Capitolo 5 di Violet Price

Il telefono squilla nello stesso momento in cui faccio per entrare in doccia.
La suoneria mi squarcia l'anima, i polmoni, l'aria che mi manca.
Solo lui è in grado di sottrarmi il fiato e di restituirmelo nuovamente.

Mi affretto a poggiare i piedi sul pavimento per rispondere senza perdere tempo; aspetto questa telefonata da ventiquattro ore.

La scorsa sera, infatti, ho chiamato David. Volevo sapere se Victoria si sentisse meglio, se lui avesse programmi per la serata o meno, se quindi volesse starsene da solo oppure se gli facesse piacere restare in chiamata con me.
Occupato.

«D-Davy?» parlo adesso con ansia, mentre i secondi aumentano. Rabbrividisco per il freddo, poggiando la schiena contro una delle asciugamani color cipria. Lo schermo si spegne. Non capisco. Lo riaccendo.

«Davy?»

«Così mi fai il solletico!»
È l'ultima e unica frase che ascolto, prima di lasciar cadere il cellulare a terra. L'Iphone mi colpisce i piedi infreddoliti, cade sul tappeto di pecora, non si spacca.
Al suolo mi spacco io.

Non è possibile.
Non può essere vero.

Respiro a tratti, mentre apro e chiudo gli occhi lentamente.
Recupero il telefono, lo avvicino alle orecchie, la chiamata termina.
Ha riagganciato.

Entro in doccia senza parole.
La sua risata mi annebbia la vista insieme al vapore che si appiccica allo specchio e alle mie iridi. Come un automa, lascio che il soffione d'acqua bollente mi cuocia del tutto.

Percepisco la pelle andare a fuoco, il dolore arrossarmi le gambe esili e bianche come il latte; le lacrime scorrono sul viso, percorrono il collo, la collana in argento rosa; tracciano il contorno del mio seno, descrivono traiettorie lungo i bordi del mio ombelico.

Piango in silenzio per non fare rumore, chiudendo le mani a pugni, sporcando i capelli con i miei luridi sentimenti, mentre il mio subconscio mi ripete che non avrei dovuto chiamarlo.

Non avrei dovuto fare nulla, in realtà.
Avrei dovuto soltanto aspettare che mi contattasse. Se avessi fatto così, probabilmente non avrei ascoltato niente e adesso non sarei qui a piangermi addosso.

Il telefono squilla di nuovo. E io chiudo la fontana senza pensarci due volte. Per la fretta, quasi scivolo. Il sapone cade, il bagnoschiuma rosa e dorato ricopre il bordo della vasca, mi macchia le unghie laccate di lilla, ma io non ci faccio caso. Asciugo velocemente la mano destra, lasciando che il pavimento si riempia di orme insaponate, fradice d'acqua.

Il cuore accelera nel mio petto come se volesse fuggire il più lontano possibile. Strepita. Urla. Un cavallo riottoso.

«Posso spiegare»

Ok. Annuisco e lui, come se mi fosse davanti, inizia a parlare.

«Lei...era qui per lavoro»

«Dov'è?»

«Violet, veramente...» si sforza, mentre io mordo l'interno delle guance perché mi manca più di ogni altra cosa, ma non posso dirglielo. «Non prendertela per queste sciocchezze.»

«Sciocchezze, David? Sparisci non appena mi trasferisco e l'unica volta in cui mi chiami...»

«Non ti ho telefonata di proposito, infatti!»

E io non so se sia un bene o un male, ma nel dubbio pigio il tasto rosso della cornetta.

Mi richiama due, tre, quattro volte. Lascio squillare fino a quando la suoneria non ritorna a riecheggiare nell'aria.
Covo rancore mentre spero che non smetta di chiamarmi.
Stupido orgoglio del cavolo.

«Dimmi» concedo dopo il suo ennesimo tentativo, seccata e di malumore.

«Non volevo passare il sabato sera da solo»

Assurdo. «Che follia, David.»

«Cosa, il fatto che io sia sincero con te?»

«Sincero? Hai appena detto che non mi hai chiamata di proposito e che hai organizzato un appuntamento con lei per...»

«Credi abbia davvero senso, adesso, fare questa scenata di gelosia? Non ci sentiamo da un po', non...»

