Capitolo 7: La Passeggiata
Io e Ania quindi ci saremmo dovuti vedere quel giorno. Certo non da soli, ma era comunque qualcosa. Ci saremmo dovuti incontrare tutti vicino la piazza alle 15:30. Così dopo essere uscito da scuola alle 14:15 tornai a casa e alle 15:00 finii di mangiare. Mentre eravamo a casa sentivo Becca farneticare e lamentarsi muovendo le mani al vento, di aver perso un qualche vecchio oggetto di mio padre.
"Sognatore, l'hai vista?"
"Cosa?"
"Lascia stare. Non sapete mai un cazzo voi."
Era ovviamente troppo complicato dirmi cosa stesse cercando e così non seppi quale fosse l'oggetto in questione.
Nonostante fosse solo un'uscita tra amici ci tenevo a sembrare più decente del solito, e m'impegnai per non sembrare scemo come al solito. Successivamente uscii di casa armato delle mie cuffiette e m'incamminai. La piazza, che era il punto d'incontro, distava quindici minuti a piedi da casa mia, e penso voi sappiate già cosa feci durante il tragitto.
Là vicino c'era una fontana enorme e piena di pesci e, di fronte alla fontana, troneggiava un vecchio arco normanno, il quale era anche uno dei simboli chiave della città. Quell'antico arco costruito dai primi norreni sbarcati in Sicilia mi era sempre piaciuto, forse per i bei ricordi legati a esso, dato che da bambino, con mio fratello Filiburbero, ci divertivamo a scalarlo, causando la preoccupazione di mia madre e mio padre. Ad ogni modo, arrivato alla fontana mi sedetti sui gradoni che essa aveva accanto. Dio sia lodato per l'invenzione della musica, senza la quale le mie lunghe attese, come questa, sarebbero sembrate eterne. Naturalmente (stranamente a dire il vero) fui il primo ad arrivare, e dopo pochi minuti vidi da lontano qualcuno avvicinarsi. Erano forse Ania e Genoveffa? Purtroppo no, infatti appena i due individui si avvicinarono abbastanza da poterli mirare con chiarezza, capii dalla loro camminata sgraziata che erano Sibilla e Crocifissa. Quale oscuro scherzo del fato mi portò a una situazione simile? Com'è fu possibile che arrivarono entrambe mentre nessun altro era ancora arrivato. E adesso dovevo stare io da solo con quei due esseri senz'anima? Mentre si avvicinavano le vedevo parlare, e se le guardavo negli occhi potevo già percepire su cosa stessero spettegolando, ma soprattutto potei capire cosa si sarebbero dette alle spalle non appena si sarebbero lasciate. Quei loro occhi piccoli e maliziosi erano così chiari nelle loro intenzioni. Come potevano non capire che l'una avrebbe spettegolato dell'altra non appena ne avrebbe avuto l'occasione? Io penso, anzi ne sono quasi sicuro, che sapessero già di doversi accoltellare a vicenda. Magari proprio per questo erano amiche, per l'implicita consapevolezza dell' odio che l'una provava per l'altra. Ho probabilmente abusato della parola odio, ma è il termine che suona meglio, nonostante non sia completamente corretto. Se si fossero odiate davvero si sarebbero prese a coltellate vere e proprie. Ma voi comunque capite cosa intendo con il termine "odio", giusto?
Che tanto si fa così nelle discussioni: si dice qualcosa per intenderne un' altra. E se il rapporto tra i due interlocutori è abbastanza stretto, come spero sia il mio rapporto con voi, mio amico lettore, allora ci si capisce vicendevolmente. Certo mi si potrebbe obiettare che nessun tipo di rapporto può in realtà consentire una corretta comunicazione poiché ognuno dà alle proprie parole e a quelle altrui un abito emotivo e significativo differente, ma nonostante ciò l'umanità che ci collega permette il nostro intendimento. Inoltre noi non siamo qui per parlare di filosofia del linguaggio o altro, ma solo per raccontare, e per voi ascoltare, una stupida storiella.
