Capitolo 3 di Ashton Taylor
Dei rumori in sottofondo rovinano quel lieve stato di dormiveglia in cui ero sprofondato, provocandomi il solito, fastidioso dolore alle tempie che non sopporto. Perché ovviamente quell'incosciente del mio migliore amico deve dannarmi ancora prima che io possa aprire gli occhi, precisamente alle 05:31 di mattina.
Mi metto seduto, nella penombra assoluta della stanza, passandomi la mano tra i ricci spettinati. A breve mi sarei dovuto comunque alzare, ma non può togliermi quelle già poche ore di sonno a cui sottopongo il mio corpo.
Il motivo poi, mi fa ancora più incazzare.
Decido di passare nel piccolo bagno comune per rinfrescarmi e svegliarmi del tutto, giusto per avere le forze necessarie per affrontare non solo il ragazzo nell'altra stanza ma l'intera giornata. Trovata questa forza mentale, mi dirigo a passo felpato nella sua camera, non troppo distante dalla mia. Non che possiamo vantarci di vivere in un'immensa villa con labirinti al posto dei corridoi, anzi.
Non mi preoccupo più di tanto di bussare, anche perché al momento sono abbastanza irritato e suscettibile.
«Razza di idiota» sbotto ad alta voce una volta che, aperta di scatto la porta già socchiusa, guardo la scena deplorevole che mi si presenta dinanzi.
La ragazza, appena mi vede, si copre con il lenzuolo, portandoselo di scatto al petto.
«Cazzo!» esclama invece Dylan, lanciandomi addosso il primo cuscino a portata di mano. Mi abbasso prontamente per vederlo poi infrangersi sulla parete alle mie spalle.
«Amico, ma sai cos'è la privacy?» domanda poi dopo essersi infilato i pantaloni della serata precedente. Tra me e me mi faccio i complimenti per essermi preso questa piccola rivincita.
«E tu, sei consapevole che non abbiamo delle fottute camere insonorizzate come quei ricconi di merda?» domando appoggiandomi allo stipite della porta.
Un sorrisino stravagante sulle labbra.
Mi ignora beatamente mentre si riveste, guardando Sveva, Svetlana, Salvia o come cazzo si chiama, girare avvolta dal lenzuolo per la camera, recuperare i suoi vestiti striminziti e chiudersi in bagno sbattendo violentemente la porta, tanto che temo tra poco si frantumi al suolo.
«Questa me la paghi Ashton Taylor sappilo, dovrai offrirmi come minimo due birre per questa stronzata» mi avverte mentre mi punta contro un dito, ancora indaffarato a richiudere la cintura dei pantaloni.
«L'unica cosa che voglio farti bere al momento è un po' d'olio di motore e, se non fai sparire quella tizia da casa nostra e non sei pronto per andare in officina nel giro di dieci minuti, sento che questo mio desiderio si realizzerà molto presto»
«Ash, amico mio, tu hai seriamente bisogno di divertirti un po', dovrei chiuderti a chiave da qualche parte con Roxy, mi stai diventando un nonnino!» mi fa un occhiolino dopo aver scosso più volte la testa con un'aria preoccupata poco credibile.
«Dieci minuti, Dylan Foster, non farmi aspettare, o ti arrangi a piedi» gli lancio un'occhiataccia prima di lasciare la stanza e infilare le scarpe mal ridotte.
Quella Roxy è la persona più insopportabile, dopo Dylan, che io abbia mai incontrato, nel vero senso della parola. Sarà anche sexy e provocante, ma ha il cervello grande quanto un sassolino e una voce da isterica altamente fastidiosa.
Da quando avevamo sì e no passato qualche notte insieme, con tutti i vari avvertimenti e chiarimenti che gridavano "solo sesso e nient'altro", mi sta appiccicata addosso come una dannata zecca, credendosi la mia ragazza.
Bleah, disgustoso.
Ritorno in camera mia, sistemo velocemente il letto, rimettendoci sopra la mia chitarra. Ripongo distrattamente i vestiti abbandonati in giro per la stanza nell'armadio sgangherato.
Il mio sguardo si sposta sulla scrivania in legno e cade su quella macchinina giocattolo.