«Appunto, avresti potuto degnarti di alzare quella stupida cornetta!»

«Oh, certo. Adesso è colpa mia se da quattro giorni sto andando avanti e indietro e voglio stare solo un po' solo!» sbotta con una rabbia che non percepisco vera.

«Bello sentirsi soli in due, no?»

«Oh, vaffanculo Violet.»

E riaggancia.

Lo stomaco comincia a pizzicare e gli occhi chiari si riempiono di lacrime scurissime che mi si sciolgono sulle guance come cera.
Piango senza muovermi da dove sono e, con i nervi a fior di pelle, inizio a tremare. Quando riprovo a chiamarlo, mi risponde la voce metallica della segreteria. E a me viene da spaccare ogni cosa.

Infilo l'accappatoio, stremata e con i capelli mossi. Mi siedo a terra, con la schiena poggiata contro il muro e guardo il soffitto.
La testa viaggia.
La mia testa è un casino.

Il vapore mi annebbia la vista, la bocca si rimbocca di gocce troppo grandi, dolorosamente mi addormento con l'Iphone stretto al cuore.

Un rumore mi perfora i timpani. Apro gli occhi di scatto.

E' soltanto la sveglia...
Aspetta, cosa?

«Sono in ritardo, Violet! Puoi aprire, per favore?»

Anita.

No, non è possibile. Non posso aver dormito qui per tutta la notte.
Controllo l'orario:
07:23.
Oh, cavolo!

Mi alzo rapidamente, corro a detergere il viso e ad applicare la mia crema idratante, mentre cerco di destarmi dal sonno. Accendo la musica ad un volume non troppo elevato e mi trucco, mentre mi si insinua dentro la consapevolezza di ciò che è successo questa notte.

Sento nel petto una forte pressione che d'istinto mi fa portare le mani al viso.
Non puoi piangere Violet, il mascara non è waterproof!

Vorrei prendermi a schiaffi e poi vorrei prendere a schiaffi David.
È questo quel che penso quando il mio sguardo viene catturato dallo sfondo del mio cellulare. La foto delle nostre mani intrecciate con dolcezza mi rende vulnerabile. Vorrei che fosse qui, con me, solo ed unicamente con me. Mi ribolle il sangue al solo pensiero di vederlo insieme ad un'altra.

«Violet, tutto okay?»

Mi avvolgo nell'accappatoio e apro la porta.

«Buongiorno» dice Anita con voce impastata e i ricci gonfi.

La saluto a mia volta senza darle troppe attenzioni. Probabilmente mi domanda qualcosa, ma io non le presto ascolto. Sistemo il letto e mi vesto soltanto quando sento l'acqua scorrere nel bagno.

Guardo le valigie della mia nuova coinquilina, il mio viso immacolato e i miei capelli da leoncino e mi assale la necessità di correre a sistemare il disastro che sono da sempre.

Applico la crema disciplinante sulle lunghezze facendo lunghi respiri. Dopo una ventina di minuti sono pronta, ma visibilmente poco in me.

Anita esce dal bagno, ma non proferisce parola. Indossa un giubbino di jeans, maglia, pantaloni e anfibi neri.
Mi osserva come si fa quando si è incuriositi e straniti da qualcosa nello stesso tempo.
Siamo leggermente diverse. E me ne accorgo quando mi specchio e la osservo di sottecchi alle mie spalle.
Il sole e la luna.

Usciamo dalla stanza alle nove, camminiamo nel corridoio senza aprire bocca e ci sistemiamo in un'aula grandissima per la nostra prima lezione. Mi accomodo al banco più vicino alla porta, mentre Anita prende posto accanto a me e mi scruta con maggiore compassione.

So che sta morendo dalla voglia di sapere cosa mi stia passando nella mente, ma non dice nulla perché potrebbe pentirsene subito dopo. Il punto è che non ho voglia di parlare, né tantomeno con una persona che conosco da così poco tempo.

Le ore si trascinano lentamente ed io seguo la lezione con fatica, registrando le parole del professore col cellulare e portandomi l'indice sopra le sopracciglia per tenere gli occhi aperti.

«Violet, pss»
Guardo Anita. Cosa le prende?

