Capitolo 16: L'ultimo Capitolo (Sognatore)

Non appena la canna della rivoltella cominciò a premere sulle mie tempie vidi Tancredi in fondo alla strada con le mani protratte in avanti che camminava lentamente verso di me. Era visibilmente spaventato, e mentre si avvicinava a me continuava a guardarsi intorno. Poi gridò, pur non avendone la necessità visto che era tutto immaginario, per farsi sentire.

"ASPETTA, ASPETTA, ASPETTA! NON FARE CRETINATE!"

Arrivò a pochi metri da me, abbasso le mani e si fermò.

"Che hai intenzione di fare?" chiese cauto.

"Come se non lo sapessi."

"Non lo so. Perché vedi, io potrei conoscere tutti i tuoi pensieri, e tu potresti sapere tutti i miei con un po' di sforzo. Ma ora che tu sei pienamente cosciente della mia situazione, diciamo, che per me è più difficile accedere a te e al tuo, cioè nostro, cervello."

"Potevi anche non dirmelo. Avresti avuto un vantaggio."

"Magari bluffo per farti credere così. O magari sono cosciente del fatto che non ci avresti messo molto a capirlo."

"Opto più per la seconda."

"Sì, anch'io."

"Ora ti spiego cosa voglio fare. Io non posso evidentemente picchiarti. Giusto?"

"E perché dovresti?"

"Per liberarmi di te. Comunq-"

"Non puoi picchiarmi, eh?"

"E quindi la cosa da fare è una battaglia mentale o psicologica o che so io. Magari qualcosa di simbolico per la mia psiche."

"Forse."

"Quindi adesso io e tu giocheremo alla roulette russa. Sai come si gioca giusto?"

"Certo che lo sappiamo."

"Perfetto. Un colpo per volta. Così se tu almeno simbolicamente morirai potrò liberarmi di te."

"No! Non farlo!" sbraitò alzando le mani sopra la testa.

"Dammi un motivo per il quale non dovrei farlo."

"Ci siamo fatti Ania!"

"Davvero?"

"No."

"Peccato."

"Però avresti voluto."

"Sì, ma non era comunque un motivo valido per lasciarti vivere."

Spinsi ancora di più la canna della pistola sulle tempie e chiusi gli occhi. Esitai un po', avevo paura, e penso che voi mi capiate, sapete poi che casino sarebbe per Becca se scoprisse che il figlio si è suicidato.
Dopo qualche secondo a fissare l’interno delle mie palpebre e a pensare misi un po' di forza nel dito indice e titubante premetti il grilletto.

Click.

Sentire quel Click e riuscire a riaprire gli occhi fu un sollievi enorme. Avevo le mani che tremavano per la paura e per l'adrenalina e i palmi erano umidicci.
Dopodiché allontanai la pistola cautamente dalla mia incasinata capoccia e allungai il braccio per porgerla verso Tancredi.
Lui cominciò a muoversi verso di me tutto rigido, spaventatissimo, e appena allungo il braccio per prendere la pistola, cominciai a cliccare il grilletto a più non posso.

Click.
Click.
Click.
Click.
Click.

Non partii nemmeno un proiettile. Com'era possibile? La rivoltella nel suo caricatore aveva sei colpi. Il primo l'avevo puntato su di me altri cinque su Tancredi. Eppure nessun proiettile fu scaraventato fuori dalla pistola.
Avevo gli occhi sbarrati e non avevo idea di cosa diamine fosse successo.
Non appena finirono i proiettili Tancredi si buttò a terra e cominciò a rotolarsi a terra sghignazzando e ridendo a tal punto da lacrimare.

"Che... cosa hai fatto? Come mai non è partito nemmeno un proiettile?"

Lui si fermò un secondo quasi meccanicamente e poi riprese a ghignare come un forsennato.

"Vaffanculo!” esclamai.

"Secondo te cosa è successo?"

"Non lo so. Dimmelo tu."

"Ho preso il controllo quando hai chiuso gli occhi e ho levato anche l'ultimo proiettile. Che per la cronaca ti avrebbe ucciso."

