Capitolo ∆=√(12² + 5²): Dualismi

Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super civitates munitas et super angulos excelsos.

Mi guardo intorno, e vedo gente vestita in tunica e con pesanti e sfarzosi gioielli. È tipo una messa nera. Sento una mano sulla spalla. Mi giro di scatto. Sono io. Sbatto le palpebre e mi ritrovo improvvisamente a casa con un grande specchio davanti. Sono sbigottito. Lo guardo attentamente, e lui comincia a muoversi. Il riflesso è indipendente, non segue i miei movimenti, ne ha di propri. S’infila la mano in tasca e dalla suddetta tira fuori quella dannata rivoltella. Me la punta contro.

"No, che fai? Io sono te."

"No. Io sono te. Tu non sei me."

"Aspetta, aspetta. Che ti ho fatto? Non sparare."

"Mi hai fatto cadere dal cielo. Mi hai dato una vita. Non l'ho mai chiesta."
"Nessuno la chiede."

Mi guarda in silenzio per qualche secondo, e dal suo sguardo riesco a percepire ogni suo pensiero. Quell'io non era altro che la parte più nera di me, piena di rancori e paure che io non ammetto a me stesso.
Continua a fissarmi. Tiene il dito sul grilletto, che piano a piano viene premuto con più forza. Sento un suono. Mi spara.

Mi svegliai di botto, era solo un incubo.
I miei incubi, un po' come i miei sogni, sono sempre stati particolarmente strani, il che mi portava a chiedermi se Freud non si fosse inventato l'interpretazione dei sogni.
Quella sera, come tante altre più avanti, quell'incubo mi turbò a tal punto che rimasi insonne.
Era passato qualche giorno da quando ero uscito dall'ospedale e Bartolomeo ci aveva appena denunciati. Così il giorno del processo si avvicinava sempre di più. Sarebbe stata per me la prima volta in un tribunale. Anche se per concludere un processo ci vogliono anche anni certe volte date le necessarie pratiche preliminari e data la pesante burocrazia italiana.

Per iniziarlo si sarebbe dovuto prima iscrivere la notizia di reato, poi svolgere delle indagini preliminari, per poi passare a un udienza anch’essa, forse, preliminare. Il primo step credo fosse già stato compiuto il giorno che incontrai Ania pochi giorni dopo essere uscito dall’ospedale.
Mi presentai da lei senza preavviso né convenevoli e fui molto diretto.

"Due cose importanti. la prima: mi hai sparato di proposito? La seconda: hai già parlato con la polizia? Se sì, che gli hai detto?"

"Potresti almeno salutarmi... " sospirò.

"Potrei, ma non lo farò."

"Sei arrabbiato con me?"

"Rispondi alle mie domande e io rispondo alle tue."

"E quali erano?"

Ripetei quello che le dissi poc'anzi.

"Non l'ho fatto di proposito, perdonami... io non volevo. Il colpo è partito solo e io mi sono spaventata."

Cominciò a farneticare mille mila scuse e a vomitare parole chiedendomi scusa a ripetizione.
La interruppi e parlai innervosito.

"Basta! Va bene, ho capito. Siamo a posto. Ma adesso rispondi all'altra domanda."

"Non ti arrabbiare!" ripeté lei.

"Oh me stesso! Non sono arrabbiato, sono preoccupato. Quindi per favore rispondi."

"No, non ho ancora parlato con la polizia."

"Grazie a Dio sei riuscita a rispondere. E che mi dici della pistola? "

"È carina."
Quel giorno la sua innocenza m’irritava.

"Perché mi odi? L'hanno vista quando mi sono venuti a prendere? O sei riuscita a nasconderla?"

"Stavo scherzando. Sì, sono riuscita a nasconderla."

"Bravissima. Sappi che mi hanno denunciato per aver sparato a qualcuno. Quindi della pistola non sai niente. Va bene?"

"Ma se dicessimo la verità non sarebbe meglio?"

"In genere è così, ma in questa particolare situazione no. Perché se dicessimo la verità sarei sicuramente arrestato per qualcosa che non ho fatto."

"Come mai?"

"È un casino praticamente. Ma dobbiamo avere un alibi va bene? Perché la polizia sicuramente c'interrogherà e non dobbiamo dire cretinate. Va bene? Quindi io dirò che non ricordo niente perché se interrogassero il dottore dell'ospedale in cui sono stato e dicesse qualcosa di diverso da quello che ho detto là potrebbero pensare che io menta."

"Ma tu devi stare tranquillo. Se non hai fatto niente non ti succederà niente."