Comunque, alla fine, grazie ai loro passi goffi e acuti a ritmo di tamburo demoniaco, mi raggiunsero. Pronte a strapparmi l'anima con le loro inutili chiacchiere, ma io non glielo permisi.
"Ciao sognatore" disse Sibilla fingendosi come al solito amica mia.
Poi mi salutò Crocifissa con severità. Questo perché non facevo nulla per nascondere i miei sentimenti nei suoi confronti, e lei si comportava perciò nello stesso modo.
"Ciao."
"C'. "
Quel "C'" È un saluto svelto che usavamo io e i miei amici, ma che infine divenne di uso comune anche tra conoscenti.
"Da quanto tempo aspetti?" chiese Sibilla con quella sua orribile vocina stridula.
"Da poco" risposi in fretta e con tono quasi seccato.
Dopo questo breve dialogo le due cominciarono a parlare di cose che non m'interessavano. Io me ne stavo in disparte, guardavo quei mattoni color mattone che componevano il gradone su cui ero seduto.
Fortunatamente non dovetti sopportare quella terribile situazione a lungo. Infatti dopo pochi minuti arrivò Genoveffa, che nonostante non brilli in intelligenza, era comunque una persona simpatica e con cui parlare.
Mi avvicinai a Genoveffa e le dissi:
"Minchia, menomale che sei arrivata tu. Non ce la facevo più. Salvami."
Lei rise, poi guardò verso i due essere e aggrottò le sopracciglia.
"Su dai smettila, Sibilla non è poi così terribile."
"Sono incinta."
"Eh?"
"Ah, scusa, pensavo che stessimo dicendo cose senza senso."
"Cretino" bisbigliò ridendo.
Poi ci Aggregammo tutti e quattro a parlare mentre io pensavo a che fine avessero fatto Ania e Rubio. Da Rubio in realtà me lo aspettavo un ritardo, visto che se si parla di uscite le cose sicure su Rubio sono due: la prima è che ci sarà. La seconda è che arriverà in ritardo. Vige anche una regola fantasma sulla presenza di Rubio nelle uscite. Ovvero: se c'è Rubio, e insieme a Rubio c'è una qualsiasi, ma proprio qualsiasi, bevanda a base di CH3CH2OH, allora Rubio si ubriacherà. Non so se Rubio si ubriacasse per essere un po' più sciolto, o perché voleva non sentirsi responsabile delle proprie azioni o perché magari queste bevande "da adulti" gli piacevano davvero tanto. Resta di fatto che nonostante Rubio non fosse un ubriacone, si ubriacava non appena ne aveva la possibilità. Alla fine, anche se con circa milleottocento secondi di ritardo, arrivarono sia Ania che Rubio.
Mi sentii sollevato nel vedere arrivare Rubio, e altrettanto sollevato mi sentii nel vedere Ania. Lei sì che aveva una bella camminata. Già a vederla da lontano capivo che era lei. Aveva una camminata dolce (forse questo ve lo avevo già detto) e mentre camminava per raggiungerci cadde per terra. Non per cattiveria, ma risi. Cadde con l'elegante movenza di un sacco di patate. Okay, forse la sua camminata era leggermente goffa, ma a me piaceva. Fortunatamente non accusò il colpo e si rialzò subito. Poi si guardò intorno mortificata con quei grandi occhi neri e un espressione da ebete. Alla fine quando sia lei che Rubio ci raggiunsero. Poi diedi un cinque a Rubio e salutai Ania. Ormai tra noi non c'era più imbarazzo ma lei mi salutò intimidita. Il perché di questa cosa non la capii subito. Probabilmente si sentiva in imbarazzo poiché pensava che l'avessi vista cadere. Dopo eserci riuniti cominciammo a camminare, ma dopo pochi passi mi fermai.
