Capitolo 10: Filiburbero

Come vi ho già detto Filiburbero è mio fratello maggiore, e il mio rapporto con lui è sempre stato un po' complicato, ma tutto sommato buono.
Lui è simile e diverso da me allo stesso tempo, anche se in realtà la stessa cosa la si potrebbe dire di ogni essere umano.. Lui è molto più comprensivo e anche più di cuore. È alto, con il naso dritto e un po' a patata, con i capelli ricciolini e rossicci. Occhi piccoli e scuri come quello di uno scarafaggio, e dalla statura montuosa.
Non parlavamo spesso. Ci punzecchiavamo ogni tanto e ci voltavamo se i nostri occhi s’incrociavano troppo spesso in troppo poco tempo.

Pochi giorni dopo la festa avevo cominciato a vagare per casa come un fantasma, con le braccia molli e i piedi striscianti. Nonostante il mio dover essere felice per gli mi era stato imposto da me stesso, non riuscivo comunque a rispettarlo. Così sbattendo da una parete all’altra di casa finii per trovarmi in salone, dove trovai Filiburbero leggere un libro:

"l'uomo che non dimenticava nulla".

Questo narrava riguardo un soggetto ipermnesico, il quale voleva dimenticare una serie di brutti ricordi, ma che per via della sua condizione non vi riusciva. Non conosco molto altro della storia, ma qualcuno, secondo me, chi ha pensato tale storia dev’essere un genio.
Mi avvicinai alla sedia di fronte a lui, mi ci appoggiai con un braccio e cominciai a fissare mio fratello. Mi chiedevo come facesse a leggere con così poca illuminazione; io in genere leggo con almeno undici luci accese, tre faretti, cinque fanali e sette torce. A lui invece bastava la fievole luce crepuscolare che entrava dalla finestra.

Dopo un po' si accorse di me, ma non distolse comunque lo sguardo dalla narrazione. Quando notò che pur ignorandomi io rimanevo immobile come una statua cominciò a parlare, pur continuando a leggere. Mai più ho visto in vita mia una cosa assurda come quella.

"Com'è? Che hai fatto oggi?"

"Niente. È stata una giornata noiosissima. Sono rimasto tutto il giorno in casa a non fare niente."

"Dei tuoi amici non c'era nessuno libero?"

"A quanto pare oggi avevano tutti impegni."

Sfogliò una pagina.

"Peccato."

"Tu invece che mi dici? Che hai fatto oggi?"

"Ho studiato. Ho studiato troppo. Sembra che ormai l'unica cosa che faccia sia leggere. O leggo un libro per l'università o leggo un libro per svagarmi. E ogni tanto guardo qualche serie tv."

Sfogliò un altra pagina.

"Va be’, ci sono momenti in cui bisogna studiare di più. Almeno penso. Non sono ancora stato all'università."

"Sì, è come dici tu. Poi adesso che sono sotto esami mi sta prendendo la testa."

"Ma come mai hai scelto psicologia?"

"È strano che tu me lo chieda dopo tre anni, ma la risposta è scontata: mi affascinano le persone e il modo in cui funzionano diciamo. Mi sono espresso male, ma penso che tu mi abbia capito."

"Sì, sì, ti capisco. Anche a me affascinano 'ste cose."
Poi chiuse il libro, lo posò, e fissò il vuoto qualche istante con le mani unite sotto il mento.

"Tu ti ricordi di papà?"

"Certo che mi ricordo di papà. Mi chiamava pagliaccio. Invece tu per lui eri <<il Crasto>>."

Filiburbero guardò il tavolo e sorrise pallidamente.

"Sì, mi ricordo. Tu invece ti ricordi di quando ci faceva sdraiare vicino a lui nel divano e appena ci mettevamo vicino a lui ci stringeva forte per non farci scappare e poi cominciava a scorreggiare” si fermò. “Voleva proprio intrappolarci" sospirò nostalgico.
Sentii un po' di nostalgia e anch'io cominciai a sorridere, anche se più con la mente che con il corpo.

"E come potrei dimenticarlo? E ti ricordi quando ci ha fatto sparare con il fucile ai giocattoli che non volevamo più?"

"Diciamo che noi poggiavamo le mani sul fucile più che altro. Era lui a sparare. Era un bravo picciotto. Anche se forse ho preso da lui la mia tendenza a cacciarmi in brutte situazioni."

"Effettivamente qualche anno fa eri completamente sbandato. Mamma aveva paura che tu avessi cominciato a drogarti."