«Abbiamo dimenticato di fare colazione e lo stomaco non smette di brontolarmi. Non è che potremmo fare una corsa al bar? A tratti svengo»

Alzo gli occhi al cielo, è impazzita?
Come le viene in mente una simile richiesta durante la lezione?

Oh, sto diventando antipatica.
Indugio un po' e poi apro la mia borsa della Vans. Le porgo la mia unica barretta fitness, ma lei non sembra gradire: la guarda come se le avessi offerto un solo, misero pop corn.

«Lascia stare»

E io lo faccio. Lascio perdere. Oggi non sono in vena.

Vorrei alzarmi e ritornare in camera, a letto, ma sento le gambe intorpidite.

Il professor Jones insegna diritto. Si gratta la barba con le unghie curate e le mani morbidi. Poi sfila un fazzoletto dal taschino della giacca e se lo porta al naso. E' da ore che fissa Anita con diffidenza e ci ho fatto caso perché vedo le mani della mia coinquilina tamburellare sulle sue cosce e le gambe tremare silenziosamente. Ad un certo punto Jones le fa quasi una smorfia, ma pare accorgersi del giusto immaturo dato che poi tossisce platealmente e va a sedersi dietro la cattedra.

La campanella suona e tutti si dileguano velocemente. Anita esce dall'aula con l'ansia fino al collo, guardando di sottecchi il professore e con inquietudine.

Nel corridoio lei lascia andare un sospiro profondissimo.

«Insomma, Violet, ti sembra normale? Non ha fatto altro che trattarmi con sufficienza e diffidenza per tutta la lezione! Ma per chi mi ha presa? Crede che sia un avvoltoio, un polipetto, un alieno? Ho sette cosce e trenta braccia, forse?» sbuffa, senza riuscire a concepire.

«Lascialo perdere, non ti conosce» mi limito a dire con la testa da un'altra parte. Non ne posso più di tutte queste voci. «Mi sa che vado in biblioteca»

«Non voglio sembrarti invadente ma...stai bene?»

Non la guardo nemmeno, rispondo: «Non lo so, però starò meglio» e mi allontano.

Il profumo dei libri mi regala la stessa magia di sempre, ma sono affranta e non ho la più pallida idea di come sistemare le cose. Chiamo David una, due, dieci, quaranta volte, ma il telefono è spento e sento le ossa congelarsi per la rabbia. Sto reprimendo così tante urla che potrei improvvisamente scoppiare e mettere a repentaglio la mia reputazione. Tiro su col naso e scaccio via le lacrime che sento spingersi e accavallarsi agli angoli degli occhi, mentre con le dita mi accarezzo il ginocchio destro, alla ricerca di pace interiore.

Vorrei ritornare nel passato per rifiutare la proposta di mio padre, dirgli che non mi va di inseguire i suoi sogni, di rincorrere la vita che ha sempre voluto, lasciandomi sfuggire la mia.

Vorrei avere una bacchetta magica e vedere David.
David e lei.
E, soprattutto, non so cosa farei per non percepire alla bocca dello stomaco questa angoscia insopportabile.

«Violet...»

Mi volto di scatto e mi sforzo di essere serena. Non mi aspettavo potessi incontrarlo di nuovo. Proprio adesso?

«Ti senti bene?»

Deglutisco. «Oh, certo! Sto molto bene, solo... un leggero raffreddore».

«Ah, si?»

«Sì. E tu, Steve, come mai da queste parti?»

Steve mi sorride, scuotendo la testa: «Beh, sai com'è...qui ci studio!»

Mi alzo dal tavolino e faccio per andarmene. Già, che domanda sciocca.

«Violet? Violet! Ti senti bene?»

«Oh, sì!» annuisco a malapena, senza riuscire a controllarmi.

«Non ti preoccupare. Ho bisogno di riposare, starò meglio.»

«Possiamo parlarne? Per favore.»

«Io non credo...»

«Hai litigato con qualcuno?»

Deglutisco di nuovo, ignoro Steve, avviandomi fuori dalla biblioteca.
Mi segue.

«Di chi si tratta? Una tua amica, il tuo ragazzo oppure...la tua famiglia?»

«Steve, per favore».

«La tua famiglia, ecco! Tua madre?»

