Capitolo 23 di Dylan Foster

È questo il nome che non smette di ronzarmi nella testa, un insieme di lettere che vorrei avere avanti per prenderle a pugni e fare proprio quello che loro hanno fatto in questi giorni.

In fondo so di non poter fare altro che lasciare che mi logorino completamente, ma il mio orgoglio non riesce a digerire questo peso estenuante e io non mi faccio prendere in giro da nessuno, a maggior ragione da un banale ricordo.

E' paradossale il fatto che ogni problema riesca a scivolarmi come se fosse nulla e le sue parole, invece, mi restino dentro per ore, senza darmi un briciolo di pace. Sono sempre pronte ad abbattermi, impedendomi di riuscire a destarmi dai pensieri quando la notte resto solo e le lenzuola non sono in grado di coprire la sua voce, troppo limpida rispetto al turbinio di catrame che ho nel cervello.

Le sue parole ci sono da un bel po' ormai, decise a recarmi dolore e a struggermi nel profondo, dove nessuno ha intenzione di arrivare.

Non fanno altro che rendermi conscio di quel che sono, di quello che non sono, soprattutto, di quanto io non sia abbastanza per nessuno, di quanto "Il re" diventi un'insignificante poveraccio di fronte agli occhi brillanti di una ricca principessa.

Ho sentito il male scorrermi dentro, non sono riuscito a vedere la luce quando fuori pioveva e ho notato soltanto nuvole quando tutti sembravano apprezzare il calore dell'estate; ho alzato gli occhi al cielo, ma mi ha soltanto sputato in faccia e poi, quasi come per magia, sono riuscito a stare bene incontrando il suo sguardo, senza nemmeno riuscire a comprenderne il motivo, senza nemmeno conoscere il suo cognome.

Non penso di saper spiegare cosa mi abbiano fatto i suoi occhi, né sono in grado di formulare un discorso coerente per riuscire a fare il punto della situazione. Dentro me ho un caos che non mi permette di tranquillizzarmi.

La consapevolezza di non essere stato degnato di un misero ringraziamento mi mette in discussione senza che io possa fermarmi, senza che io possa frenarmi. Non so quale potere faccia parte di lei, ma è come se avesse una matita tra le mani e mi stesse disegnando da capo, cancellando abbondantemente tutti quei difetti che mi hanno fatto da scudo per anni.

Vorrei che potesse riuscire ad afferrarmi prima che io possa scappare via. Mi tormenta ciò che sento quando le sono vicino, il tremolio delle sue braccia, che istantaneamente immagino strette al mio collo. Il colore dei suoi occhi si abbina tantissimo con i miei.

La sua sicurezza mi rende debole, ed io lo sono sempre stato, ma non ho mai voluto mostrarlo. Sono cambiato tanto e ogni giorno non faccio altro che adattarmi a quello che succede, ma non sono affatto capace di accettare che a lei non importi nulla di me. E' strano. Proprio come quando lei mi era davanti a testa bassa. Piccola.

Un angelo tra le grinfie di un demone.

L'ho capito, eccome se l'ho capito e sarei un grandissimo coglione a pensare minimamente alle probabilità di poter stare con lei: non esiste alcun lieto fine nella mia vita, né nei miei quartieri. Qui, se trovi pietre sotto le tue scarpe ti ritroverai con le suole bucate trent'anni dopo. Non cambierà mai niente, il tempo ti illuderà soltanto fino a quando non sarai tu a cambiare, in fondo. Non importa quanto tu sia ripieno di rabbia, quanto i ricordi ti mandino in fumo e quanto gli abbandoni ti abbiano spronato ad essere infelice.

La tua mentalità cambia, insieme ai tuoi limiti e ai tuoi sogni, che sono sempre troppi, perché gratuiti. In periferia tutti sono pronti a commentare quello che fai, anche quando vinci sei un fallito. Non importa cosa abbiano fatto i tuoi genitori, da dove tu provenga e se tu sia vero o soltanto, felicemente fidanzato con l'alcol. Quando respiri il nostro stesso fumo e le nostre stesse speranze appassite, allora sei alla deriva. Per te non c'è posto, quindi vai a terra. Noi non siamo quelli che vorrebbero che fossimo e non siamo nemmeno ciò che vorremmo essere. Noi siamo quelli che Dio ha abbandonato sulla terra e che poi la pioggia ha plasmato con l'aiuto del fango. Noi siamo quelli che a prima vista sembrano mostri orribili, allora ci allontani, perché è giusto o meglio, ma poi ti ci affezioni e magari ti ci abitui anche alle vicende, però alla fine non sai mai se restare per compassione o per amore; nel dubbio scegli di non rimanere. Noi siamo gli incompresi, quelli con cui trascorreresti una serata per divertirti e ritrovare la te che hai perso, ma non le persone ideali che vorresti avere accanto. Noi siamo le cartacce che costeggiano i marciapiedi, quelle che vorresti raccogliere, ma che alla fine fingi di non vedere. Siamo la regressione della società, le bambole malfunzionanti, un tasto premuto per errore. E così restiamo: capovolti nelle nostre lacrime silenziose, immersi in un fiume di pensieri che non immagini neppure.

