Capitolo 18 di Anita Hamilton
Certe volte penso di non avere scampo.
Come se quella vocina nella testa ripetesse quanto sia effimera la volontà di resistere quando è palese la sconfitta, quando ancora prima di alzare lo scudo per proteggerti, ti accorgi del tonfo della spada che stramazza al suolo.
È come andare in guerra disarmati e sperare di non essere uccisi: impossibile.
"Non possiamo scegliere che vita avere quando veniamo al mondo, ma possiamo decidere come viverla fino alla morte" era solito dire zio Max quando tornavo a casa in lacrime perchè i bambini a scuola mi prendevano in giro, mi davano della poveraccia e della fallita.
Ed io come avevo deciso di vivere la mia vita? Non lo sapevo, però avevo capito quale fosse il nemico più grande, quello contro cui avrei dovuto combattere sino all'ultimo respiro: me stessa.
Mi porto le mani a sfregare le tempie, a coprire gli occhi come se intrappolarli nell'oblio potesse rassicurarmi, donarmi delle certezze che mai, nella vita, avrei potuto sperare di avere.
È lunedì mattina, dovrei essere al Poison con Violet, tra le mani dovrei avere un bicchiere di carta con del caffè, una penna tra i capelli scompigliati e gli appunti sotto braccio.
Ma non è andata così.
Non avrei potuto fingere che tutto andasse bene, di poter continuare la mia solita vita come se niente fosse, come se gli avvenimenti, le conoscenze e i pensieri degli ultimi giorni non l'avessero cambiata radicalmente.
Mi trovo nella prima zona periferica, seduta su una panchina arrugginita di un parco giochi qualunque, il corpo fasciato da un cappotto pesante e intorno al collo una sciarpa azzurrina. La tengo ferma con la mano per impedire che voli via mentre i capelli sciolti picchiettano sulle mie spalle. Quella mattina, il vento non voleva saperne di arrestare la sua furia, gli alberi spogli sembravano tremare e percepivo fin dentro le ossa l'aria gelida dell'inverno.
Non c'era quasi nessuno al parco, fissavo un punto qualsiasi davanti a me mentre un anziano portava a spasso il suo enorme cane con la bava alla bocca. Sentivo il pianto di un neonato, mentre la mamma dondolava la carrozzina e, nel frattempo, gridava al figlio maggiore di non correre e non allontanarsi troppo. Un gruppo di bambine giocava a campana, lanciando un sassolino che puntualmente atterrava accanto ai miei stivaletti.
Sospiro. Ho fatto bene a venire qui, nulla è cambiato, ma tutto si è alleviato.
Il cielo è grigio quanto me, eppure non piange. Sembra che voglia ricordarmi quanto sia sbagliato deprimermi.
Quando il sassolino mi sfiora nuovamente le caviglie decido di alzarmi, lo recupero e lo restituisco alle bambine. Poi mi stringo nel cappotto, le mani nelle tasche calde e mi allontano.
È ora di tornare a casa.
Per uscire dall'aria rettangolare della piazzetta attraverso un sentiero di ciottoli circondato dalle siepi malmesse.
«Lasciatemi stare!»
Mi congelo sul posto, letteralmente.
Le mani mi cadono lungo i fianchi quando sento quelle parole sputate con rabbia da una vocina sottile e infantile. Non ci penso due volte prima di farmi largo tra le siepi labirintiche.
«Dove sono i nostri cazzo di soldi, eh?»
Tre ragazzini sovrastano la figura di una bambina. Si trova con le spalle al muro, eppure sul viso ha un'espressione dura e i pugni stretti lungo i fianchi.
«Prova a cercarli nel tuo cervello, quando lo trovi»
«Stai giocando col fuoco, principessina»
«Non mi fate paura, quei soldi me li sono guadagnata da sola, sono miei»
«Adesso non più» Il più alto dei tre spinge la ragazzina per terra, dopo averle strappato con forza due banconote dalle mani.
«Forza, dammi il resto. Prima che mi venga voglia di prenderti a calci»
La ragazzina prova ad avventarsi contro di lui per riprendere il bottino, ma non ci riesce per un soffio. Uno dei tre la spinge nuovamente a terra, lei sbatte il gomito e la testa contro il muro alle proprie spalle.
Non posso guardare oltre senza intervenire. Ho le mani tremanti e il cuore accelerato nel petto, ma non permetterò che facciano del male a una bambina per dei stupidi soldi.
