Capitolo 8.
Degli occhi ambrati lo scrutavano leggermente severi, mettendolo in soggezione. Le labbra erano tese in una linea sottile, mentre le sopracciglia fine erano aggrottate. Il corpo era teso: pareva che in ogni istante lei gli sarebbe saltata addosso, graffiandogli la faccia.
«Massimo...», sibilò la ragazza di fronte a lui, mentre giocava con le punte castane dei suoi capelli. Non sapeva come tirarla fuori di casa, quindi aveva cercato di persuaderla, convincendola che era importante e che doveva parlarle urgentemente di Diamante. Chissà a cosa pensava e se lo stesse incolpando di averla rapita. Chi non lo avrebbe incolpato? Era stato lui a dare inizio a quell'inferno, quindi molto probabilmente era solo colpa sua. Le aveva tolto tutto da ragazzino, quando lei aveva solo dodici anni: la dignità, la libertà e la speranza. Da quando lui e Marica erano stati assieme, da quando i loro genitori li avevano convinti a frequentarsi e unire le forze, forse da lì lui aveva preso la propria rabbia e sfogata su quella ragazzina pallida e con degli smeraldi al posto degli occhi. Forse era solo geloso della sua innocenza.
«Quindi? Perché mi hai chiamata?», chiese di nuovo, lasciando trasparire il tono freddo della sua voce. Lei e Marica non erano troppo amiche, però si parlavano spesso e spesso litigavano. La conosceva già, ma non sotto quella luce. Giorgia era sempre stata timida, tuttavia presa la confidenza si rivelava un ragazza buffa, giocosa e con una parlantina da far addormentare pure chi soffriva d'insonnia. Davanti a lui, invece, c'era uno sguardo freddo e duro, marcato da dei lineamenti, che ricordava come dolci, segnati da quello che aveva passato e il dolore. Si vedeva la netta differenza tra la ragazza che conosceva e quella che sedeva davanti al lui.
Prese fuori il diario dalla borsa a tracolla e si sistemò il golfino grigio, attorno al collo, per elasticizzarlo. Sentiva il tessuto stringerlo, forse era più una sensazione sua, perché i suoi vestiti gli andavano pure leggermente larghi. La bruna lo squadrò ancora una volta, attendendo una spiegazione di quel libretto dalla copertina in cuoio, marroncina, decisamente consumata a forza di tenerlo in mano. Massimo capì subito che Giorgia sapeva cosa fosse, perché iniziò a scuotere leggermente il capo e guardò fuori dalla finestra, posando una mano sotto il naso, come per trattenere delle lacrime. Di lato coglieva tutti i suoi tratti ancora delicati, come il nasino a punta, le labbra fine ma piene e gli occhi grandi, ambrati. I capelli erano legati per metà, lasciando la parte sotto scendere leggera sotto il seno.
«Me l'ha lasciato sua madre, due giorni dopo che fosse scomparsa», iniziò lui, deglutendo rumorosamente, «voleva che la aiutassi a trovarla, sapendo da Diamante che ero uno studente della facoltà di psicologia, qua a Rovereto, sperava che leggendolo avrei capito le motivazioni per cui era scomparsa nel nulla.», la vide irrigidirsi. Abbassò lo sguardo per pensare a come formulare la seguente affermazione, in modo che la ragazza di fronte a lui non lo prendesse a ceffoni.
«Quindi a cosa sei arrivato?», lo procede lei. Alzò gli occhi per vedere il suo volto più rilassato, ma sempre nervoso e i suoi occhi con un bagliore di speranza, che lo fece davvero sorridere nella sua testa.
«Che il diario non era solo un confidente, bensì un messaggero. Mi spiego meglio», aprì il diario, mostrandole un parte e iniziò a leggerla.
***
[...] Se qualcuno ti chiedesse mai cosa mi piacesse di te, dovrai rispondere: i miei occhi ambrati. Così intensi e rossastri, da sembrare vampireschi. In più dovrai anche giustificare il mio affetto nei tuoi confronti, come un'amicizia casuale, non voluta, ma che è durata ed è magnificamente intensa. Sei la prima a cui racconto di mio padre e di come noi due amassimo le stelle. Sei la prima che mi ha detto che sono bella e che merito di essere amata veramente, ma a me basti tu. Basti tu con i tuoi occhi color ambra a baciarmi il volto con le tue iridi, perché ogni sguardo è un bacio e ogni bacio e una voglia incredibile di vivere. Mi fai venire voglia di respirare, anche se mi dai fastidio, anche se odio quando insisti per sapere qualcosa di me e io non voglio. [...]