Più ci penso più mi rendo conto di essere arrivato a quel precipizio che non ho mai avuto il coraggio di abbandonare.

Più ci penso e più son conscio che questa vita non mi appartiene ed io non appartengo a lei. In fondo non ho senso qui, non ho senso altrove, non ho senso dappertutto.

Siamo sulla terra giusto perché siamo stati messi al mondo, non abbiamo un reale senso logico, non viviamo di affetti o di carezze, a stento mangiamo pane e acqua, non sappiamo nulla di cosa sia l'educazione o di cosa significhi frequentare scuole prestigiose.

Siamo le stesse persone che ogni giorno lottano e si fanno in quattro per provare a dare una svolta a ciò che in realtà è destinato a terminare. Siamo una barca che non può allontanarsi dal proprio porto allora si lascia cullare dal vento, fingendo di essere nel bel mezzo dell'oceano, rapida a cavalcare le onde. Le persone come i miei compagni, come me, sono le stesse che non sanno cosa significhi voler bene, quindi per una vita intera fanno a botte e prendono a pugni un lurido sacco fissato superficialmente alle assi di una cantina abbandonata, ma se poi ti avvicini e le abbracci, si sciolgono e magari piangono anche, piangono per tutti quegli anni che si sono chiesti cosa potesse significare esser felici.

Le persone come me sanno cosa voglia dire alzarsi alle tre del mattino per andare a lavorare, non hanno in casa alcun vocabolario della lingua italiana ma quando hanno di fronte chi ha voglia di raggirarli riescono ad uscirne a testa alta ancor prima che quelli possano aprire bocca.

Le persone come me non restano se le mandi affanculo, ma non ti ci mandano nemmeno per ricambiare l'odio presente nelle tue parole, perché sanno che la sofferenza brucia più di qualsiasi altra cosa al mondo, sanno quanto sia triste sentirsi delusi e sapere di non valere niente per chi amano. Non hanno alcuna chance, nemmeno la paura di non avere più niente: hanno già perso tutto.

Devo respirare per lasciare andare via tutta questa tensione, ma io certe emozioni non so gestirle e questa assenza così presente mi sta facendo incazzare.

Perché ho aiutato Violet Price? Avrei potuto accompagnarla qui, prepararle qualcosa da bere, trascorrere la notte in bianco a guardarla e prendermi cura di lei, come si fa con le cose importanti, come nessuno ha mai fatto con me. Come mi è venuto in mente di recarmi dagli sbirri? Sono stato così stupido a credere che qualcosa potesse nascere, così stupido da illudermi per lei che non è nemmeno riuscita a distinguermi.

Ho ancora il suo profumo e i suoi occhi addosso, non ne ho mai visti di più belli. Io non so per quale diavolo di motivo i nostri destini si siano incrociati, né perché tutto questo sia accaduto proprio a me, ma sono sicuro di volerla rivedere; non mi importa quanto potrebbe costarmi, quanta strada dovrò fare per raggiungerla, riuscirò a parlarle, le dirò di me.

«Ma cosa hai fatto?» prorompe Ash non appena entra in camera, puntando i suoi occhi contro l'anta dell'armadio e contro me in alternanza. «L'hai rotta davvero? Cioè, già non abbiamo un cazzo e poi...porca puttana, non hai mai il senso del limite» fa  ricadere lo sguardo sui miei pantaloni stropicciati sparsi sul pavimento e sul martello che ho lasciato sulla scrivania cigolante. Io sbuffo, scocciato dal suo fare apprensivo. «Non è un tuo problema, Ash, okay? L'armadio è mio»

«Va bene, fa' come ti pare»

«E no, non va bene, se poi mi tieni il muso per tutta la giornata. Cazzo, è la mia stanza, preoccupati quando vengo a distruggere la tua, no?»

