Capitolo 1 di Violet Price
«Il broncio non va di moda»
Papà mi fa cenno di sorridere, portandosi le mani ai lati della bocca e sbattendo le palpebre, ma io mi rifiuto caparbiamente di ostentare un buonumore che non mi appartiene.
E' da ore che provo a stare calma, ma l'ansia mi sta attanagliando lo stomaco da questa mattina. David è in piedi, poggiato con la schiena al muro. Sta maneggiando il suo cellulare, interdetto, e questo non fa altro che incupirmi e rendermi ancora più vulnerabile. Due mesi fa è stato diagnosticato un tumore maligno a sua sorella Victoria e io, nel profondo del mio cuore, non me la sento proprio di lasciarlo a casa da solo, senza nessuno. Non sono nemmeno convinta del fatto che possa essere in grado di gestire una relazione a distanza, del resto non siamo mai stati lontani a lungo.
Mio padre tossisce per destarmi dalle mie lunghe riflessioni.
«Pensare nuoce alla salute»
E io lo so, lo so benissimo, ma preferirei restare così, immersa nei miei dubbi per sempre, piuttosto che essere qui e percepire questo forte nodo in gola, che sento ingrossarsi e diventare sempre più duro e soffocante, come una ghianda scura e grossa. Vorrei alzarmi, ma poi comincerei ad andare avanti e indietro. Quindi meglio lasciar perdere: andrà tutto bene. Oppure no, ma questo non posso saperlo.
«Eccomi di nuovo. Scusatemi per l'attesa, ma oggi è una giornata particolare» si discolpa Fiore, rammaricata. «Seguitemi» aggiunge subito dopo, ondeggiando nella sua gonna di seta blu a passo incerto. Decisamente fuori moda.
Mi alzo, raggiungo David che non sembra essere molto presente e cammino stando a distanza debita con la collaboratrice scolastica. Arriviamo in un corridoio gremito di studenti alle prese con la trepidazione e l'affanno. Tutto ciò mi innervosisce e d'istinto lascio la mano del mio ragazzo per raggirare avidamente tra le mie quella che sarà la mia carta magnetica per il prossimo anno.
«Questa è la porta» mi sorride Fiore con gentilezza. Poi mi sollecita, indietreggiando: «La apra»
Tiro un sospiro di sollievo e annuisco, agitata. Non è possibile che stia succedendo davvero.
Avvicino la chiave magnetica alla serratura e la porta si apre emettendo una vibrazione. La spalanco lentamente e poi mi immobilizzo sulla soglia, estasiata. E invece tutto è possibile.
Il letto occupa il centro della camera e le sue coperte sono state rimboccate meticolosamente; lo raggiungo, levando le scarpe per evitare che il parquet si arricci. Il materasso è uguale a quello che ho a casa, i cuscini bianchi sono rigonfi di lana e non di ovatta, che detesto profondamente. Sul comodino più vicino alla porta del bagno ci sono plaid rosa cipria che fanno pendant con le trapunte bianche. I piccoli dettagli mi inducono a pensare con forte convinzione che questa stanza sia stata studiata a pennello e l'idea di vivere in una camera simile ad un cofanetto intoccabile mi rende tanto eccitata.
Quando entro nel bagno, percepisco la schiena intorpidita e la testa pesante come una damigiana colma di vino fino all'orlo. Guardo il lavandino e gli altri sanitari in marmo pregiato, gli asciugamani celesti, lo specchio rettangolare e le imposte. Non c'è nulla che non mi compiaccia. Il servizio di benvenuto, inoltre, è carinissimo e il tappeto di pecora profuma di lavanda. Descrivo con l'indice il perimetro di una delle mattonelle blu. E' tutto pulito. Sorrido.
Mi volto soltanto per raggiungere gli altri, che sono rimasti impalati sulla soglia.
Un vuoto enorme mi gonfia il corpo di irrequietudine, quando mio padre si affretta a salutarmi.
«E' tardi» spiega e io acconsento ancora una volta con condiscendenza.
Rivolgo un'occhiata a David, che sta parlando a telefono con qualcuno. Lo guardo camminare avanti e indietro, passarsi una mano tra i capelli e poi sbuffare in silenzio. Lui si volta verso di me per caso e, venendomi incontro, domanda a mio padre: «Dobbiamo andare, Robert»
Papà annuisce e allora David si sporge per darmi un bacio a stampo.
«Ti amo» sussurra poco convincente, mentre sono sempre più convinta del fatto che ci sia un abisso tra un "ti amo" e l'amare. Un po' come quando alla domanda "come stai?" rispondi "sto bene" e invece vorresti soltanto dissolverti e svanire.