«Steve...»

«Violet, rispondi! Mi sto preoccupando»

«Ho soltanto paura, a te non è mai capitato?»

Giro sui tacchi una volta per tutte e velocemente mi dirigo in camera, senza pensare a nulla. Chiudo la porta, getto la carta magnetica sul letto, dove affondo senza la forza di far nulla.
Questo è uno di quei pomeriggi insignificanti da dimenticare del tutto.
«Ani?», ma Anita non c'è e nel profondo del mio cuore ne sono felice.
Odio farmi vedere in questo modo dagli altri.

Ho una voglia incredibile di ritornare in città tra le braccia di mio padre, i volti familiari dei collaboratori del cimitero, le mie librerie zeppe di poesie che mi fanno sentire viva.

Mi dispiace da morire per aver chiuso la porta in faccia a Steve, ma nemmeno lo conosco e come potrei accettare le parole di uno sconosciuto se dagli sconosciuti non bisogna accettare nemmeno le caramelle?

Accendo lo schermo e fisso nuovamente la nostra foto.
David si rende conto di quanto abbia fatto male ascoltarlo in chiamata?
So benissimo che la colpa sia anche mia: ho sempre fatto finta di niente e ho sorvolato su tutto, ma in questi anni mi ha nascosto talmente troppe cose, che adesso non ho più voglia di continuare a crederci. E non m'importa quanto questo non gli basti, non mi importa se gli faccio schifo, se gli farò schifo, se i suoi sogni saranno solo suoi e le sue battaglie dovrà combatterle da solo.

Vorrei avere la forza e il coraggio di dirgli quello che ho, quello che non sto dicendo a nessuno, quello che sto tenendo per me.

Cosa abbiamo vissuto? Cosa ha significato tutte le volte che l'ho difeso e che sono stata dalla sua parte? Cosa ho fatto per meritarmi questo? E' convinto del fatto che abbia dato così poca importanza a quello che c'è stato, tanto da cancellarlo definitivamente?

Sono stufa marcia di dirgli che io non sto bene senza di lui, ma che anche con lui non sto benissimo.

Mi sono stancata di lasciarmi condizionare dalle sue parole e di sentirmi così insoddisfatta. Ebbene, cosa saremo? Cosa siamo, un ricordo? Uno stupido, banale ricordo? Ed era questo il nostro obiettivo? Diventare come gli altri?
Cosa voglio recuperare?

Non posso giocare a fare la maestra di sostegno con chi sarà sempre impreparato con i sentimenti.

Ogni volta riparo, getto la polvere che ci soffoca sotto le nostre scarpe. Mi amareggia il fatto che non mi capisca e che non riesca a mettersi nei miei panni. Ma nel contempo mi manca.

Voglio che tutto ritorni ad essere come prima perché non ce la faccio a tenere tutto dentro.

Non avrei mai pensato che le cose potessero peggiorare così tanto.
Stiamo precipitando sul fondo, in basso. Mi sento con un piede avanti e l'altro indietro.

La mia vita non va benissimo come crede, non è meravigliosa, e non si sta bene senza i suoi grandi occhioni, ma tutto quello che vorrei dirgli resta in me, perché non basterebbero un messaggio, un libro intero e nemmeno un'uscita di quattro ore per spiegargli le sensazioni che mi stanno annientando.

Mi dispiace soltanto che io sia qui con le lacrime agli occhi per lui che mesi fa sarebbe stato pronto ad asciugarmele.

Mi dispiace per le lacrime che sto versando perché anche se sono terribilmente arrabbiata con me stessa, non voglio che io pianga ancora per qualcuno. Vorrei piuttosto che il nodo in gola che sento sempre più forte potesse parlargli e urlare tutto quello che ho dentro. C'è una voragine. L'ennesima. E nessuno potrà più colmarla.
Spero che io possa imparare dai miei errori e che lui possa farlo a sua volta.
Non so cosa scrivergli, ho paura di dire la cosa sbagliata, paura che ora che ho preso il cellulare fra le mani possa parlargli per l'ultima volta. Mi fermo. Apro la chat. Era online tre minuti fa. Sospiro. E alla fine digito:
«Vaffanculo anche a te, David. Ti amo, ma vaffanculo».

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