Lui borbotta qualcosa, ma alla fine esce dalla stanza, tirando un sospiro. «Cresci»

«Eh?» esco dalla stanza, arrabbiato. «L'anno scorso tu non sfondasti il letto?»

Lui entra in cucina e prende una bottiglia d'acqua dal frigo, con le mani tese e i nervi arricciati. Evita il mio sguardo e le mie parole, testardo. Posa ciò che ha in mano e tracanna della birra, sfogliando le buste bianche delle bollette da pagare. Cammina nel corridoio strettissimo, passandomi davanti come se nulla fosse e io sospiro. Non sono intenzionato a rincorrerlo, non ho le forze per ascoltare i suoi moniti, ma già va male con tutti non ho voglia di mandare le cose a fanculo anche con lui: il nostro rapporto è tutto ciò che mi resta di sincero nel mondo. Corro in cucina, stropicciandomi gli angoli delle orecchie sudate per la rabbia.

«Ash!» alzo la voce, maledicendomi per non essere riuscito a controllarmi. Sbaglio, ne sono consapevole, ma non so fare altro. Poi resto a bocca aperta, subito dopo, proprio nell'esatto momento in cui mi sembra di riconoscere Anita impalata sulla soglia della porta. Quando il mio migliore amico mi vede, spalanca gli occhi verdissimi.

«Mi sono perso qualcosa?»

Ash si affrettò a scuotere la testa, sforzandosi di non apparire teso. Si stringe nelle spalle intrappolate nella T-shirt nerissima e dà una spinta lievissima ad Anita: «Se ne stava andando»

«Sono appena arrivata, in realtà» lo contraddice. «E ho bisogno di parlarti» io sorrido, ma solo quando mi rendo conto del fatto che Ash si sia innervosito e sia diventato rosso in viso come un semaforo, mi volto a guardare Anita.

Dice di dover parlare con me e io resto interdetto. Annuisco mentre il mio migliore amico freme e poi esce fuori casa fingendo di non voler sapere nulla, camminando impassibile, spavaldo. Io rido sotto i baffi e poi entro in camera con Anita, preparandomi ad ascoltarla.

«Lasciami parlare»

Ok.

«In questi giorni ho riflettuto molto su tutto quello che è successo a causa mia. So che sei molto amico di Ash, per fortuna ho avuto modo di incontrarti nuovamente, più volte. Volevo ringraziarti, Dylan, perché mi hai letteralmente salvata»

«Sono fantastico, lo so»

«Sì e mi sono sentita in colpa durante tutta questa settimana. Vedo che l'occhio si è sgonfiato, meno male. Spero soltanto di poter fare qualcosa per te...per sdebitarmi»

Fingo di pensarci su, godendomi la sua espressione terrorizzata e poi le dico, sincero: «Figurati, non preoccuparti»

Lei si ravvia i capelli gonfi e ricci oltre le spalle esili, si stringe le mani e poi esita«Ehm...s-sei...serio?»

«È finito questo confessionale?» prorompe Ash prima che io possa annuire, infastidito. Io sghignazzo, ironizzando:  «Sì, Anita mi si è dichiarata»

«Eh?»
E mentre lei si avvia verso la porta in legno, il mio migliore amico la segue: «Seria?»

Sorrido e penso al fatto che sarebbero proprio belli insieme. Se si fidanzassero io sarei il cognato di questa tipa stramba di cui il mio amico si è innamorato, frequenterei il Poison, magari, e...Violet.
Spero soltanto di poter fare qualcosa per te.

«Anita!» urlo come un pazzo con il cuore a duemila. «Anita!» le dico, correndole incontro.
Ash mi fulmina, ma io la fermo, prendendola per un braccio: «Devo...devo chiederti una cosa» ansimo, «devi farmi incontrare Violet»
«Cosa?»
«Hai sentito bene. Soltanto così potrai sdebitarti con me. Ed è quello che vuoi, no?»



Angolo autrice:

In questo capitolo ho cercato di far comprendere maggiormente la posizione dei sentimenti di Dylan, e in parte anche quelli da Ash, ma dal punto di vista del suo migliore amico. Secondo voi cosa succederà? Anita accetterà di organizzare un incontro tra Violet e Dylan?  Oppure si rifiuterà? 

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