"Perché? Non vuoi mettere il punto anche tu a questa storia?"

"Certo. Ma in quel modo sarebbe stato impossibile per me vincere. Se tu ti fossi sparato e saresti morto io sarei morto con te. Se invece tu mi avessi sparato e io fossi simbolicamente morto, ammesso che questa cosa sia fattibile, e non credo, Be’ in quel caso sarei morto io e tu no. Non ci avrei guadagnato niente."

"Perché pensi che non sia fattibile ucciderti."

"Tu non puoi uccidermi."

"E allora nemmeno tu puoi."

"Esatto. Vedi, io sono vero tanto quanto te e sono nato esattamente quando sei nato tu. Non possiamo ucciderci, sarebbe come strapparti via un pezzo della tua anima."

"In che senso siamo nati nello stesso momento? E se ci sei sempre stato, e non possiamo ucciderci come hai intenzione di concludere la cosa?"

"Ti spiego. Quando nasciamo la parte regnante è quella subconscia, animalesca, il proprio Es. E nel momento in cui si viene a contatto con la società, con le regole, con il mondo esterno allora il nostro Es viene filtrato per così dire, per poi giungere all'Io, la nostra parte cosciente. Quando noi abbiamo cominciato a capire come funzionano le cose siamo nati noi. Come mente, ovviamente. Solo che non potevi essere entrambi, e quindi hai scelto la parte che più ritenevi adatta a questa mondo, e io sono come rimasto dormiente. Questa cosa vale per ogni essere umano... credo.

"Ma non tutti risvegliano quella parte. Io sono la parte più subconscia ma comunque cosciente di te. E ho in un certo modo usato, anche se non è proprio così, il tuo subconscio per diventare te. Per uscire fuori."

"Se non puoi uccidermi allora tu vuoi rendere me la parte dormiente."

"Più o meno. Non posso renderti subconscio, ma posso annullarti. Io penso che ormai le persone pensino troppo e sentano troppo poco. Questa cosa, almeno in me, non dev'essere."

"Ma tu..."

"Io?"

"Sì, tu."

"Intendevi noi."

"Fammi finire porca miseria. TU, diventando me non sei diventato in un certo senso cosciente? Come puoi pensare sei conscio dell’inconscio? E se così fosse, ritrovandoti diviso non potresti subire ciò che sto subendo io? E come hai fatto a risvegliarti?"

"Non ne sono sicuro nemmeno io, di nessuna delle cose. Poi si vedrà. E come se ti dicessi come fai a svegliarti dal sonno. A un certo punto apri gli occhi, sei vivo. Ma penso c'entrino cose tipo traumi o roba simile."

"Io non ho traumi."

"Tutti ne hanno, ma non tutti li ammettono. Altri invece li ammettono, ma non li ammettono tutti. Comunque penso che una cosa che abbia influito molto sia stata la morte di tuo padre."

"Ma è successa dieci anni fa."

"Sì, ed è stata fondamentale. Poi gli eventi che si sono susseguiti mi hanno reso così."

"Ma perché?"

"Io so più di te su ciò che ti riguarda. Ma non so tutto. Vedi, quando è morto tuo padre tu ti sei chiuso in te stesso. Questo ha cominciato a causarti qualche problema sociale. Come un senso di disagio che in fondo hai e abbiamo sempre sentito. Questa cosa ti ha portato a farti pensare e a farti dubitare della parte dominante, quella conscia, adattata a regole che non condivide e comprende. Ti sei diviso, in un certo, senso tra quello che POTEVI essere, e quello che VOLEVI essere. E quel che potevi essere era già condizionato da quello che DOVEVI essere."

"Siamo veri allo stesso modo. Tu non sei una vera e propria un illusione. In un certo senso."

"Tu sai cos'è un illusione? È qualcosa che sembra essere. Ma che di fatti non è."

"Bravo. Attaccati al cazzo ora."

"Se tra noi ci potessimo uccidere allora uno di noi sarebbe un illusione."

"Quindi se uno di noi potesse morire allora non sarebbe più vivo e non essendo più vivo risulterebbe qualcosa che non è ma che sembrava essere. Non essenza."