***
Giorgia si strinse un pugno sulle labbra, e tentò inutilmente di trattenere le lacrime, che le rigarono il volto. Prese il diario e iniziò a sfogliarlo, soffermandosi sempre su qualche pagina e probabilmente su quelle c'era scritto il suo nome. La vedeva ridere mentre piangeva, accennare sorrisi e alzare gli occhi al cielo. Erano le stesse reazioni che fece lui, la prima volta che lo lesse.
«Devo trovarla», disse d'un fiato attirando l'attenzione della bruna, «devo riportarla da sua madre, farle riabbracciare e vederla di nuovo felice con te. Ho bisogno che mi aiuti, che mi dai qualche informazione su di lei, che qua non troverei.», la supplicò, mentre la voce tremava. Chi era lui per aver il diritto di esigere questo? Se l'inferno l'ha creato lui e non ha mai voluto ammetterlo, perché gli altri avrebbero dovuto aiutarlo? Strinse i pugni con forza e si sforzò a non pensare al passato. Non voleva ricordare quello che aveva fatto. Non voleva sentirsi più quel peso la notte.
«Va bene, come posso aiutarti?», rispose decisa, una volta asciugate le lacrime. Lo guardava ancora dura, ma con un leggero velo di gratitudine impercettibile.
«Dobbiamo trovare anche gli altri. C'è questo Vitt- no, non si chiamava Vittorio...
«Vincenzo?», chiese lei e Massimo annuì, «È il mio migliore amico del mio fratellastro, possiamo cavarcela nel trovarlo», lo informò, anche se lui lo sapeva già, avendo letto il diario fino a gennaio. Vincenzo era un ragazzo dai capelli scuri e occhi chiari, che sembrava distaccato all'inizio, ma che tre giorni dopo il pestaggio, che aveva casualmente assistito, mentre passeggiava con il cane, le portò delle pomate per i lividi. Ovviamente litigarono, perché Diamante era troppo orgogliosa per lasciarsi aiutare e non voleva sapere della sua compassione.
«Pure tuo fratellastro sarà necessario, assieme agli altri. Tra tutti mi sono stupito della storia di una ragazza, mi pare si chiami Virgin-
«Stai scherzando? Virginia? Quelle due si odiavano a morte!», esclamò lei interdetta.
«No, ti assicuro che le ha lasciato uno dei messaggi più lunghi a lei. Ecco guarda!», le porse il diario, aperto sotto la data di 11 dicembre.
«È pochi giorni dopo che fu sospesa Alejandra per via di una rissa, perché voleva difendere Virginia da dei ragazzi...», commentò Giorgia, accarezzando dolce la copertina e prese a leggere ad alta voce.
***
Caro diario,
Oggi ho visto Virginia fuori scuola. Ci eravamo date appuntamento, è vero, però sembra piuttosto stupita nel vedermi. Non so perché voglio vederla, ma sono certa che ne vale la pena. Mi guarda colpita, forse è perché ho deciso di venire solo con una felpa larga fino al ginocchio e delle calza maglie, coprendo le gambe con degli scaldamuscoli grigi. La vedo turbata, mentre cerca d'ignorarmi e allo stesso tempo di stare il più vicina possibile a me. Poi prendo coraggio e le chiedo: «Cosa volevano quei ragazzi da te?»
«Quello che vogliono tutti gli esseri di sesso maschile da me», sbotta infastidita.
«Sesso?
«Wow, quindi sei intelligente!», mi deride, guardando sempre dritto.
In questo istante forse la tirerei per i capelli, buttandola a terra, ma realizzo che sta cercando di non piangere mordendosi il labbro. Poi mi guarda, questa volta sembra persa, vuota, priva di senso.
«Tu spacci, io mi prostituisco.»