"Aspettate raga', che Roberto ancora non è arrivato."
Si girarono tutti verso di me e sibilla mi disse con la sua odiosa vocina: "Ormai è tardi, non possiamo aspettare a lui. Ora sono fatti suoi."
Le risposi seccato. "Si però a Rubio ed Ania li abbiamo aspettati. Quindi ora lo chiamo e vediamo che fare."
Così chiamai Roberto, che stranamente rispose subito.
"Robe', vedi che tutti qua siamo. Manchi solo tu."
"Aaah... dovevamo uscire. Me n'ero dimenticato. "
"Sei un paccaro."
"Vabbè ormai è tardi e m'annoia prepararmi. Non vengo. "
"Va bene. C'."
"C'."
Rimisi il telefono nella tasca dei jeans e dissi agli altri che Roberto non veniva e che quindi potevamo andare.
Così riprendemmo a girovagare e, come dissi prima, c'eravamo divisi in gruppo. Io e Rubio eravamo dietro mentre le ragazze camminavano davanti. Così era perfetto visto che potevo parlare con Rubio più in privato ed escogitare qualcosa.
"Okay fra' ascoltami. Dobbiamo cambiare la formazione dei gruppi."
"Vuoi che casualmente io vada lì e mi porti Sibilla, Crocifissa e Genoveffa così puoi parlare un po' con Ania?"
"Vabbè mica è un incontro galante. Se voglio vado là e le parlo. Non è questo il problema. Però sì, hai capito."
Da piazza Maldini ci eravamo spostati in piazza dell'oro. La Piazza dell'oro fu chiamata così dagli spagnoli che molti secoli fa invaserò l'Italia, e le diedero quel nome poiché vi era una chiesa piena d'oro al suo interno. Quella chiesa era ancora là, anche se ormai di oro non ce n'era più. Anche questa enorme chiesa era uno dei simboli della città, e sulla piazza a cui si affacciava c'erano due bar, un tabacchino, e la statua del Santo Patrono della città: San Vito. Mentre passavamo per la rispettabilissima piazza dell'oro, frequentemente frequentata da vecchietti esperti a giocare Briscola e altrettanto esperti nel parlare come se fossero distanti chilometri, ci avvicinammo alle ragazze e Rubio mise le braccia sulle spalle di Sibilla e Crocifissa e guardando languidamente Genoveffa disse: "ieri mi è successa una cosa incredibile. Adesso vi spiego: è una cosa mezza seria diciamo."
Allora Genoveffa sentendolo parlare così spalancò gli occhi e con la vivacità di una bambina che viene adescata da un pedofilo disse: "Dimmmi assolutamente cosa!"
"No. Non puoi. Tu non puoi."
"È così quindi? Va bene fai come vuoi."
Rubio spalancò la sua grande bocca, guizzò gli occhi e cominciò a ridere.
"Stavo scherzando," sbofocchiò ridendo, "su vieni qua che ti spiego"
Così Genoveffa si avvicinò a loro e dopo che erano tutti insieme Rubio rallentò il passo.
Era perfetto. Tutti i pesci avevano abboccato all'amo. Rubio aveva compiuto un'ottima manovra diversiva. Adesso potevo lanciare la mia lenza in mare e... non so, fare quello che fanno i pescatori.
"Allora, com'è andata l'interrogazione di Italiano alla fine? Quanto ti ha messo?" chiesi con anomala normalità.
"Non lo so. Ed essendo che la Professoressa Ricolo è bipolare non so davvero cosa aspettarmi."
"Tu pensi di aver detto le cose giuste?"
"Sìsì, ne sono sicura" disse scuotendo la testa su e giù come uno di quei pupazzi con la testa a molla.
"Se ne sei davvero convinta, allora prenderai sicuramente un buon voto: tipo tre, o addirittura 3 e mezzo se ti va bene."
