Capitolo 3: La villa di campagna


Davanti a loro si innalzava una villa di tre piani, più una probabile soffitta. 

Era in stile gotico, sì, ma sembrava nuova, appena ritinteggiata di un bianco abbagliante e caldo, che faceva a pugni con il paesaggio desolato fatto di erba alta e fiori di campo che si stagliava tutt'intorno.

Mentre attraversavano un breve tratto di strada asfaltata, Esther notò le alte finestre senza balconi, le decorazioni che separavano un piano dall'altro rappresentanti animali e figure umanoidi non ben identificate, le guglie di un materiale che le sembrava marmo finemente decorato con diavoli, angeli o rampicanti abilmente scolpiti, ed infine il cancello in ferro battuto con dettagli arabeggianti, ma in uno stile diverso, che ricordava le entrate delle case infestate nei film horror. 

Superarono il cancello, e passarono per un giardino meraviglioso, con siepi alte due metri molto curate e fiori che le facevano venire in mente nomi particolari: iris blu, ortensie rosse e viola, orchidee giganti piantate in vasi, piante che neanche conosceva, ma una cosa la colpì.

Il giardino, quel luogo così colorato e spettacolare, era pieno di crisantemi e di cipressi. 

I fiori, e gli alberi della morte, dei cimiteri. 

Di colpo, Esther smise di osservare quel luogo che si era dimostrato così funesto, e si concentrò sull'uomo che camminava di fronte a sé.

Il passo era accelerato, come se avesse fretta di giungere alla-Esther supponeva fosse-sua dimora.

Quando arrivarono al portone in legno massiccio scuro, salendo le gradinate fino al portico con divani e tavolino, il sequestratore prese una semplice chiava di acciaio dalla tasca, la infilò nella serratura, ed entrarono nella villa.

Se l'esterno l'aveva meravigliata, l'interno la lasciò a bocca aperta.

Si trovarono in un grande ingresso, con i pavimenti in marmo rosso, le pareti alte cinque metri ricoperte da carta da parati a righe verticali dorate e nere. Un grande candelabro pendeva dal soffitto, sotto di cui stava un tappeto finemente decorato di colore bianco e blu scuro.

Davanti a lei, si innalzava una scalinata di un marmo candido, con il corrimano dorato.

- Vieni. Ti faccio vedere il resto. - Disse l'uomo.

Esther lo seguì in silenzio, cercando di trattenere dei versi di adorazione come "oooooooh" e "aaaaaaah".

Attraversarono una sala ricoperta di moquette color del miele, con una scrivania e un sofà rivestito di tessuto rosso. Vide un salottino altamente pacchiano, pieno di tappeti bordeaux, divanetti con cuscini, comodini sovraccaricati di soprammobili diversi tra di loro, e arazzi alle pareti. Ammirò un salone da ballo più grande di casa sua, con innumerevoli candelabri di cristallo appesi, tavoli di legno chiaro sopra un parquet di legno scurissimo. 

Tutto questo passando per corridoi spaziosi con finestre più lunghe che larghe, nonostante ciò ricoperte da tende a volte color crema, a volte color sangue.

Per ultima, le fece vedere una stanza non troppo grande rispetto alle altre, ma piena di quadri e poltrone. I quadri, poi, erano stupendi, uno più diverso dell'altro. Rappresentavano scene di guerra, incontri galanti, cene sfarzose, e tante altre.

Uno, però, attirò l'attenzione di Esther, tanto che si fermò in mezzo alla stanza, sbalordita. 

Perché quel quadro lo conosceva.

Era Danaë, il quadro dell'immensamente famoso Gustav Klimt, uno dei suoi pittori preferiti in assoluto. E quel quadro, oh, quel quadro, era semplicemente meraviglioso. 

Was?...