"Esatto. L'essere non è relazionabile al tempo. Perché se una cosa cambia nel tempo allora sembrava solamente essere, ma non era. Ed essendo che né io né tu possiamo morire allora, almeno che non consideriamo la vita stessa un illusione in quanto temporanea, allora io e tu, siamo e quindi io non sono un illusione. Io sono, e sono vero quanto te."

"Allora uno tra noi dev'essere rinchiuso."

"Esattamente."

"Capisco. E come pensi di rinchiudermi?"

A quel punto Tancredi si voltò di spalle e cominciò a camminare rapidamente. Provai a chiamarlo, ma non mi sentiva, allora a gli procedetti dietro, ma la distanza sembrava non colmarsi e poco dopo scomparve.
Quello che mi era stato detto mi aiutava a comprendere, ma non risolveva nulla, anzi, creava più problemi poiché la cosa non si sarebbe potuta risolvere in maniera così semplice, e non avevo nemmeno idea di come ritirarmelo dentro.

Però avevo imparato una cosa: per lui che io vivessi era fondamentale, quindi dovevo richiamarlo usando la stessa maniera, ma questa volta dovevo rischiare con qualcosa che lui non potesse controllare. In fondo non dovevo, e non potevo ucciderlo. Dovevo solamente scoprire qualcosa in più su quello che avrei dovuto fare. Chissà poi che sarebbe successo se davvero lo avessi ucciso, forse sarei morto anche io o forse un pezzo fondamentale di me sarebbe scomparso. Mi ritirai in camera mia, aspettai che si facesse notte e che tutti in casa andassero a dormire.

L'attesa era terribile, non sapevo cosa avrebbe potuto fare Tancredi e nemmeno quando e come. Per tutto il tempo rimasi in teso come un filo legato a due estremità più lunghe della mia lunghezza. La mia pelle era bianca come quella di un defunto e Becca mi chiedeva se stessi bene. Una volta che tutti quanti si addormentarono salii sul terrazzo e mi arrampicai sul bordo del muretto che si affacciava su dodici metri di vuoto. Misi un piede avanti. Sotto avevo l'oblio.
Aspettai un po' che Tancredi si presentasse ma non successe nulla. Cominciai a riflettere e capii che innanzitutto dovevo capire bene il mio trauma, annessi e connessi.

Mi sembrava la cosa più logica da fare pur non avendo idea di quale fosse davvero la cosa più logica da fare. Inoltre capii che Tancredi non si presentava perché sapeva che il mio era solo un modo per attirarlo. Mentre ero di schiena con il vento che mi soffiava e mentre riflettevo guardando il cielo che quella sera era completamente nero, sentii qualcuno chiamarmi da dietro.

"Sognatore..."

Era una voce familiare, antica, Non era la voce di Tancredi o di Filiburbero e nemmeno di Becca. Riposi piede sul bordo del muretto del terrazzo e mi girai lentamente. Girandomi, e vedendo quello che vidi, a chiunque, penso, sarebbe preso un colpo. Io invece fui di pietra, sconcertato.

Era Mufasa, ma non Mufasa del Re Leone. Era il Gladiatore. Era mio Padre.
Lo vedevo lì davanti a me com'era sempre stato. Alto, robusto, con i capelli mancanti sulla parte superiore della testa, con le mani imponenti e callose, con la sua bocca felicemente triste e con i suoi grandi occhi scuri pieni di amore e compassione.
Gli occhi mi si fecero lucidi e cominciai a vedere appannato. Mi guardava quasi pietoso in un silenzio amletico che mi riempiva di domande.

"Che ci fai tu qui?"

"Io sono sempre stato qui."

"No. Tu sei morto."

"Questo non vuol dire niente."

"Anche tu sei frutto della mia immaginazione, vero?" chiesi come un cane bastonato.

"Sì. La mia immagine lo è."