Quella maledetta macchinina giocattolo.
È dalle dimensioni ridotte, di un vivido colore rosso con un numero stampato in nero sulla portiera.
È lì, a ricordarmi chi sono e chi sono stato, ma soprattutto colui che mi ha reso ció che sarò per sempre.
È lì, perché le ultime mani grosse e rozze che l'hanno toccata erano quelle dell'uomo che più odio al mondo.
È l'unica cosa che ha lasciato, è l'unica cosa che ha lasciato a me, che non siano debiti o problemi. Ma è una realtà che io, accecato dalla rabbia, non ho saputo accettare.
Troppe volte ho pensato di spalancare la finestra e farla volare giù da essa, scamazzata al suolo, distrutta, come lui ha fatto con la mia vita.
Ma non ne ho avuto il coraggio.
Perché se ha saputo darmi così tante sofferenze e momenti negativi, quella macchinina rappresenta tutto e l'unico bene che ha recato alla mia infanzia.
Eravamo così diversi, accomunati solo dall'amore per i motori. Non è bastato questo e neppure quello per mia madre a fermarlo dalle sue intenzioni.
Mio padre, Adam Taylor, era un vigliacco.
Lo odio per quello che ha fatto, lo odio per il dolore che ha recato a ognuno di noi, lo odio perché in realtà, anche se ogni notte mi ripeto il contrario, anche se davanti allo specchio lo nego, anche se vedo gli occhi delle persone che amo illuminarsi anziché spegnersi quando parlano di me, io sono uguale a lui.
«Ash lo so che stai pensando a me, alla mia bellezza, e che in realtà mi vorresti tutto per te, ma dobbiamo andare o Leonard ci sbatte fuori!» mi richiama Dylan, distogliendomi dai miei pensieri, ormai lontani.
Ripongo la chiave della mia stanza, dopo averla accuratamente chiusa, dentro una tasca. Faccio la stessa cosa con quella di casa, decidendo di tenerla io, consapevole che Dylan l'avrebbe posizionata, come ogni volta, sotto lo zerbino. Non importa quante volte io gli abbia ripetuto che quello, ormai, è il primo posto in cui i malintenzionati, e ce ne sono tanti nel nostro quartiere, vanno a controllare.
«Questa mattina devo controllare che la mia bambolina si riprenda al più presto; anche se l'idea di usarti come mio tassista personale è allettante non sopporto i tuoi ricatti e questa tua indole autoritaria» mi rivela tra l'infastidito e il divertito.
«Una controllata? Quella macchina devi rottamarla nel vero senso della parola, Dy» lo avviso sbuffando.
Dylan sarà anche il re del pugilato ma la patente deve averla presa nel fondo del barattolo delle Pringles, per quanto è spericolato e poco equilibrato.
Dopo pochi minuti parcheggio il pick- up davanti a una saracinesca malandata e ricoperta da innumerevoli scritte provenienti dalle bombolette di qualche delinquente del quartiere.
Deve essere qualche avversario che abbiamo battuto in qualche gara o scontro poco piacevole, che volendosi vendicare, ci ha lasciato degli insulti ridicoli.
«Alla buon ora ragazzi, a momenti assumevo Ivy e Roy al vostro posto!» Si prende gioco di noi il vecchio, si fa per dire, Leonard Parker, nonché capo-officina.
Si tratta di un energumeno dal capo calvo e lucido, con una lunga barba incolta e brizzolata che dà l'impressione di non essere lavata adeguatamente da un bel po'.
Nel sentirsi chiamare, i due bambini gemelli corrono verso di me, tuffandosi nelle mie braccia già spalancate.
«Ash!» esclamano all'unisono.
Ivy mi salta al collo mentre Roy punta alle spalle,
«Cosa ci fate qua, piccoli mascalzoni?» domando loro, preoccupato che girassero per le strade di prima mattina.
«Stiamo per andare a scuola, siamo solo passati per salutare zio Leo e il nostro fratellone» mi spiega Ivy, sorridendo apertamente tanto da far vedere i due dentini mancanti che le sono da poco caduti.