Così, dopo alcuni secondi per capire cosa avrei potuto fare per uscire da quella situazione, mi lancio nella mia follia senza pensarci due volte.
Afferro il cellulare, me lo porto all'orecchio e compio diversi passi in avanti.
«Buongiorno agente, sono Anita Hamilton. Mi trovo in un parco nei pressi della scuola periferica di Chicago, tre ragazzini dell'età compresa tra i quindici e i diciassette anni stanno aggredendo una ragazza indifesa» Avverto un loro sussulto e, di scatto, i loro sguardi sono su di me. Li guardo negli occhi senza alcuna esitazione, minacciandoli con indifferenza.
«Come dice, agente? Procedo con la descrizione fisica? No, non si preoccupi, sono alquanto occupati, quindi presumo non lasceranno il parco. Sì, vi aspetto qui, a tra poco»
«Tu, lurida squaldrina, che cazzo hai fatto?»
«Ho chiamato la polizia e avete circa...» controllo l'orologio da polso «quattro minuti per lasciare il parco prima dell'arrivo dei poliziotti. Non vorrete mica farvi trovare ancora qui?» domando loro con voce falsamente sorpresa.
Li osservo digrignare i denti e stringere i pugni, ma infine cedono.
«Andiamocene ragazzi, non vale la pena prendersela con questa qui!» esclama un ragazzino prima di voltarsi insieme alla sua squallida combricciola di deficenti.
«Con te non finisce qui, scricciolo» si rivolge alla piccola.
Una volta sole, mi appresto a soccorrere la ragazzina dalla sorte sfortunata. Lei mi guarda a sua volta e, quando mi avvicino, la sua bocca assume la forma di un semicerchio.
«Ma tu sei la tizia che lavora da zio Jack, quella dello scherzo!» esclama alla fine e, presa alla sprovvista, la osservo minuziosamente socchiudendo gli occhi.
«Oh no...non mi dire che tu...sei quella piccola peste!»
Si tocca il naso, sorridendo.
«In persona» ridacchia.
Sospiro e decido di lasciar stare. Dopotutto, cos'importa se è sua sorella?
«Stai bene? Ti fa male qualcosa?» le domando accostandomi alla sua altezza. Prima che possa rispondere prendo il suo braccio tra le mie mani, lo stendo e lo piego più volte per capire e riflettere sulla soluzione migliore da applicare in questi casi e, in silenzio, osservo il sangue zampillare intorno al graffio.
Prendo la fascia che avevo posto tra i capelli questa mattina e, con uno strappo repentino, la divido in due. Arrotolo l'estremità più volte intorno al braccio per coprirle accuratamente la ferita. Alla fine, eseguo un fiocchetto ben stretto per tenere su la fasciatura.
Lei mi osserva con curiosità, senza emettere alcun suono.
«Va meglio, adesso?» le chiedo, sorridendole fiduciosa, tuttavia senza ricevere alcuna risposta.
«Guarda che puoi rivolgermi la parola, se è per quello che è successo posso assicurarti che hai fatto la parte più difficile: reagire a un sopruso senza chinare la testa. Ti sei comportata da vera guerriera!»
«Grazie per avermi aiutata, ti sono riconoscente» sussurra, tirando le labbra in un leggero sorriso.
«Bene, allora che aspettiamo? Vieni, andiamo»
«Dove?»
«Beh, da tuo fratello, no?» Volge lo sguardo verso destra, impensierita.
Solo dopo alcuni e interminabili secondi annuisce esitante, fa per alzarsi e, con gentilezza, le porgo il braccio come sostegno. Ma, evidentemente, durante la caduta deve essersi slogata la caviglia perchè continua ad arrancare alla ricerca di stabilità.
«Oh, non sforzarti!» la sostengo con entrambe le braccia.
«La tua caviglia è gonfia, se la muovi troppo rischi di peggiorare la situazione. Vieni, salta su» le indico la mia schiena e lei, se è possibile, mi guarda ancora più imbarazzata e titubante di prima.
«Io...»
«Hei, tranquilla, è tutto apposto, non c'è nessun problema. Guarda qui che muscoli!» la incoraggio sorridendole e mostrandole il mio bicipite minuto.
«Mi dispiace» sussurra mortificata dopo aver stretto le sue piccole braccia intorno al mio collo. Al chè non posso esimermi dall'intenerirmi.