In quel momento una lacrima uscì dal mio occhio e scese rigandomi la guancia. Anche se non era davvero lui non potevo contenere la commozione.
Mufasa cominciò a parlarmi della sua vita, anche se erano tutte cose che già sapevo. Mio parlò della guerra, mi parlò della sua famiglia e della condizione in cui viveva. Mi disse quanto mi voleva bene e mi disse quello che provava nei suoi ultimi mesi di vita. Mio padre andò per mare a sedici anni, un po' per lavoro e un po' per scappare dalla terribile situazione in cui viveva. Mio nonno, ovvero il padre di mio padre era un uomo ignorante e che non sapeva comportarsi con i bambini.

Li trattava male e li picchiava. Mi raccontò che una volta per punire mio zio lo legarono a un albero e gli spararono alla gamba. Erano moltissime le volte in cui mio nonno non riusciva a contenersi. E anche se mia nonna era più umana, nemmeno lei era un angelo. Dopo un anno per mare mio padre uccise involontariamente un uomo e rimase in carcere per tre anni, dove ebbe vita difficile visto che si seppe che suo fratello maggiore era un carabiniere. Anche per questo mio padre non credeva nelle forze dell'ordine. Uscito di galera andò in guerra in Africa a Sierra Leone come mercenario. Mi narrava di quanto fosse spaventosa la guerra e delle cose terribili che fu costretto a fare.

Là le persone si scannavano tra loro e spesso nemmeno sapevano il perché, ma dovevano combattere se volevano sopravvivere. Mi raccontò che una volta insieme ai suoi compagni rimasero quattro giorni rinchiusi in un casa distrutta senza cibo, e che una volta fece saltare un ponte condannando un intero villaggio uccidendo anche donne e bambini. Mi raccontò dei suoi ultimi giorni e di quanto volesse avere più tempo e volerci parlare e voler giocare con noi. Ma le sue condizioni non glielo permisero. Mi raccontò tutta la sua vita e tutte le sue emozioni, avventure e sventure.
Abbassai la testa e il mio corpo si mosse da solo verso lui.

"Papà..."

"Dimmi figliuolo."

"Tu sei morto."

"Sì."

"Io posso vederti però. Io posso ancora volerti bene. Io posso ancora sentire le tue storie. Sono tutte nei miei ricordi. Posso ancora scrutare l’oscurità nei tuoi occhi, posso ancora vedere la tua testa con i capelli mancanti, le tue manone giganti e il tuo sorriso quasi ingenuo. Io posso ancora pensarti, perché io sono. Vivo. È questo quello che fa soffrire quando si, muore. Perché tu invece non puoi vedermi, non puoi sentirmi, non puoi sentire i miei racconti, non puoi vedermi crescere e cambiare. E se anche tu fossi vivo e non potessi vederti, tu potresti comunque pensarmi e vedermi in un certo senso. Ormai solo io posso vederti, e tu non puoi. È questa la mancanza. Dico di essere vivo perché posso ancora amarti e perché così anche tu viva in me, ma essendo tu in mezzo le stelle allora lo sono anch’io."

Cinse le sue braccia attorno le mie spalle portandovi palmi delle mani su e giù sulle mie braccia.

"Tu puoi ancora vedermi e sentirmi, quindi io sono ancora vivo, io vivo in te e nella memoria di tutte le persone che mi hanno conosciuto." disse.

"Ma le altre persone non sono più nella tua memoria perché tu sei morto."
"Non importa. Perché io sono vivo. Sai perché sono qui?"

Cominciai a perdere ora una, ora due e ora tre lacrime.

"Perché?"

"Per capirti. Per farti capire."

"Che cosa devo capire?"

"Vedi, quando sono andato in guerra ho fatto tante cose di cui non vado fiero. La guerra mi aveva cambiato in un certo senso. Quando si è là si è disposto a fare di tutto per sopravvivere, e si ci è anche costretti a farle certe cose. La guerra mi aveva trasformato in un assassino. Ogni giorno succedeva qualcosa di terribile: uccidevamo uomini, uccidevamo donne, uccidevamo bambini. E chi aveva una coscienza non aveva nemmeno il tempo di fermarsi a riflettere su ciò che si era fatto e sul perché si era fatto, ormai eri là e dovevi continuare.