«Solo che...» inizia Roy beffardo, alzando il suo indice contro di me
«Siete in ritardo!» esclama poi.
Dylan che assiste alla scena si china verso mio fratello minore e gli sussurra all'orecchio con tono più alto del previsto:
«È colpa del vostro "fratellone" che si era imbambolato a pensare a quanto fosse fortunato ad avere un coinquilino come me al suo fianco»
Mi metto due dita in bocca facendo finta di vomitare, e a tale gesto la piccola Ivy ridacchia.
I suoi capelli rossicci si muovono di qua e di là, mentre i suoi occhi grandi e chiari brillano di purezza, come a voler nascondere quel velo di malinconia che ancora oggi, va ad annebbiarle ogni sogno, peggio di qualsiasi palpebra serrata.
Lo stesso vale per Roy che, in più, presenta una dose maggiore di lentiggini sul naso.
Ricordo ancora la loro tradizione quotidiana: fare a gara su chi ne possieda di più e avere una scusa per poter ridere ancora una volta. In questo modo tentano di ritrovare quella spensieratezza andata perduta, che ogni bambino di quasi undici anni dovrebbe possedere.
Ovviamente sono molto simili a nostra madre, soprattutto Ivy.
Io invece sono tutt'altra cosa.
«Ora su, filate a scuola prima che racconti alla mamma di questa vostra piccola fuga» li avverto e loro, come soldatini, annuiscono e corrono via, diretti in quell'edificio poco incline al concetto di spazio e sicurezza, che tutti, per solidarietà, chiamano scuola.
Eppure è la loro unica speranza per diventare, un giorno, cittadini migliori e cambiare le devastanti condizioni in cui versano gli ultimi quartieri, detti periferici, in cui viviamo.
Li guardo allontanarsi, finché non scompaiono dietro l'angolo.
Quei due, insieme alla mamma e a nonna Lena, sono tutta la mia vita e propriamente l'unico motivo per cui spalanco gli occhi la mattina; è grazie a loro che non sono più ciò che, per follia, ero diventato.
Dopo aver scosso lievemente la testa, facendo sì che con la mente tornassi nella poco illuminata officina, lascio fuoriuscire dalle mie labbra socchiuse un sospiro, mentre inalo il torrido odore di muffa che aleggia per la stanzetta.
Raggiungo Dylan che si trova già sotto la sua macchina, pronto a mettere in pratica tutte le sue competenze per rimettere in sesto la sua adorata e vitale "bambolina".
A volte credo seriamente che Dylan abbia più rispetto per le auto che per le donne, ma io non sono esattamente la persona giusta per biasimarlo, anzi, dentro di me nascondo ideali e aspetti anche peggiori.
La mia diffidenza e indifferenza nella vita e per la vita è sconvolgente, ma non m'importa più di tanto.
In fondo, è stata lei a fare di me questo guscio vuoto e apatico quale sono, che non riesce più a essere come quel bambino spensierato e felice che, nonostante le varie difficoltá, ero.
Prima. Prima dell'inferno, vorrai dire.
Ci tiene a precisare la vocina consenziente del mio subconscio.
«Passami la chiave inglese, amico» ancora una volta, la voce ovattata di Dylan giunge alle mie orecchie, destandomi dal turbine di pensieri che, imprevedibilmente, aveva preso a vorticare nella mia testa.
Ed è così che passiamo la mattinata: la prima parte di essa dedicata alla sua audi A1 blu metallizzata, la seconda all'assemblaggio di vari motori.
Nel pomeriggio siamo bombardati di lavoro e l'officina si affolla nemmeno fosse un supermercato. Da queste parti gli incidenti stradali sono all'ordine del giorno e, piú di una volta, mi dirigo alla discarica per rottamare delle auto.
Essendo venerdì, finiamo il turno alle 7:30 p.m., mentre in settimana ci è capitato di fare anche più tardi. A volte, siamo così stanchi da non avere le forze per dirigerci al Covo, il nostro paradiso terrestre. Metri e metri quadrati di spazio, usati per divenire lo svago di ogni, per lo più adolescente, cittadino della periferia e quindi, dei quartieri "malfamati" di Chicago.