«Anch'io» mi limito a dire. Poi lo abbraccio forte e un secondo dopo lo guardo andare via.
Quando chiudo la porta, le gambe si appesantiscono tutto d'un tratto e quasi perdo l'equilibrio. Passo la lingua sulle labbra, che senza alcun motivo logico sembrano disidratate e mi costringo ad arrivare in bagno, cercando di non dar troppo peso agli occhi che mi si chiudono spontaneamente e al collo che mi prude per la collana di perle di notevole spessore.
Sento già la mancanza di mio padre e non riesco a fare a meno di agitarmi al solo pensiero di dover condividere per tre mesi una camera tanto vasta con l'angoscia, l'ansia e l'indubbia presenza della malinconia, coinquilina muta e arcigna.
Apro l'acqua nella vasca e mi ci siedo dentro, con la stessa noncuranza con cui viene gettato un sacco di patate sopra un bancone, risentendone subito dopo.
Il delizioso profumo di ammorbidente e lavanda si insinua fra le mie narici, come un felino ubriaco di miele si espande nel mio cervello, offuscandomi la vista, definitivamente accecata dalle mattonelle che riflettono la luce sfavillante delle lampadine artificiali.
Con gli occhi infossati, il corpo avvolto dal vapore e la pelle tenera come il burro, lascio diminuire tutti gli elettroni che ho accumulato in questi ultimi giorni, catapultandomi nella mia vecchia suite di Parigi.
Mi assopisco dolcemente, canticchiando le note di una delle canzoni preferite di madame Margot e quando le mie palpebre si aprono e riprendono coscienza, noto la pelle delle dita essersi avvizzita. Mi fiondo fuori dalla vasca e, con maggiore disinvoltura, indosso il soffice accappatoio ripiegato accuratamente sulla lavatrice.
Svuoto le valigie del contenuto e sistemo la mia collezione di rossetti sopra una mensola in marmo. Poi, appendo i miei abiti alle grucce, che già ad occhio non bastano per la mia vasta quantità di vestiti.
Lego i capelli in una coda alta, pettinandoli prima di raccoglierli, per evitare che cadano col tempo, e spalmo sul mio viso una crema idratante all'acqua di rose.
Penso a quanto mio padre faccia di tutto per farmi ottenere il meglio del meglio e istantaneamente lo rivedo sulla sua poltrona con la testa sullo schienale e le gambe poggiate sui morbidi cuscini, il telecomando della televisione fra le mani curate.
«Come vanno le cose?» mi chiedeva ogni mattina, quando ero molto piccola, come se gli servisse sapere che stessi bene per affrontare con positività la giornata.
Era raro che mi fermassi a parlargli per tanto tempo, l'azienda d'abbigliamento che dirige già allora era una delle più rinomate e conosciute della nazione, pertanto "il signor Price" ha sempre dovuto sballottarsi a destra e a manca per interviste, sfilate, conferenze stampe e riunioni importantissime.
Sempre in ghingheri, composto e fine, ha voluto che lo considerassi un grande esempio e, col tempo, ha fatto di me ciò che non è riuscito a fare di se stesso. Se sono al Poison College, infatti, è per essere tutto quello che lui non è diventato. Ho volontariamente lasciato nel cassetto il mio vero sogno per l'unica persona nel mondo che, nonostante tutto, non mi ha mai abbandonato. L'unica che mi ha raccontato di giorni migliori nei suoi giorni peggiori, questo è il regalo più grande che potessi donargli per ringraziarlo.
Sospiro, scacciando tutti i miei pensieri ed applico un fondotinta nude, molto leggero. Faccio per spolverare una gonna bianca per la decima volta, da perfetta maniaca dell'ordine quale sono, quando sento dei colpi contro la porta.
«Sì?» chiedo all'istante.
«Signorina Price, sono John McCarthy»
Apro la porta e stringo la mano di un uomo basso e calvo. Il mio interlocutore ha lentiggini che copiosamente gli costellano le guance e gli zigomi distorti; mi parla con voce nasale: «La signorina Natasha Ellis l'attende impaziente al piano terra.»
Ringrazio McCarthy per l'informazione, richiudo la porta e percorro il più velocemente possibile le scale, dopo aver infilato in fretta e furia un paio di stivaletti, dei pantaloncini scuri e un golfino nero.
Una donna slanciata e magra mi viene incontro, quando raggiungo la hall.
«La figlia di Robert?» chiede acida, come se fossi l'unica persona al mondo che non volesse incontrare. Vorrei urlarle "Ehi, sveglia, sono Violet Price, e dopo la figlia di un ricco uomo d'affari!", ma avere classe significa anche essere maturi, comunque vadano le cose.