Quel giorno era troppo innocente e stupida, cosa che in realtà per quanto fastidiosa mi faceva tenerezza.

"A volte capita che i giudici si sbaglino. Adesso tu devi creare una storia credibile. Va bene?"

"E che devo dire?"

"Oggi mi stai facendo davvero impazzire. Non lo so di’ che un tizio con un passamontagna ha provato a rapinarci e mi ha sparato che so."

"Va bene..."

"Anzi, Tu che hai detto quando hai chiamato il centodiciotto?"

"Solo che ti avevano sparato."

"E non ti hanno chiesto niente?"

"Non ne avevano il tempo."

"Allora digli quello che ti ho detto poco fa."

"Ma ci servono dei particolari."

"Sì, ma non troppi sennò si vedrebbe che menti. Più che altro dobbiamo pensare al suo aspetto. E sai che aspetto gli darai?"

"No, quale?"

"Dirai che era un ragazzo, o un uomo, alto con le spalle larghe. Così sembrerà lo stesso che ha sparato al capo di mia madre."

"Era così?"

"Sì. Per questo m'incolpa. E digli anche che dalla voce si sentiva che era giovane, ma di’ che era diversa dalla mia."

"Io non voglio mentire. Potremmo finire in guai peggiori se ci scoprono."

Il suo volto esprimeva più malinconia di quanto potessi sopportarne, così mi calmai e la strinsi a me.

"Tranquilla. Lo so che non vuoi, ma se non lo fai sono fregato. E comunque così non avranno prove e non potranno farci niente."

Non vado molto fiero di quello che penso possa definirsi un vero e proprio ricatto morale, ma era necessario. Rimase con a testa china sul mio petto per un po’, fece un respiro profondo e accettò.

"Ania, solo un’ultima cosa."

"Cosa?"

"Trova un posto sicuro alla pistola e lasciala là, ma prima puliscila. Non dirmi dove la lascerai. E non tornare più in quel posto."

"Va bene. Chi l’avrebbe mai immaginata una situazione simile."

“Non ne ho idea. Forse solo un pessimo scrittore.”

Tornai a casa con la testa colma di pensieri. Lì, una Becca preoccupatissima mi aspettava ansiosa sapendo che a breve avrei dovuto parlare con qualcuno e lei aveva paura potessero incastrarni. A mezzanotte circa mi andai a sdraiare sul letto voglioso di dormire data la particolare stanchezza causata dalla mia insonnia.

Mi trovo da solo in una stanza nera. Ho davanti qualcuno, ma non riesco chiaramente a vedere. L'unica cosa che vedo è il sangue che lo ricopre, e l'unica cosa che percepisco è che quella persona in qualche modo è la mia nemesi.
Mi guarda con quei suoi terribili occhi che non posso scrutare, ma che posso sentire. Comincia a parlare.

"Devi chiamare il silenzio e aspettare che arrivi, devi farti scudo con la vergine di Norimberga."

Ogni secondo i suoi occhi diventano puù grandi e piatti.
Si gira, prende una lanterna che emette un luce fioca e appannata e, nonostante la torcia non posso a osservarlo in viso. Noto solo il suo braccio ricoperto di ferite.

"Tieni questa lanterna e adesso cerca il buio."

Rimango immobile, come privo di sensi.
La nemesi scoppia a ridere, lancia un urlo che risuona ovunque, mi strappa il lume dalle mani e lo scaraventa al suolo.

Mi svegliai di botto ancora una volta. Erano le tre di notte. Passai il buio restante a girovagare per la casa in silenzio non riuscendo più a dormire. La mattina e la scuola non migliorarono le mie già pessime condizioni. Più passavano le notti insonni e più ero nervoso. E più ero nervoso e più tendevo ad isolarmi, ma in quel momento ero solo all'inizio.

Dopo scuola tornai a casa e dopo aver mangiato mi buttai subito sul letto senza pensare a niente. Chiusi gli occhi e mentre stavo per addormentarmi Becca mi venne a chiamare, urlando come solo lei sa fare.

"SOGNATOREEE!"

Avrei voluto insultarla, ma sta volta aveva un motivo valido: era arrivata la polizia.
Andai in cucina con delle occhiaie che sembrava simulassero della cicatrici. Se non mi avessero arrestato per aver sparato a Bartolomeo l'avrebbero fatto per uso di stupefacenti. Era strano che venissero loro da me, pensavo che dovessi essere io ad andare da loro in qualche stanzino o roba del genere. Insomma mi aspettavo qualcosa di più ufficiale diciamo. Forse è solo perché ero un ragazzo e non pensavano a male.