"C'è mancato poco."

"Quanto poco?"

"Molto poco. Qualche giorno fa ho rivisto uno dei miei vecchi amici."

"Chi?"

"Peppe Collinascura. Era tutto sciupato. Aveva la faccia di chi è mangiato dalla droga. Appena l'ho visto ci siamo salutati, abbiamo parlato un bel po' e tutto il resto. E alla fine mi ha detto che se volevo potevano rincontrarci per tornare ai vecchi tempi. E poi mi ha dato un foglietto."

"Che foglietto?"

Si alzò dalla sedia ed andò in un altra stanza. Quando tornò dopo qualche minuto aveva un foglietto tutto stropicciato tra le mani. Così si sedette di nuovo di fronte a me, apri il foglietto e me lo fece leggere.

"morfina, diacetylmorfina, ciclozina, codeina, temazepam, nitrazepam, fenobarbitale, amobarbitale, propoxyphene, metadone, nalbufina, petedina, pentazocina, buprenorfina, destromoramide, chlormetiazolo, xanax."

Era un elenco di tutti i farmaci legalmente reperibili utili per sballarsi. Quella gente doveva essere messa proprio male.

"Cazzo, ma questo è ridotto davvero male. Non ha i soldi per comprarsi la roba e campa a farmaci."

"E non è la cosa peggiore. Quella volta dopo essere tornato a casa lessi questo foglietto e rimasi scioccato. Dovevo andargli a parlare assolutamente.
Così qualche giorno dopo sono andato a casa sua e ho parlato con lui di questa situazione. Ormai non ce la faceva più. Mi ha detto che ‘ste cose manco le comprava, andava negli ospizi e li rubava ai vecchietti."

"Arrivato al limite."

"Gli ho detto che doveva smetterla ma non so se mi stava ascoltando o faceva finta. Sicuramente ha cominciato a capire cosa dicevo solo dopo che iniziato a urlargli contro."

"Ma poi non sono benestanti in famiglia? I suoi non gliene danno soldi?"

"I suoi lo sanno che si droga e non gli danno niente. Al massimo lui gli ruba qualcosa ogni tanto."

"E pensi che dopo che gli hai parlato abbia smesso?"

"Sinceramente non lo so, anzi non credo. Ma magari l'ho fatto riflettere."

"Lo spero per lui. Comunque mi stavi raccontando qualcosa di tuo."

"Di ‘sta cosa non ne ho mai con Becca. Sarebbe impazzita se glielo avessi detto. Comunque qualche anno fa, quando anche io uscivo con loro ero sempre in giro con loro a fare cretinate insieme. Poi in quel periodo ho anche cominciato a spacciare erba. Ma alla fine queste sono cretinate, cose da ragazzini, e a me qualche soldo in tasca avrebbe fatto sicuramente bene.

"Però c'è stata una sera che eravamo tutti al garage di Peppe. Poi arrivato Oronzo, tutto contento ed esaltato. Ci diceva che aveva una sorpresa. Noi eravamo tutti incuriositi e pensavamo a chissà cosa. Io ad esempio pensavo fosse una pistola, e ci speravo anche. Anche perché volevamo provare a fare qualche minchiata. Quando sei con certe persone e si parla solo di rispetto è facile che ti venga voglia di farle. Oronzo invece aveva portato dell'eroina. Inizialmente erano tutti titubanti. Ma poi Oronzo li ha convinto con le solite cose tipo: è solo per una volta. Oppure: tanto mica diventiamo tossici, è per divertirci. Alla fine l'hanno provata tutti tranne me. Mancavo solo io. Tutti insistevano per farmi provare, ma alla fine non ho voluto e sono tornato qua. Da quella volta le cose sono cambiate, e non hanno provato solo una volta. Sono state poi le circostanze a farmi allontanare. E forse è stato un bene."

"Cavolo, potevi finire come loro."

"Sarei finito peggio di loro. Conoscendomi per trovare i soldi per la droga avrei preso una pistola e rapinato qualcuno. Sicuro. Sono abbastanza impulsivo lo sai."

"No va be’, è che sei un coglione. Sono cose diverse."

Ridemmo entrambi, ma dopo poco lui tornò serio.