- Che cosa ci fa qua un dipinto di uno dei più grandi maler austriaci di tutti i tempi? Ero sicuro che te lo saresti chiesto. Sai...mi è piaciuto molto quando l'ho visto. E allora l'ho fatto rubare. Avrai sentito la notizia, immagino. -

Certo che aveva sentito la notizia. Era scomparso misteriosamente dalla Galerie Würthle oltre tre anni prima. Esther era scioccata. Quindi l'uomo che l'aveva rapita era anche un ladro? Non sapeva più cosa pensare.

Erano ormai al terzo e ultimo piano, quando la fece fermare davanti ad una porta in legno, dicendo

- Questa è la tua camera. -

Ecco la notizia base. La notizia inquietante, è che sulla porta, ad altezza del viso, si trova una targhetta in quello che sembrava ottone, con su scritto: Esther Koller

Esther era sbigottita. Quindi, l'uomo misterioso sapeva chi era?

Nel frattempo, lui aprì la porta. Dentro, c'era qualcosa che non si aspettava.

Specchi.

Le pareti, il soffitto, il pavimento, tutto era interamente ricoperto di specchi. Non c'erano spazi per separarli. Le lastre riflettenti erano state costruite appositamente, in modo che le superfici sembrassero un unico grande specchio. 

Al centro si trovava un grande letto a baldacchino, con le lenzuola candide, immacolate. Anche la stoffa del baldacchino era bianca, mentre le parti di sostegno erano del colore dell'argento. Dietro il letto c'era una grande finestra, semi nascosta da una pesante tenda argentata.

Sotto di essa, si trovava una scrivania in legno chiaro, con sopra degli scaffali vuoti, anch'essi in legno. A destra del letto c'era una porta, forse il bagno, mentre a sinistra una cabina armadio.

Esther era incerta su cosa provare. Era meravigliata dallo sfarzo di quella casa, ma era anche inquietata dalla situazione in se.

- Allora, ti piace? - chiese l'uomo

Esther non rispose, si limitò a guardarlo con diffidenza. 

- Almeno, se sei intelligente quanto so io, avrai capito chi sono, no? -

Il fatto, è che lei lo sospettava. Adesso che erano vicini, lo osservò meglio. Doveva essere sulla trentina, forse un po' meno. Era alto più di un metro e ottanta, perciò superava Esther di un bel po'. La pelle era più bianca delle lenzuola del letto a baldacchino, aveva un accenno di barba bionda, e le sopracciglia avevano una forma arcuata. L'uomo si tolse gli occhiali da sole.

Aveva gli occhi del colore del ghiaccio, gelidi e potenti insieme. Lo sguardo era bramoso.

Esther non aveva più dubbi, purtroppo.

- Tu...tu sei u-un vampiro. - disse, con una voce che avrebbe sperato sarebbe stata più ferma.

- Ma brava! E tu, adesso, cosa sei? -

- Una studentessa universitaria.-  disse, con tutta la dignità che la paura le aveva lasciato.

L'uomo si accigliò, ma sembra divertito.

- Sbagliato, Esther. - il suo nome nella sua bocca la fece rabbrividire - Tu, ora sei la mia schiava umana. E non tornerai mai più alla tua vita di prima. -

Esther non rispose.

- E io, ora... - disse, appoggiando la sua mano sulla parete di fianco a lei, in modo da vederla bene in viso - ...sono il tuo padrone. -

Si avvicinò ancora di più a lei. Esther, ormai, non riusciva nemmeno più a sentire i battiti del suo stesso cuore. Le sembrò restringersi il campo visivo, quando lui le parlò, sfiorandole l'orecchio, il viso tra i suoi capelli.

-Piacere. Helias. -  

Dopodiché la spinse delicatamente nella camera, mettendole a fianco la valigia che aveva trasportato per tutto il tempo. 

- Ci vediamo alle undici di sera, le ventitré in punto. Per la nostra prima cena insieme. -

Poi si voltò, e si chiuse la porta alle spalle.

Esther non aveva proferito parola, ma le sembrava ancora di avere il cuore nello stomaco e l'intestino crasso arrotolato intrinsecamente con quello tenue.

Adesso, era una schiava. La sua vita non le apparteneva più.

Apparteneva ad Helias.



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