«Non devi, non è colpa tua. Appena lo verrà a sapere tuo fratello prenderà i giusti provvedimenti, non è così?» le domando retorica.
«A differenza di quanto si possa credere, non è quello in cui spero» mi rivela.
«Se ti preoccupa quello che possono farti, devi stare tranquilla, sono sicura che per quanto antipa...ehm...impetuoso, saprà tenere quei tipi lontano da te, sei al sicuro»
«Ed è proprio questo a preoccuparmi, non voglio che mio fratello si faccia del male»
«Oh, su questo non puoi proprio avere nulla da temere. Tuo fratello è alto, muscoloso, ha delle spalle enormi. Un colosso, insomma» a tale affermazione da parte mia, puramente oggettiva, la sento ridacchiare.
«Hei, perchè stai ridendo?» domando confusa, ma lei scuote la testa divertita.
«Nulla, nulla. Mio fratello è un colosso, hai ragione. Però, anche i colossi possono crollare, non è vero?»
Vorrei poterle fare delle domande ma, alla fine, nessuna delle due ha il coraggio di proferire parola. Anche i più forti possono cedere, non è così? Apparteniamo a mondi differenti, eppure non vi è alcuna differenza in quello che siamo: esseri umani.
Dopo varie indicazioni da parte della bambina, presto giungiamo nei pressi di una vecchia officina. Il grande porticato è aperto e la prima cosa che noto è una grossa auto ingombrante, un pavimento dalle mattonelle per lo più nere e pareti costituite da crepe e pezzi di cemento cedevoli. Inoltre, vi è un forte odore di benzina e sudore.
Quando metto piede all'interno, urto una chiave inglese che si sposta di venti centimetri provocando un suono altisonante che rimbomba in tutta la sala.
«Chi va là?» un uomo grosso e calvo compare nella nostra visuale e ci osserva con i suoi piccoli occhi neri.
Prima che potessi solo minimamente accennare alla mia identità, la piccola al mio fianco prorompe in una grossa esclamazione.
«Signor Leonard!» richiama la sua attenzione.
«Oh, cara Ivy sei tu, pensavo fosse quel mascalzone di Dylan inciampato per l'ennessima volta»
«E lei chi è?» si rivolge alla ragazzina, indicandomi scompostamente con l'indice.
«Se deve chiedermi qualcosa, signore, io sono qui e comunque mi chiamo Anita Hamilton, le porgerei la mano se solo mi fosse possibile» mi presento, cercando di mostrarmi educata.
«Può chiamarmi mio fratello, per favore?» ci pensa Ivy a riportare l'attenzione del vecchio su di sè, permettendomi così di rilassare le spalle. Che il suo sguardo mettesse soggezione è indubbio, ma mi congratulo con me stessa per non aver distolto lo sguardo per prima.
Il vecchio si dirige verso una porta secondaria, per poi spalancarla.
«Aaron Taylor, vieni subito qui!» urla a squarciagola il nome del malcapitato e io, fossi stata in lui, avrei perso un timpano e l'altro pure. Attendiamo due minuti colmi di tensione, prima che il vecchio decida di richiamare nuovamente il ragazzo.
«Arrivo, signor Leonard!» la sua voce proviene dal buio del sottoscala.
«Quante volte ancora devo dirle che il mio nome è Ashton e non Aaron?» continua, esasperato, fino a che i suoi passi non diventano più vicini e la sua figura non compare sull'uscio della porta.
Prima di ogni altra cosa si appresta a chiudere la porta alle sue spalle e ciò mi permette di guardarlo attentamente in delle vesti a me sconosciute.
I suoi capelli ricci sono disordinati e gli carezzano la fronte a ogni movimento. La schiena e le gambe sono avvolte in una tuta da meccanico blu scolorita, sporca qui e lì da macchie scure.
In un primo momento il suo sguardo è disorientato, poi arrabbiato e infine insolitamente preoccupato quando, al mio fianco, scorge la figura minuta della sorella.
«Ivy, che ci fai qui con questa ficcanaso patalogica?» domanda infine con rabbia. «Tu non riesci proprio a startene nel tuo dannato spazio, lontano da questo posto, vero?»
Cosa sono, un cane? Sospiro irritata.
Quando la smetterà di essere così ostinato?
«Se per un attimo mi lasciassi parlare, forse capiresti anche tu il motivo per cui mi trovo qui con tua sorella ferita e spaventata» gli faccio presente con tutta la calma di cui al momento sono provvista.
