dove si trovano le tre porte. Due di queste decorate a festa.
Mi fermo davanti all'unica priva di tappeto di benvenuto e di decorazioni di Halloween. La mano chiusa a pugno sollevata, pronta a bussare. Le gocce di pioggia a scivolare via dai vestiti, riempendo il pavimento dove lentamente si allarga una pozza.
Busso. Prendo coraggio e colpisco piano la superficie non aspettandomi nessuno.
La porta al contrario si apre. Le mie narici vengono investite dall'odore di fresia.
Davanti a me c'è Nan. I capelli sciolti in morbide onde, un tailleur elegante nero, le mani strette al telefono, distratta da qualcuno che le sta parlando dall'altra parte della cornetta e forse anche dalla stanza. Si volta e si blocca. «Bambi», esclama allarmata riagganciando.
I miei occhi si riempiono di lacrime nel notare la sua reazione. «Travis è in casa?» chiedo con un tono basso, roco, che riconosco a stento.
Lei annuisce mettendosi velocemente da parte. «In questo momento sta partecipando ad una riunione urgente. Entra pure, tra pochi minuti finirà la videoconferenza e potrà riceverti», spiega in tono dolce tenendo a bada le domande.
Devo proprio avere un aspetto orribile. Rimango impalata sulla soglia. «Puoi avvertirlo della mia visita?»
Deglutisce stringendo le mani sulla maniglia della porta soppesando il mio sguardo. «Certo. Ma entra, che ci fai ancora lì impalata?»
Le lacrime scivolano via dai miei occhi. «Puoi chiamarlo per favore?»
Sgrana gli occhi spaventata dal mio tono. Notando il mio tremore e in parte, percependo il mio bisogno, corre in fretta dentro.
«Signore...»
«Che cosa succede? Avevo chiesto di non essere disturbato.»
Sentire la sua voce, quel tono marcato e forte mi riverbera addosso una serie di sensazioni contrastanti che annullano tutto.
«Signore, vede...»
«Chi c'è alla porta? Se sono ancora quei dannati vicini per appendere quelle decorazioni mostruose, digli di non disturbare. Anzi, vado personalmente a riferire che qui io ci lavoro!»
Sento dei passi affrettati, il ticchettio dei tacchi di Nan e la sua voce nel tentativo di fermarlo.
Travis sta per aggiungere ancora qualcosa quando si ferma a poca distanza dal corridoio dell'entrata. Le labbra schiuse i pugni stretti. Ci mette un momento per vedermi, per accorgersi di me.
Nan, si allontana indietreggiando, rimanendo però attenta ad ogni nostra mossa.
«Bambi, che...» si avvicina velocemente.
Non resisto più. Singhiozzo e scatto in avanti aggrappandomi a lui.
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