Non capii il perché di quell’incontro visto che non mi era stato notificato e nemmeno era presente il mio avvocato.
"Salve giovane!" Disse uno dei due. L'altro invece fece solo un cenno con la testa.

"Buongiorno" risposi.
Erano i soliti poliziotti stereotipati. Bassini, con la pancetta,  gli occhiali da sole al chiuso e i sorrisi da ebeti.

"Cominciamo?"

"Sì, ma certo."

"Allora," disse il primo, "Che ci dici di quella sera?"

"Non ricordo niente. Mi ero visto con una mia amica, ma a un certo punto ho come un vuoto."

"Che punto?" chiese il secondo. Lui quindi sarebbe dovuto essere il poliziotto cattivo.

"Non è che ci sia proprio un taglio netto. Ma mi ricordo che passeggiavo con questa mia amica parlando del più e del meno e poi mi sono ritrovato all'ospedale. Ma poi perché stiamo parlando di quando hanno sparato a me. Non dovremmo parlare di quando hanno sparato a Bartolomeo?"

"Sì, volevamo solo controllare alcune cose" ribatté il  primo.

"Che volete sapere?”

"Raccontaci tutto di quella giornata."

Non volevo nominare Tancredi, perché avrebbero indagato su di lui e magari sotto pressione avrebbe potuto confessare.

"Sono stato solo durante il pomeriggio. In giro."

Il secondo poliziotto spostò la sua sedia verso di me con il corpo.
"Solo eh? Che ci facevi solo?"

"Parkour. È uno sport urbano."

"Su continua" aggiunse il primo con un sorriso che gli andava da una guancia all'altra.

"Poi sono tornato a casa."

"E quando sei tornato?" chiese il secondo.

"Alle diciannove circa."

Non sapevo quando avessero sparato a Bartolomeo, ma Tancredi se ne andò non molto prima che io salissi in casa, quindi a quell'ora non aveva sicuramente sparato a Bartolomeo.

"Va bene, va bene. E non ci puoi dire nient'altro?"

"Non penso ci sia molto altro di importante da dire."

"Per curiosità," chiese il primo, " a che ora sei uscito con la tua amica?"

"Circa le ventitre."

"E che hai fatto dalle diciannove alle ventitre?” domandò repentinamente il secondo.

"Sono rimasto in casa, ho studiato, mangiato e guardato qualcosa."

Dopodiché mi fecero qualche altra domanda sparsa qua e là e mi chiesero se ne sapessi niente di un signore che lavorava per la stessa azienda che era stato rapinato non molto tempo prima. Risposi, ovviamente, di averne letto vagamente qualcosa nei giornali e poi null’altro. Successivamente mi fecero un riepilogo di tutte le domande e le risposte che avevo dato e infine se ne andarono. Probabilmente sarebbero andati a parlare con Ania, ma se lei si fosse attenuta al piano non ne avrebbero cavato nulla.
Alcune settimane dopo ci venne notificato che l’incontro con i pubblici magistrati si sarebbe tenuto in centrale e che sarei dovuto andare là con un avvocato. Dissi le stesse cose che vi ho raccontato, ma nessuno seppe dirmi chi erano quei poliziotti e perché passarono da me in via non ufficiale. 

Per pagare l'avvocato mia disse a me e mio fratello di trovarci un lavoro, dato che lei era stata licenziata, così Filiburbero venne trovo impiego come cassiere in una paninoteca, mentre io, pur di non lavorare, presi alcuni contanti avuti grazie alla rapina e li lasciai in una busta nella cassetta della posta come un donatore anonimo.
Quando li trovò mia madre ringraziò Dio per un giorno intero e organizzò una specie di festa. Forse quei soldi li presi davvero grazie a Dio. Ma erano rubati, quindi ne dubito. Quella sera, dopo quasi due giorni insonne sprofondai nel letto.