Lei abbassò la testa e arrossì. "Non capisco perché parli della tua media. Mi avrà sicuramente messo dieci e mezzo più."
Il tono con cui lo disse era davvero buffo.
"Certo come no. Ne sono sicurissimo" ribattei.
"Comunque devo chiederti una cosa."
"Se mi dici di dovermi chiedere una cosa perdi solo tempo. Chiedila e basta, no?"
Si fermò e cominciò a guardarsi le punta dei piedi. "Che hai visto mentre arrivavo?"
Poi riprese a camminare, ma con la testa sempre verso il basso.
"Se ti riferisci a quando sei caduta come un sacco di patate davanti a mille persone, allora non so a cosa ti riferisci."
Aggrottò le sopracciglia, gonfiò le guance e mise il broncio. Non so se dovesse essere una faccia seriamente indignata o era solo per fare un po' di scena, ma fu come se m'avesse alleggerito il cuore. Purtroppo, tra le mie debolezze ci sono le ragazze quando mettono il broncio. Dovrebbero essere minacciose, ma io le trovo solo carine.
"Ma io davvero non volevo cadere."
"E ci mancherebbe che tu volessi cadere" Aggiunsi sarcasticamente.
"Senti capita a tutti di cadere."
"Ma chi è che te ne ha fatto una colpa?"
Poi fece un giro su se stessa, come se stesse imitando una piroetta.
"E tu conosci sacchi di patate che sanno fare questo?"
"Adesso ne conosco uno."
S' imbronciò di nuovo, ma in maniera evidentemente scherzosa.
"Dai, parliamo d'altro. Tipo io non so davvero niente della tua famiglia nonostante ti conosca già da un po'. E so anche poco di te. Raccontami. Anzi, Raccontati."
Frase a effetto dalla discutibile belleza, lo so.
"E che dovrei dire?" domandò frettolosamente.
" E che ne so io. Parla e vedi che succede. "
" Va beneee... Io ho una sorella..."
Non appena disse questa frase mi chiesi se sua sorella fosse carina o se fosse lo stereotipo della sorella brutta a cui vengono i complessi a furia di paragonarsi con l'altra.
"E com'è?"
"Mi somiglia, ma non troppo. Ha il naso tipo il mio e gli occhi scuri. Ed è pelata."
"Pelata?"
"Sì. Pelata."
"Ma perché ha avuto qualche problema o per qualche altro motivo?"
"No, è che lei soffre di una particolare forma di Tricofobia."
"Cioè, fammi capire. Quindi tua sorella ha paura dei capelli? E come fa a stare in casa con te? Non le viene un infarto ogni volta che ti vede?"
"Ma no" disse ridendo. "Lei ha paura solo dei suoi capelli. Per questo si rasa la testa."
"Ah... bello. E quanti anni ha? O come si chiama? Non dirmi le cose a metà."
"Lei è qualche anno più piccola e va al secondo anno di un istituto tecnico. Si chiama Cornelia."
"Cornelia. Spacca un sacco come nome. Ed è una rompi scatole come te o è una persona normale?"
"Tra le sorelle lei è quella scalamastrata," (più teppista) "però è abbastanza tranquilla in realtà. Cioè ogni tanto litighiamo, ma è normale tra sorelle. Almeno credo. "
"Tra sorelle non saprei visto che non sono una donna e visto che non ho una sorella. Ma io e mio fratello ogni tanto litighiamo pure. Quindi penso sia normale."
"Da quando hai un fratello? Io non ne sapevo niente."
"Ho un fratello da circa diciassette anni, dato che è più grande di me. Si chiama Filiburbero, ha ventitre anni e studia psicologia all'università."
"E tu vuoi fare la sua stessa università? Ti ci vedo a fare psicologia."
"Pensavo di entrare nel settore del commercio botanico."
"Fai il liceo per fare il fruttivendolo?"
"No. Intendevo spacciare."
"Non riesci proprio a essere serio, vero?"