"Io non capisco chi giustifica queste persone. C'è gente che dice che avranno una buna ragione per farlo. C'è gente che dice che le persone hanno una dannata buona ragione per drogarsi, e che non è una loro colpa. Io un po' capisco chi dice così. Ma non è che una scusa. Sennò potremmo dire che anche gli assassini avranno una dannata buona ragione per fare quello che fanno. E non è così. Se si vive in una certa situazione si dovrebbe fare in modo di uscirne e non si dovrebbero usare certe situazioni come scuse per fare delle cretinate. La verità è che la droga è una malattia, e non si dovrebbe mandare tutto a puttane dicendo <<facciano quello che vogliono, è la loro vita>>, perché non è così. Si hanno delle responsabilità verso gli altri, e uccidersi così è come uccidere chi ti ama."

"Lo penso anch'io."

Quella volta fu come un confessionale per lui, e mi raccontò molte storie di quel tipo. Io non avevo molte storie di quel genere. Certo, se non consideriamo la faccenda con Tancredi, che decisi di non raccontargli. Sentendolo parlare di tutte quelle volte che stava per fare un emerita cazzata, e sentendo di tutte quelle volte che picchiarono qualcuno per qualche cazzata o fece qualche cazzata con i suoi amici, mi fece capire quanto differente fu l'impatto della morte di mio padre su di lui rispetto a me.

Io dopo la sua morte mi ero chiuso in me stesso e avevo smesso di cercare rapporti umani fino a sentirmi quasi senza sentimenti. Lui invece provava a svagarsi e a fare di tutto per non pensarci, e questo lo portò sulla cattiva strada. Forse Influì anche l'età in cui subimmo il trauma. Io  avevo sette anni mentre lui tredici, quindi anche le possibilità d’azione erano diverse. Forse se avessi avuto la sua stessa età avrei fatto lo stesso.
Per non scadere nel triste, al mio solito, lanciai una domanda casualissima, anche se nel contesto poteva sembrare sensata.

"Okay. Secondo te come facciamo a conoscere? Cosa ci serve davvero per farlo?”

So che sembra una domanda troppo casuale, ma se vi dicessi come siamo arrivati a questo punto non mi credereste. Vi dico solo che tra gli argomenti trattati prima vi furono le principesse Cisney, i colori più antipatici e come dovesse far sentire i vegani o i vegetariani il fatto che, secondo uno studio scientifico, è possibile sentire le piante urlare tramite ultrasuoni quando vengono maltrattate.

"La memoria e il concetto d'identità. Infatti, se per esempio non avessimo memoria non potremmo avere conoscenza. Se ogni cosa che riuscissimo ad acquisire la perdessimo istantaneamente allora ogni cosa sarebbe inesistente. Non esisterebbe la scienza, la matematica, i rapporti sociali. Niente di niente."

"Ci sta. Effettivamente, se non avessimo il concetto d'identità e non potessimo quindi identificare le cose allora anche la memoria diventerebbe inutile. Senza questi concetto non esisterebbe niente. Niente di niente sarebbe conoscibile. Che in realtà certe cose sono classici come il principio di non contraddizione."

"Mi hanno sempre intrippato ‘ste cose. Soprattutto il concetto d’identità, che teoricamente ti dovrebbe dire cosa una coosa sia ma non si può davvero rispondere a cosa sia l’identità."

" Sì, insomma, noi stessi abbiamo un solo nome e mille identità."

"Mi devi fare davvero leggere sto libro di cui mi hai parlato. Sembra figo."

"Con i Social, poi, il concetto di identità riferito a noi sta andando davvero a puttane. Cioè se già la gente ha mille mila idee diverse di noi con i social le cose si aggravano ancora di più. Infatti una persona così può avere un idea di noi per quello che vede nei social diversa dall'idea del noi reale. Quindi tendenzialmente è un casino."

"Sì ma poi così anche tutte quelle persone per la quale prima eravamo uno sconosciuto adesso possono farsi un idea di noi. E possono farsi l'idea di noi che noi vogliamo. Visto che sui Social puoi anche non mostrarti per come sei. Un po' come quegli ignoranti che mettono frasone importanti sotto i post. Magari pensi che sia una persona intelligente quando in realtà è un cretino preciso."

"In realtà problemi simili c'erano anche in antichità. Magari Re Artù era conosciuto dai suoi nemici come IL TERRIBILE MIETITORE DI TESTE, il suo popolo, invece, lo conosceva come sovrano benevolo, e sua moglie invece come dolce amante. Chi lo sa."

“Pensi fosse un dolce amante?”

“Non sono nemmeno sicuro che sia esistito.”

"Mi sa che più le idee riguardo qualcuno variano allora più quella persona è famosa. Franco il contadino rimaneva Franco il contadino. Solo più o meno simpatico, bello e le altre robe così."