La guardo, forse scandalizzata o più spaventata dal fatto che lei sapesse. Mi sorride e torna a guardare avanti. Arriviamo a una panchina e ci sediamo lì, mentre si lecca le labbra, sembrando ai miei occhi incerta di cosa fare. Di conseguenza inizio a guardare avanti pure io. Sembra strano, però lei pare così innocente ora, fuori dalle mura scolastiche. Come se la Virginia a scuola e Virginia fuori da scuola fossero due persone diverse, che però avessero somiglianze fisiche. Mi giro a guardarla mentre si lega i capelli viola in una coda disordinata e prende fuori dallo zaino delle salviette struccanti. La osservo attentamente, finché non vedo una ragazza con qualche brufoletto, le sopracciglia fine e le labbra rosse guardarmi con degli occhi grigi come il cielo di oggi.
«Pensavo mi avessi convinta a vederci per parlare, non per fissarmi», penso di sentirla ridere, ma sono incantata a guardarla e non ci faccio troppo caso. Nella mia testa si balena solo un "bella".
«Scusami, è che... Non sono abituata a questa visione.», provo a dire, ma mi rendo conto di aver detto una cazzata, quando lei mi sorride e abbassa lo sguardo, sembra malinconica.
«Sai, a volte mi chiedo perché mi sia messa in questo giro di merda. Ogni tanto vorrei prendere la testa di Gabriele e la sua cazzo di fidanzatina e sbatterle a tal punto da romperle. Mi costringono a rimanere in un giro, perché manca una persona da mettere dentro. So che la pensi come me.», sospira rumorosamente.
Vorrei chiederle come fa a essere certa che io faccia parte del suo giro, ma sarebbe una domanda stupida.
«Quindi hai già portato una persona nel giro?», chiedo per avere conferma.
«No, ne ho portate quattordici, con le puttane è diversa la regola. Dobbiamo portare nel giro almeno quindici persone, sotto l'età di ventotto anni per uscire.», mi spiega tenendosi la testa con le mani, «Siamo le troie che usano a loro piacimento e che devono essere sempre consenzienti, ma io non sono Rebecca. Non voglio continuare, voglio uscire. A loro non piace questa idea, quindi continuano a chiedermi di più. Vogliono di più: più esibizionismo, più sesso e meno abiti. Siamo sei puttane in tutto. Io e Rebecca abbiamo entrambe diciassette anni, poi ci sono Gaia, Sofia, Teresa di diciotto e Carolina di ventidue. Il problema è che tutte loro hanno superato la soglia di quindici nuovi membri, ma sono comunque rimaste.», mi guarda rassegnata. Poi si avvicina a me e mi abbraccia. «Perché piangi?», mi chiede.
Non so nemmeno quando ho iniziato a piangere, non so il perché e nemmeno il come.
«Mi dispiace tanto, Alejandra. Abbiamo tutti un ruolo in questa merda. Io devo fare la stronza e vantarmi di quello che faccio; tu devi essere sempre attenta, rischiare la galera e rimetterci continuamente la pelle. Non so perché tu sei entrata in questo mondo, ma deve essere una cosa che ti ha distrutto, perché ora stai distruggendo te. Esci il prima possibile. Ti aiuterò. Piccola, sei troppo intelligente per rovinarti così. Non permetterò loro di trattenerti come fanno con me. Tu devi essere libera.», confessa, stringendomi con forza.
«Grazie per avermi aiutata, per avermi difesa da quei ragazzi... Non so come avrei fatto da sola, ma tu ti sei messa in mezzo e li hai presi a pugni, beccandoti una sospensione. Ti sei fatta sospendere per aiutarmi. Davvero, te ne sono grata.», aggiunge dopo poco, probabilmente perché dalla mia bocca non usce nemmeno una parola.
Perché vuole aiutarmi? Cosa vuole in cambio? Dimmi, Virginia, cosa pensi di ottenere aiutandomi? Non voglio aiuto, non voglio che tu ti prenda cura di me. Sono grande... Sono grande, ormai non ho più dieci anni. A febbraio ne faccio diciassette, fra un anno sarò indipendente e potrò fare di testa mia. Io sono già indipendente. Ho tutto quello che mi serve. Sei tu ad aver bisogno di aiuto, non io. Sei tu quella stronza bipolare, che fuori da scuola vuole fare la mamma coccia con me. Io sto bene così, uscirò quando ne avrò modo e non ci sarà più bisogno di altri. Solo io e me stessa, da sole, contro questo mondo. Non voglio dipendere da te e la tua finta faccia, quella maledettissima maschera. Chi mi dice che ora sei sincera, quando non sei sincera nemmeno con te stessa? Perché tutta questa recita? Non ti senti un peso addosso? Non ti senti nemmeno un po' ridicola di mentire così spudoratamente?