Mi guardo intorno, è tutto blu e sono circondato da tronchi, foglie e cadaveri di vecchi alberi. Ogni cosa è ricoperta dalla nebbia, quasi ci affogo in questo mare di bruma. Dietro di me c'è un fiume che scorre quieto con acque limpide e stagnanti, e su di esso è riflesso il più bello dei corpi celesti: la luna. Il cielo è di un blu incantevole, elettrico. Confuso e strabiliato cerco la guida nel cielo e mi concentro sulla madre del sole. Ha l'abito da sera, è vestita di nero, e fuori ha solo la spalla sinistra. È una luna calante che lascia spazio a una luna nuova simulando un arco argenteo nel vuoto. Più la guardo e più m’innamoro, come Pierrot. Passo dopo passo mi avvicino al fiume e mi ci specchio, e mentre guardo il mio riflesso che non sono io, le foglie a contatto con il vento mi parlano. Sono un cornuto, o per meglio dire un cervo.
D'improvviso il mio fascino per la luna si trasforma in terrore, perché quella luna significa una sola cosa: Artemide. Sarei dovuto morire. Ancora. Comincio a guardarmi freneticamente avanti e dietro, a destra e a sinistra, e il bosco diventa più fitto, sempre più fitto fino quasi a soffocarmi. La luna, splendente di luce propria mi guarda impietosita e decide di finirmi scoccandomi contro una freccia che mi ucciderà senza darmi pena.

Saltai fuori dal letto più inquieto che mai. Fuori era giorno pesto, e il sole mi puntava in viso le sue lance. Pensai quanto fosse stronzo il sole, un egocentrico bastardo che pensa che tutto giri attorno a lui (ed è così effettivamente), e che ha l'arroganza di coprire tutte le altre stelle come se fossero meno importanti di lui (e per noi è effettivamente così). Infatti le stelle continuano a brillare anche di è giorno, ma è lui, dall’alto del suo narcisistico piedistallo che non ci permette di mirarle, coprendole con la sua luce.

Quando soffri di insonnia non sei mai realmente sveglio, e non sei mai realmente addormentato. Tutto è una copia, di una copia, di una copia.
Non dormivo quasi più, e se lo facevo gl’incubi mi tormentavano. Certe volte mi alzavo e riscaldavo l'acqua per guardarla cambiare stato. Erano passati alcune settimane e la mattina prima dell’udienza in tribunale una canzone mi risuonava nella testa.

Un‘altra notte manca l'aria, un’altra notte appresso alla mia smania, un’altra notte appresso a troppi paradossi che non calmo con un altro “Calma”[1]

Rispecchiava perfettamente la mia situazione. Dovevo dormire, dovevo assolutamente dormire. Coprii i miei bulbi oculari facendoli abbracciare dalle mie palpebre e cominciai a ripetere a me stesso: "chiudi gli occhi e dormi, chiudi gli occhi e dormi…"

Mi trovo nel mio letto in una foresta vuota. Sbatto le palpebre e attorno a me si figurano cento me stessi che mi guardano zitti. Ricambio le occhiate. Uno di loro prende quella fottutissima rivoltella e comincia a sparare a tutti i miei cloni. Ogni colpo che subiscono i miei cloni lo percepisco io. Agonizzante e furioso gli tiro via la pistola di mano. Lui non si oppone, e io gliela punto contro. Non so che fare. Lui è l'assassino, ma se lo sparo il dolore lo provo io. Non m' importa, e con tutta la mia furia premo il grilletto, ma la pistola è scarica.

Mi svegliai, sta volta più tranquillamente, era solo l'una di notte. Provai a ricadere nel sonno il prima possibile e finalmente riuscii nell’impresa di dormire tranquillamente dopo solo Dio sa quanto tempo. Il giorno dopo mi alzai dal letto decisamente più quieto, anche il sole sembrava meno stronzo. Alle nove dovevamo essere in tribunale, e ad accompagnarmici fu mio zio Don Vittorio che, come al suo solito, guidò
talmente lentamente da intasare le strade e canticchiando sottovoce i nomi dei posti di fronte cui passavamo.
Entrai in tribunale vestito elegantemente e rimasi un po' deluso dalla struttura, che nella mia mente si presentava più vistosa.

Era molto  legnoso, incredibilmente scarno, quasi vuoto e privo di spirito. Non mi diede alcun il senso di giustizia. Il giudice, poi, era un signorotto obeso e con un tic al labbro, il quale gli tremava prima di cominciare ogni frase, e dall’aspetto tutt’altro che rispettabile.
Il mio avvocato era uno dei miei tanti zii. Lo zio Ruggerino, noto per la sua avidità, che provo a nascondere dicendoci di averci fatto un prezzo di favore. In realtà non sono nemmeno sicuro che fosse davvero laureato in legge, anche perché a quanto pare non aveva nemmeno la laurea nel suo studio.

Era il classico avvocato, ammesso che lo fosse per davvero, che non vedeva l'ora di andare in pensione. Occhi scuri, pancia da birra, sguardo vuoto, un sempre presente broncio e orecchie grandi e a sventola. Non aveva nemmeno un collo, aveva semplicemente tre menti che gli collegavano il capo alle spalle.
Guardando il tribunale mi chiedevo quante fossero le cause finite con un ingiustizia, e nella mia testa successe qualcosa di cui dubito tuttora l’avvenimento.