"Praticamente l'identità è tutto quell'insieme di dati che ci definiscono, o che comunque definisce qualcosa. Ma se ognuno ha una diversa concezione di ogni cosa allora anche l'identità di quel qualcosa se pur sotto lo stesso nome è diversa."

"Siamo praticamente tornati al punto di partenza. L'identità è relativa, e perciò si può dire che sia un paradosso. Anche se forse stiamo confondendo sostanza ed essenza. Non lo so. Vaffanculo."

“Hai finito di nuocermi adesso?”

“Non finirò mai.”

E durante un così simpatico momento fraterno, suonarono il campanello, e il momento si perse.
Mi alzai dalla sedia e andai ad aprire.
Aprii la porta e vidi un signore bassino tutto incravattato e con i capelli bianchi tirati all'indietro. E nonostante gli occhi simili al ghiaccio contrastavano le mani callose, la sua aria signorile non veniva per nulla lesa.
Inizialmente non capii chi fosse, poi mi ricordai che mia madre quella sera aveva organizzato una cena a casa nostra con i suoi colleghi d'ufficio.
"Salve!" esclamo cortese interrompendo il silenzio.

"Buongiorno."
Lo feci entrare e lo feci scortai dall’ingresso alla sala da pranzo.
Non conoscevo quel signore. Mi pare si chiamasse Flavietto, ma ebbi comunque l’impressione di averlo già visto. Più tardi, durante la cena,  accennò a un ricambiato sentimento, anche se in modo molto vago.
In poco tempo ci raggiunsero gli altri invitati, e tra questi riconobbi il suo capo: Bartolomeo.

Fu mia madre ad aprirgli la porta e a chiamarlo per nome. Era un signore alto con i capelli grigi e la pelle non troppo rugosa. Io me l’ero immaginato più simile a una tartaruga fino a quel momento. Invece era un bel uomo considerando la sua età. Aveva un modo di fare che associavo a quello dei signori feudali, o ai principi, e non me lo aspettavo per nulla considerando ciò che aveva detto a mia madre. Inoltre, era evidentemente troppo elegante per una cena in casa.

La casa si riempì presto, dimostrando la puntualità di chi ha un lavoro d’ufficio.
Alle ventuno il cibo era già sul tavolo e tutta quella marea di roba che mia madre aveva cucinato per me e per i nostri ospiti cominciò a scomparire con una velocità quasi inumana. A fianco a Filiburbero la cena la passammo prendendoci gioco dei suoi colleghi; in particolare uno di loro che sembrava in tutto e per tutto Checco Zalone; anche nei modi di fare.
Mentre i cadaveri di vari animali e vegetali venivano assorbiti dai nostri corpi, approfittai della situazione e scambiai qualche parola con Bartolomeo, il suo capo.

Nonostante non avesse più disturbato mia madre non mi fidavo di lui, nonostante provasse a fare il simpatico con me e mio fratello. Forse sapeva che aveva qualcosa per cui farsi perdonare. Alla fine del pasto, io e mio fratello, ci spostammo in un’altra stanza. Né a me né a lui interessava il sentir parlare d’affari.
Lentamente i vari omuncoli si ritirarono e sentii mia madre salutarli tutti; tranne Bartolomeo.
Forse era stata un’impressione mia, pensai, ma il giorno dopo ebbi la conferma che non fu così.

A quanto pare, Bartolomeo, ci aveva riprovato con mia madre, ma questa volta più direttamente. Forse pensava che mia madre, fosse facilmente attaccabile dato che era vedova e in difficili condizioni economiche. Aveva provato a baciarla e lei l'aveva respinto. Poi interruppe la serata senza dir nulla a chi non era a conoscenza dell’avvenimento. Per questo la serata finì in fretta, e per questo mia madre nemmeno lo salutò.
Cominciai a fare avanti e indietro per casa insultandolo sottovoce, ma non volevo fare cose di cui mi sarei potuto pentire, così mi presi qualche secondo per riflettere.

Filiburbero non avrebbe dovuto saperlo o avrebbe fatto qualche sciocchezza dalla quale non c’è redenzione. Dopo averne discusso con Becca, che non sembrava intenzionata a far nulla, mi consultai con Rubio e Tancredi e dissi loro tutto. Così un’idea si palesò tra di noi. L’intenzione non era ucciderlo, per carità, ma decidemmo che il prima possibile ci saremmo procurati quanto necessario per bruciargli l’auto. Quella si può sicuramente riparare.

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