Insomma, i pregiudizi sono molti, tanto quanto il disprezzo e l'emarginazione a cui ci sottopongono quelli dell'alto rango, residenti nel fiorente centro della città. O meglio conosciuti come "ricconi di merda con la puzza sotto il naso".
È proprio lì, nel Covo, che con gli anni, abbiamo ottenuto una certa reputazione, degna della stima degli alleati e del timore degli avversari.
Dylan ama essere al centro dell'attenzione in quei casi, a differenza mia.
Dopo qualche gara in cui mi pregusto il dolce sapore di una vittoria e di conseguenza soldi in più per sfamare la mia famiglia, inizio a suonare la chitarra di Samuel.
Ho sempre ammirato quell'uomo.
Ma nonostante tutti i consigli e gli avvertimenti che io e i membri abituali del Covo gli fornivamo riguardo la sua devastante situazione con la legge non né voleva sapere di darsi una calmata.
Anzi, tutte le volte alzava verso l'alto il suo mento, mi sorrideva in modo stravagante, si passava la mano sui suoi capelli scuri a spazzola e, mentre passava un fazzoletto di pezza sopra la sua inseparabile chitarra nera, diceva:
«La tranquillità e le regole non fanno per me, ragazzino. Farmi mettere i piedi in testa e poi starmene buono buono non è pane per i miei denti, so bene che probabilmente sarà questa mia impulsività a divorarmi, ma nel frattempo mi diverto a divorare. É una cosa più forte di me che non posso controllare» mi riservava un semplice occhiolino.
Aveva una tale serenità mentre parlava della sua probabile fine che mi stupì e stregò sotto ogni aspetto.
«Forse un giorno succederà anche a te» mi disse quella volta.
«Cosa?» gli domandai confuso.
«Trovare qualcosa che è fuori dal tuo controllo, più forte di te» mi rispose, ma sia quella sera di tre anni fa che tutt'ora, non riesco a capire il significato di quelle parole.
Al momento Samuel sta scontando una condanna di cinque anni per una moltitudine di furti a danno dei Fiorenti, altro appellativo di quelli del centro. Non a caso, ho conosciuto Samuel quando avevo da poco compiuto i diciotto anni e, pezzo dopo pezzo, stavo cercando a fatica di andare avanti, di voltare pagina dopo gli avvenimenti che poco tempo prima si erano conclusi.
Fu proprio quella notte, dopo la chiacchierata con Samuel, che facendo per rientrare a casa, vidi Dylan seduto con la schiena poggiata alla staccionata della sua proprietà. Prima guardava il vuoto dinanzi a sé e, di scatto, l'attimo dopo prendeva a calci il cancello dirottato, come ad attribuirgli ogni colpa.
Lo conoscevo di vista, ed era famoso per la sua ira suscettibile, per i suoi pugni demoniaci e per la sua imparagonabile dote nel prendere in giro le donne e perché no, anche il resto delle persone: un burlone, insomma per non dire un gran coglione.
Eppure quella sera, senza dire nulla, sotto il suo sguardo furioso iniziai a prendere a calci quel cancello insieme a lui, avrebbe dovuto prendersi anche le mie di colpe e magari per una notte sola me ne sarei liberato.
Quella rabbia la odiavo, mi stava uccidendo. Ma meglio la rabbia anzichè un vuoto nel petto.
E come per segnare l'apparente sfogo della nostra disperazione, stava avvenendo l'inizio di qualcosa di più grande: la nostra amicizia. Un rapporto fatto di sguardi che non dovevano rivelare parole bensì vere e proprie grida, insulti che non dovevano dimostrare un odio che ti corrode, ma la consapevolezza che se necessario, l'uno sarebbe stato di fianco all'altro, a calciare ancora una volta contro quel cancello, testimone del nostro dolore e della nostra frustrazione.
Non a caso, colpire le cose è il passatempo preferito di quello strambo del mio migliore amico.
Stringemmo un patto silenzioso quella sera di tre anni fa.
Saremmo stati compagni di dolore: qualora uno si fosse trovato sul punto di affondare, l'altro sarebbe divenuto solida roccia solo per lui.
Manterrò la promessa, Dy.
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