Avete ami provato a pensare due parole diverse nello stesso momento? Provateci. È letteralmente impossibile. Eppure sono sicuro che ciò avvenne, come mi fossi sdoppiato.
Come creare dei vincoli in cambio di libertà o come diffondere menzogna in nome della verità.
La cosa mi destabilizzò al punto di perdere la concezione dell’esterno, tant’è che dell’udienza non ricordo quasi nulla.

Tuttavia, ricordo Bartolomeo con lo sguardo fisso su di me, e ricordo il timore che mi provocò il suo avvocato, il quale aveva un assetto molto molto più professionale di mio zio e magari era anche laureato.
Completamente estraniato da me stesso dissi quello che dovevo dire e nel giro di un paio d’ore l’udienza si concluse.
A dispetto delle apparenze Ruggerino era un grande oratore e, nonostante il processo nel senso vero e proprio del termine non fosse ancora concluso, in quanto il giudizio era stato rimandato, la situazione era profondamente a vantaggio mio.

Noi avevamo Ania, quindi un testimone e un ferito, ovvero io. Loro non avevano nemmeno un’arma o un testimone. Avevano solo un movente, e non avendo raccontato ciò che Bartolomeo aveva davvero detto a mia madre, in quanto i fatti furono alleggeriti, il movente risultò scarso.
Il tutto venne portato avanti per alcuni mesi, ma nulla poteva incolparmi in maniera vera e propria e col tempo venni scagionato.
Uscito dal tribunale Becca si sciolse in lacrime facendole scorrere sul viso e senza asciugarle nonostante avesse un fazzoletto.

"Lo vedi? Grazie a Dio è andato tutto bene."

"Te l'avevo detto che non c'entravo niente."
Mi strinse e continuò a piangere immotivatamente.

Ringraziai Ruggerino e tornai in macchina con il Don.
Ora dovevo solo chiarire con Tancredi che non si era più fatto sentire e che io non avevo più cercato. Lo chiamai al telefono, ma non rispose. Provai a chiamarlo più volte ma non rispose nemmeno una volta. Pensai di andare a casa sua, ma non ricordavo nemmeno l'indirizzo. Solo il muretto su cui ci eravamo seduti insieme era rimasto nella mia mente.

Ancora una volta trovo davanti la mia nemesi. Mi guarda tetra, confusa e aggressivo. Si sposta verso di me come stesse trascinando qualcosa.

"Ci sei riuscito?"

"A fare cosa?"

"Quello che ti avevo chiesto."

"Quello che mi hai chiesto è impossibile."
Urla risate frenetiche, si muove, sbatte in giro per poi fermarsi di colpo. Torce il collo per farmi rientrare nel suo campo visivo.

"La mente è un arma... è inutile cercare una causa se non sai accettarla. È inutile inventarsi una causa se poi non sai nemmeno accusarla. Trova una ragione dietro la ragione. È tutto nel subconscio!"

Muove la mano tremolante e porta la luce vicino al viso. Sono io, malridotto con un sorriso inquietante.
Insieme le nostre labbra si muovono per magia.

"Adesso tieni e cerca!"

Fu la suoneria del telefono a farmi aprire gli occhi. Era Tancredi. Rimasi attonito, ma risposi immediatamente.

"Sognatore, quanto tempo. Ho visto che avevo sedici chiamate perse. Che c'è?"

"Perché mi stai richiamando proprio adesso? Dove sei stato?"

"Ho avuto impegni, scusa. Potevo farmi vedere di più effettivamente."

"Va bene, va bene. Vieni a casa mia adesso. Dobbiamo parlare."

"Riguardo cosa?"

"Riguardo un sacco di cose. Ti aspetto in cortile a casa mia."

"Non mi sono mai piaciuti gli appuntamenti al buio."

"Sono serio. Ti aspetto."

"Come vuoi. Ora mi parto."

Mi resi conto che guardare un posto di notte è completamente differente dal vederlo di giorno. Mi sedetti sul muretto e notai che la luna era diversa dai miei sogni. Lei brilla di luce riflessa non propria. Stavolta era a metà. Una metà bianca e una metà scura. Mi stendetti in silenzio e aspettai Tancredi. Dovevamo assolutamente parlare.

[1]Frammento dalla canzone “Nichilismo” di MezzoSangue

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