«Ferita?» lo osservo mentre strabuzza gli occhi e si avvicina nervoso e preoccupato. Senza nessuno sforzo, riesce a sollevarla dalle mie spalle e ad appoggiarla sul cofano dell'auto.
«Cos'è successo Ivy? Stai bene?» le domanda mentre sonda ogni parte del suo corpo per assicurarsi che non ci sia nulla fuori posto. Velocemente, si libera della fasciatura momentanea che avevo avvolto intorno al gomito della piccola.
«Non preoccuparti Ash, è stato solo un incidente. Dei ragazzini mi hanno scambiata per un'altra persona e mi hanno spinta per sbaglio. Fortunatamente è intervenuta Anita e li ha fatti scappare via, è stata pazzesca, quindi per favore non tattarla male»
Dire che rimango stupita dalle sue parole è dire poco. Non pensavo mi avrebbe difesa agli occhi del fratello nè tantomeno che mentisse riguardo alle intenzioni losche dei ragazzini. Scommetto un arto che conosceva perfettamente anche tutti i loro nomi.
Ashton rimane in silenzio ad osservarla, battendo le dita sulla superficie metallica della macchina. Sistema nuovamente la fascia, per poi rivolgere lo sguardo verso di me. Mi scruta per alcuni secondi ed io, nel frattempo, vorrei sprofondare.
Si morde le labbra e sospira.
Bacia la fronte della sorella, le sussurra qualcosa all'orecchio e poi chiama il signor Leonard affinché le facesse compagnia.
Ashton si avvicina a me e, istintivamente, stringo gli occhi. Lui, però, mi supera. Si dirige verso l'uscita, senza neanche guardarmi. Mi preparo al peggio, sospiro e mi volto per seguirlo. Una volta all'aperto, il silenzio regna sovrano tra di noi e l'attesa diventa snervante.
Da quando è diventato così difficile intavolare un dialogo civile tra due persone comuni che non si conoscono?
«Ti ringrazio»
È talmente improbabile che avesse pronunciato quella parola che credo quasi di averlo immaginato.
«Come, scusa?»
«Hai sentito benissimo, non mi ripeterò una seconda volta» borbotta con orgoglio.
«Non ho fatto niente di speciale. Chiunque, al mio posto, avrebbe reagito allo stesso modo»
«Non è vero, non tutti avrebbero fatto quello che hai fatto tu» stringe i pugni lungo i fianchi.
Mi porto una ciocca di capelli dietro all'orecchio e, guardando le sue spalle fremere, m'impensierisco.
«Ti sono riconoscente per averla aiutata e riaccompagnata qui da me, ma questo non cambia nulla, tu non...»
Ecco, ci risiamo.
«Io non dovrei essere qui perchè sono una Fiorente, bla bla bla» lo anticipo, interrompendolo.
«Ormai la predica l'ho imparata a memoria. Per favore, cerca di essere più originale la prossima volta»
«La prossima volta?» domanda, digrignando i denti.
«È vero, ho paura anche solo all'idea di avvicinarmi nuovamente al Covo ma...mi piace stare in periferia, io ci lavoro, ho conosciuto delle persone che vivono qui e sono fantastiche. Non sono i mostri di cui tutti parlano, voi non siete lo schifo che molti credono» faccio un passo avanti nella sua direzione.
«Le mani mi tremano ancora quando passo da una zona periferica all'altra, ma la verità è che io mi sento più vicina a casa mia quando sono qui. Dovrai accettarlo prima o poi e, magari, capirai anche che non sono una minaccia per te e per le persone a cui tieni. Ci vediamo in giro, Ashton».
Questa volta sono io ad andare via, a lasciarlo lì, sulla soglia di un marciapiedi qualunque.
E mentre mi allontano, ho una nuova certezza: affrontare le nostre paure adesso è l'unico modo per non avere più paura in futuro.
Angolo autrice:
Salve a tutti piccoli pinguini!
Come state? Spero tutto bene! ❤
Ho pubblicato il capitolo di Anita, cosa ne pensate? Mi piacerebbe molto ricevere un vostro parere sincero, magari qualche impressione sulla storia in generale. Questo ci renderebbe davvero molto contente!
Noi, intanto, ci sentiamo a breve con il prossimo aggiornamento. A presto!
//Lucy🐧
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