«Violet Price, mi dica» mi sforzo di sorriderle, guardandola negli occhi verdognoli con distacco.
«Natasha Ellis, in persona» ci stringiamo con freddezza la mano.
«Il signor Price ha compilato tutti i moduli, ma ha dimenticato di prendere questo» e mi porge un libricino, scorbutica.
«Qui ci sono tutte le regole da seguire, concesso che si voglia essere ammessi al Poison College...» spiega, la sua voce sciorina un tono provocatorio che mi rifiuto di sopportare.
«Ammesso che si voglia frequentare ancora il College e continuare a parlarne bene...» ricambio il sorriso, parlando con maggiore enfasi.
Natasha resta in silenzio, e cinguetta, con fare meno altezzoso:«Tutto chiaro?»
«Perfettamente»
La donna gira sui tacchi.
«Le lezioni scolastiche quali fasce orarie comprendono?»
domando, ma lei sbuffa, quasi offesa:
«Chieda a qualche altro segretario, non ho tempo da perdere»
Alzo le mani e faccio per ritornare in camera, quando di sfuggita scorgo la facciata della piacevole biblioteca del Poison, dove mi dirigo con estrema curiosità. Il cuore mi galoppa nel petto e comincio ad avvertire una sensazione piacevole nel mio corpo, che mi fa sentire più accolta, a casa.
La biblioteca è un ambiente gigantesco, che profuma di carta stampata e riciclata; presenta sedie in vetro, per tutti i tavolini in legno pregiato, che ospitano innumerevoli computer della Apple, scartoffie, penne di mille mila tipi e block-notes di cinquanta sfumature di colore differenti. Mi circondano librerie altissime, stipate di innumerevoli volumi. Prendo il primo libretto che mi capita davanti agli occhi, costituito da una quarantina di pagine, dalla copertina marroncina e consunta, e vado a sedermi. Dopo una ventina di minuti, faccio richiesta alla professoressa Debby, super visionatrice degli astanti, per avere un quaderno vuoto, sul quale, in seguito, scarabocchio: Capitoli poco coinvolgenti, scrittura scarna, calligrafia poco chiara. Eccessivi artifizi compositivi, linguaggio comune e banale contrapposto ad un modo di parlare artificiale e frastagliato. Periodi troppo lunghi, frasi complesse per la fascia d'età riportata dietro la copertina. Dialoghi caratterizzati da discorsi roboanti, letteralmente privi di significato.
Mi battono i denti per la contentezza e subito mi siedo ad un tavolo per rileggere la mia recensione.
«Piacere, Steve»
Mi volto di scatto.
«Ho letto la tua recensione, perdonami la maleducazione. Fai parte del corso di scrittura?»
Scuoto la testa e gli tendo la mano con diffidenza: «Violet Price»
Il ragazzo che ho davanti si siede accanto a me e mi offre un tè caldo allo zenzero e al ribes. Mi dà il benvenuto con un sorriso davvero abbagliante e comincia a parlarmi velocemente del college, con un accento stranamente a me familiare. Inizialmente resto in silenzio, con le mani poggiate al mento e poca voglia di ascoltarlo ma, con il passare dei minuti, riesco ad essere più curiosa e coinvolta dalle sue parole. Mi racconta che gli studenti si premurano di donare al Poison dei libri e dei romanzi per coronare l'ambiente e renderlo più originale.
«E' un'idea intelligente!» sorrido, completamente favorevole all'iniziativa.
Steve mi osserva per bene, mettendomi in soggezione.
«Fin da piccolo mi tuffavo in dimensioni extra-spaziali. Spesso scrivevo,» si massaggia per un attimo la barba spigolosa, «era liberatorio, significativo. Stavo bene quando lo facevo, insomma...un po' come te» pronuncia, ammirato.
Le sue parole mi rammentano il passato e subito mi pare di vedere la piccola me che passava ore e ore a prendere in prestito trucchi, gonne e scarpe da Ursula, per poi trascorrere giornate intere andando avanti e indietro nella sua cameretta con agenda, cartoncini e matite colorate, al fine di esporre al meglio le giuste valutazioni riguardo le ultime fiabe lette.
Una campanella suona e mi riconduce alla realtà, trascinando con sé la magia della mia breve infanzia.
Occhi marroni e capelli castani si affretta a salutarmi perché ha una lezione importante di diritto e costituzione, ma invece di liquidarmi con un semplice gesto della mano, come avrei fatto io, mi abbraccia brevemente e mi dice che gli sto simpatica.
Lo ringrazio e quando lo vedo varcare la soglia della porta, mi alzo per riporre il libricino nella biblioteca e torno in camera sorridendo, guardando confondersi fra le masse di studenti Steve, il mio primo amico al Poison College.
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