Che senso ha prima essere una stronza e poi consolare una ragazza che nemmeno sa perché piange? Io non so perché le lacrime abbiano iniziato a rigare il mio volto, so solo che sapere che tutto questo, che tu non lo facevi per volontà, ma per non essere più pestata come me... Sapere questo mi lascia un vuoto dentro. Una sensazione di rimorso che mi uccide. Quante volte ti ho accusata di essere una poco di buono? Troppe. Ma non è quello che facciamo tutti? Non è proprio giudicare tutti dalla copertina che ci rende uguali? Sono stata sempre io a urlarti che sei solo una troia e buttarti per terra, ma tu ora non porti rancore. Oggi non doveva andare così, io avevo bisogno di litigare ancora con te, di dirti che sei solo una lurida sgualdrina e che l'unica cosa che sapevi fare bene era aprire le gambe. Avevo intenzione di tirarti per i capelli e di sputarti addosso, quindi forse l'unica incoerente qui sono io. Sono io e il motivo per cui piango è che oggi volevo davvero dirti che ti ho difesa solo perché volevo fare a botte e non perché ti stavano per violare nei bagni della scuola. Non doveva andare così, per questo ora mi pento di essere venuta fino a Rovereto, per parlarti. Dovevamo parlare, urlare e continuare a odiarci. Come posso odiarti ora? Non voglio odiarti, non voglio offenderti. Non voglio più continuare questa guerra. Ne ho combattute troppe. Alla fine ho solo sedici anni. Non voglio più staccarmi da questo abbraccio. Voglio stringerti ancora. [...]
***
Giorgia guardò confusa la pagina, poi alzò lo sguardo su di lui. Sapeva che la sensazione di confusione si stava diffondendo nella sua testa, era successo pure a lui. Quello stato di trance, che gli faceva perdere giornate intere nella sua camera da letto quando stava dai genitori. Quel momento d'insensatezza, che portava a un ultimo pensiero positivo, prima di ritornare alla realtà e capire che di positivo non c'era nulla.
«Dici che è vero quello che ha scritto?», gli chiese dopo una lunga pausa. Entrambi erano concentrati a guardare i dipinti della pasticceria dove si erano seduti assieme, uno di fronte all'altro.
«Che sia vero, non ci sono dubbi. Il problema è che non ha scritto tutto. L'ha fatto pure con un dialogo avuto con me, mettendomi in bocca anche le parole che ha detto lei. Diamante faceva così», rispose lui, fermandosi per sentire le campane della chiesa non distante e annunciava le quattro di pomeriggio. «L'unico motivo per cui non dovresti fidarti di tutto quello che scrive è questo. Non scrive tutto, omette delle parti che per lei non sono essenziali. Secondo me lo fa perché non se le ricorda. È un piccolo genio, ma non può ricordare tutto.», continuò guardando le sfumature delle foglie gialle, segnate da pennellate rapide e sottili.
«Possiamo incontrarci giovedì?», domandò la ragazza, attirando la sua attenzione.
«Non è meglio tenere la domenica come giorno d'incontro?», ribatté lui, accennando un'espressione stralunata quando vide la bruna alzarsi e prendere le sue cose.
«Domenica sia», risponde lei, sistemando la sedia di legno chiaro e dirigendosi verso la porta vetrata.
Il diario era ancora aperto sul tavolino bianco, vicino a due tazze vuote e un piattino. Lo fissava con intensità, cercando di spiegarsi il perché abbia lasciato dei messaggi. Sapeva già che sarebbe scomparsa prima o poi? O semplicemente sperava che una volta lasciato il Trentino, lei avrebbe consegnato il diario a uno di loro, inseguendo il suo sogno. Voleva andare a Roma, dai suoi nonni materni, per iniziare da capo la sua vita. Lei poteva permettersi il lusso di lasciarsi il passato alle spalle, mentre lui avrebbe vissuto con il rimorso di tutte le sue azioni per tutta la sua vita. In fondo se lo meritava.
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