" Zero. Ma mi piacerebbe insegnare. Infatti volevo studiare filosofia. Tu invece che vorresti fare?"
Stese in silenzio per qualche secondo. Poi andò avanti e si sedette in una di quelle panchine in marmo, tipiche nel mio paesino, là vicino.
"Mado', mi fanno male i piedi."
Mi affiancai a lei, ma rimanendo alzato.
"Quindi? Tu che vorresti fare?"
"Sinceramente non lo so. Andrò all'università sicuramente. Ma non ho ancora deciso."
"Va bene, dai, non fa niente. Ancora hai tempo per decidere."
Poi calò il silenzio e, non essendo capace di sopportarlo, mi poggiai anch'io sulla panchina e ripresi a parlare.
"Invece che mi dici di tuo padre? Prima hai detto che vi siete trasferiti qua per motivi di lavoro. Giusto?"
"Forse."
"Come forse?"
"Boh così", disse ridacchiando. Poi si alzò dalla panchina e mi prese per il braccio, provando a tirarmi su con quelle sue gracili braccia.
"Dai andiamo!"
"Ma ci siamo appena seduti."
"Sì, ma se camminiamo ci raggiungeranno."
La guardai un po' sbigottito e pensai che forse anch'io le potevo interessare.
Mi alzai e lei cominciò a camminare nel mentre che discutevamo.
A quel punto avevamo fatto il giro di piazza dell'oro e ci ritrovammo di nuovo alla fontana dei pesci di piazza Maldini.
"Chissà chi è che dà da mangiare ai pesci?"
"Come?" domandò un po' stordita.
"Sono stato qui a ogni ora del giorno e a ogni ora della notte e non ho mai visto nessuno dare da mangiare a quei pesci. E quei pesci sono lì da anni. Magari si mangiano tra di loro, ma non penso."
Lei si guardò intorno girando quella sua simpatica testolina a destra e sinistra.
"Ma quella è la fontana dove ci siamo incontrati giusto?"
"Sì, è quella."
Come sapete amico lettore, Ania era qui nel mio paesino da pochi mesi e non conosceva ancora bene le strade. Inoltre non aveva un grande senso dell'orientamento.
"Quindi abbiamo fatto il giro?"
"Tu sei quella intelligente in famiglia, vero?"
"Senti, io con le strade mi confondo. È sempre stato così. Ma non voglio fare di nuovo il giro. Stavolta prendiamo un altra strada. Quella là!" disse ad alta voce indicando corso del corso, il quale è una delle strade più grandi e affollate della città. Ma per lei era una strada tutta da scoprire. Adesso starai sicuramente pensando (parlo con te, compare lettore) come sia possibile che questa ragazza abitando qua da due o tre mesi ancora non conosca corso del corso.
Be' non la conosceva perché oltre a essere una ragazza timida che usciva poco, corso del corso era visitata nei mesi un po' più caldi, e Novembre non è certo uno di questi. Comunque, corso del corso è piena di negozi, e molti sono negozi d'abbigliamento. Mi stavo perciò preparando psicologicamente a vederla mentre si affacciava alle vetrina di ogni negozio in cui potesse vedere qualcosa di interessante. Così ci dirigemmo verso la direzione da lei indicata, mentre io mi preparavo a naufragare da un posto a un altro.
"Comunque non hai più risposto alla mia domanda."
"Quale domanda?"
"Sul lavoro di tuo padre."
" Ah sì... "
Poi mi prese un dito della mano e cominciò, per così dire, ad analizzarlo. Lo teneva nelle sue piccole manine e lo guardava e lo girava in silenzio. Era già la seconda volta che evadeva da quella domanda e chiederlo di nuovo mi sembrava molto scortese, ma ormai la curiosità mi aveva catturato.
"So di avere un bellissimo dito indice. Proprio muscoloso e con un bel taglio d'unghia, ma non mi hai ancora risposto."