"Una volta tornato dalla guerra ero una persona diversa e non volevo esserlo. Mi odiavo per ciò che ero e per ciò che avevo fatto. Avrei voluto cancellare tutto quello che avevo fatto e tutto quello che avevo visto. Avrei voluto cancellare quello che era successo e ciò che ero diventato. Ma noi umani non siamo automi, non possiamo cancellare le cose così, e così, anziché rimanere per sempre l'uomo in cui tutto quel male mi aveva trasformato, imparai ad accettare l'uomo che ero stato per tornare ad essere l'uomo che ero. Accettai la realtà per com'era e alla fine non cancellai nulla ma lo accettai e divenni entrambi gli uomini. Perché entrambi erano nati da una necessità ed entrambi servivano. Non potevo cancellare una parte di me. Smisi di provare a mutilare la realtà. Capisci quello che ti sto dicendo?"

Il suo abbraccio si fece più forte.

"Sì, papà. Capisco quello che vuoi dirmi."

"Ogni parte di ogni persona è vera ed è essenziale, e non tutti hanno il coraggio e la sincerità di ammetterlo."

"Ti voglio bene."

Con quell’affermazione di amore, le sue braccia e il busto su cui ero poggiato e tutta la sua figura si dissolse.
A quel punto la cosa che dovevo fare era ormai chiara. Scesi in strada, che da lì sembrava il sottosuolo. Girovagai a caso con gli occhi chiusi. Non sapevo dove stessi andando, ma sapevo che sarebbe successo. Era una notte silenziosa, non passava nessuno. Il nulla era tale che riuscivo quasi a percepire il tempo tra un pensiero e un altro. E mentre camminavo senza una meta, aprii gli occhi di scatto e in fondo alla strada vi era Tancredi. Entrambi ci avvicinammo l'uno all'altro in quella stradina stretta e con poca illuminazione e giunti a pochi passi l'uno dall'altro ci guardammo negli occhi e capimmo entrambi cosa dovevamo fare.

“A che serve una security cam se è posta di fronte a uno specchio?”
“A guardarsi da sé stessa e a guardare ciò che lo specchio riflette dietro di essa.”

 La soluzione era ovvia.

Bucarsi.

Ma non bucarsi inteso come farsi eroina. Bisognava prendere una spada d’emozioni per bucarsi l'anima. Io e Tancredi non dovevamo vivere come entità diverse in uno stesso corpo, ma dovevamo coesistere come un’unica persona che le racchiude entrambi. Dovevo accettare che i miei problemi e drammi, per quanto futili fandonie potessero essere, andavano considerate.

Non potevo ignorarmi e provare a elevarmi da una parte di me. Il brutto fa parte di noi, e non tutto il brutto lo è davvero. Era stato mio padre stesso a darci la soluzione e a far capire entrambi qual’era la cosa migliore. Pensare troppo ti leva le emozioni, e provare troppo ti leva la ragione. C'era bisogno di entrambi. Di trovare un’armonia nel caos, come nel mare, quel mare che, come dissi tempo fa, mio padre amava. Alla fine, quindi, divenni, anzi, lo sono sempre stato, entrambi. Per quanto riguarda Becca, lei trovò lavoro in un altro posto dove la trattavano bene e mio fratello tornò all'università. Per quanto riguarda Ania, le cose tra noi due non andarono, anche perché forse l'avevo un po' spaventata, ma rimanemmo ottimi amici.

Come dissi all’inizio, questo è solo un pezzo della mia vita, nient'altro. Ma è un pezzo della mia vita che mi ha segnato e che mi ha dato la vita un vivente intero, e non per metà. Io non vivevo più in me, io vivevo me. Me nella mia interezza, e questo mi fece capire quanto meravigliosa sia la vita e quanta complicatissima e incomprensibile bellezza sia la realtà che ci circonda, e che nulla si può ridurre davvero all’uno.




Che v'è di buono in tutto questo,
ahimè, ah vita?
 Risposta
 Che tu sei qui, che la vita esiste, e l'identità,
 che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con
 un verso.[1]







FINE.

[1]Ahimè! Ah Vita!, Di Walt Whitman

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