Smise di giocare con il dito e poi, con gli occhi rivolti verso l'alto, e cominciò a toccarsi i suoi liscissimi capelli neri.
"Cioè, io non lo so. Non l'ho mai capito. L'ho sempre visto abbastanza tranquillo. Ogni tanto viene qualcuno a fargli visita e parlano di cose loro. Poi ci siamo dovuti trasferire qua. Ma non so bene il perché."
Mi parlò per qualche minuto di suo padre e della gente che lui incontrava. Io (sapete chi sono, No?) non capii se lei davvero non sapesse cosa facesse suo padre o se facesse solo finta. Ma era evidente che era uno spacciatore e che si era dovuto trasferire qua, in un paesino piccolo, per problemi con le forze dell'ordine.
"Ed è un buon padre?"
"Questa è una domanda insolita. Però sì. È un ottimo padre. È gentile, severo il giusto e non mi ha mai fatto niente di male."
Nel mentre che lei parlava a ruota libera vidi Tancredi.
"Ania, aspetta un secondo che vado a salutare un mio amico."
"E dov'è?"
"Là. È là in fondo."
Così camminai frettolosamente verso di lui chiamandolo nel mentre.
" Tancre'!" urlai quasi esuberante.
Ma nonostante gridassi, e nonostante abbia gridato un'altra volta, lui sembrò non sentirmi. Allora mi diressi verso di lui.
"Tancre', ma sei sordo? T'ho chiamato tipo tre volte."
"Ah, ciao Sognatore. Scusa è che ero in sovrappensiero. Tu che ci fai qua?"
"Sono in giro con degli amici. Tra cui Ania. Insomma hai capito."
"È quella là?" disse indicandola con un cenno della testa.
"Sì è lei. Che ne pensi?"
"È molto carina."
"Comunque, tu che ci fai qua? Vuoi unirti a noi? Così magari ti faccio conoscere i miei amici."
"No, non posso. Sto sbrigando una commissione per mio padre. Casomai sarà per un'altra volta."
" Va bene, va bene. Allora io vado che sennò qualcuno la deruba al posto mio."
Fece un sorriso, mi salutò e se ne andò.
Tornai indietro da Ania, che nel frattempo si era messa a mirare dei vestiti in vetrina insieme alle altre ragazze che, ahimè, l'avevano raggiunta nel mentre che io ero andato da Tancredi.
Mentre tornavo Rubio mi venne in contro con fare sospetto.
"Allora? com'è andata?"
"Bene, bene. Forse, e dico F-O-R-S-E, le piaccio."
"È presto per dirlo. Lo sai come sono le F-E-M-M-I-N-E."
"Sì, sì, lo so, ma tranquillo, è andata bene."
Poi per il resto del pomeriggio il gruppo rimase unito e parlai un po' con tutti. Parlai con Ania anche di mia madre e di mio padre (tutte cose che voi già sapete) e lei mi parlò di sua madre, che era morta qualche anno fa. Ma non parlammo solo di cose deprimenti, parlammo un po' di tutto. Alla fine, verso le 19:30 rimanemmo solo io, Ania e Rubio, e Ania ci disse che in queste settimane avrebbe voluto organizzare qualcosa a casa sua con non troppe persone, e ci chiese se volessimo venire. Naturalmente dicemmo entrambi di sì e lei sorrise, ci saluto e se ne andò in quel luogo che presto anche noi avremmo esplorato, ovvero casa sua.
Rimanemmo solo io e Rubio in piazza e parlammo delle nostre solite cose. Alla fine mi accompagnò a casa e mi diede qualcuno dei suoi consigli del tipo: "Quando siete soli, crea l'atmosfera e poi prendigli", Rubio sbagliava sempre il femminile, "la mano e mettitela sul pacco." Penso tutt'ora che sia un ottimo metodo per farsi denunciare. Resta di fatto che quel giorno ero felice, e non vedevo l'ora di rincontrarla.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top