Capitolo 5.

A.S. La storia contiene atti di vandalismo, droga e messaggi inadatti alle persone fragili.


«Sei in ritardo, Stella», mi fa notare Gabriele, sorridendo sornione. Due minuti e quaranta secondi di ritardo. Cosa vuoi che sia? Sono solo due minuti e quaranta secondi. Solo due stramaledetti minuti e quaranta fottuti secondi. Treno di merda. Treno di merda. Treno di merda.

«Gabriele, il treno...», cerca d'intervenire la mia migliore amica, avvicinandosi al moro dagli occhi verdi.

«Non ti ho dato il permesso di parlare, Amore», sibila alla mia unica speranza. Greta mi guarda triste, sussurrando un lieve "scusa".

No... No. No!

Scuoto la testa, pregando tutte le divinità esistenti di risparmiarmi.

Il biondo, che prima stava alla destra di Gabriele, si avvicina a me. Se scappo mi faranno di peggio. Stai ferma, Alejandra. Ti prego, stai ferma. Ti faranno di peggio. Ti faranno di peggio. Ti faranno di peggio. Ti scongiuro, corpo obbedisci ai miei ordini.

«Paolo...» Sussurro quando mi è vicino. Lo guardo mentre tiene lo sguardo basso. Una lacrima bagna la sua guancia, mentre mi tiene ferma.

«Mi dispiace, Ale. Succederà a me, se non obbedisco», bisbiglia, lasciandomi appoggiare la testa alla sua spalla.

Chiudo gli occhi rassegnata e attendo che il castano, Mattia, infili la siringa nel mio braccio e inietti la dose di cocaina. Non è una dose qualsiasi, è quella dose. La stessa che abbiamo trovato io e Mattia, per mantenere il soggetto sensibile alle botte, ma troppo fatto per alzarsi e reagire. Maledico me stessa per averli aiutati...

Una lacrima bagna la mia guancia, ma realizzo che non sia mia. Apro gli occhi e vedo il volto di quel stesso castano che mi aiutava a trasportare i pacchi.

«Sei proprio bello, Mattia» bofonchio disorientata.

«Sei una sciocca.»

Si alzano entrambi, mentre la mia vista si annebbia. Dove sono? È così caldo qui... Si sta bene.

Qualcuno urla dei comandi in una lingua. Urla forte. Troppo forte. Smettila, ti prego smettila. Smettila di urlare!

Una fitta al fianco destro. Guardo da quella parte, mentre il fianco sinistro inizia a bruciare. Mi giro e una botta sulla schiena mi proibisce di muovermi ulteriormente. Devi fare la brava! Perché sono così sfortunata? Che ho fatto di male? Non mi merito tutto questo. È per il tuo bene. I colpi si moltiplicano, si spostano, si intensificano. È solo una piccola lezione di vita.

«Aiutatemi...» Bisbiglio, venendo schiacciata.

Mi rannicchio, coprendo la testa con le mani, mentre quei cani lasciano ustionanti morsi sulla mia schiena. Ti piace stare con noi, vero? Delle mani mi tirano e buttano, colpendo più violentemente.

«Fermatevi», imploro, venendo spinta con violenza. Alejandra, rimani con noi... Cerco di nascondermi, ma non sembra funzionare.

«Basta...» Sussurro, mentre il mio corpo cade nel vuoto. Alejandra...

Riapro gli occhi e guardo le foglie cadere, creando un frastuono insopportabile. Mi alzo e giro su me stessa, non capendo dove mi trovo. Il vento m'investe in pieno e mi fa rabbrividire.

Mi stringo nella mantella per tenermi caldo e subito noto qualcosa che non va. A cingere i miei fianchi c'è una gonna scarlatta con i bordi decorati e un grembiule bianco a coprirla leggermente. Non voglio nemmeno sapere di cosa si trovi sotto la mantella.

Alzo nuovamente lo sguardo e cerco di distinguere qualcosa di familiare. Niente.

Una bestia ringhia in distanza, facendomi cadere sulle mie gambe. Mi rialzo, iniziando a correre. Non capisco verso dove mi dirigo, ma sento di dover andare da quella parte. I miei passi si susseguono rapidi, scoordinati, incerti. Mi appoggio a un tronco per prendere fiato.

«Marica!»

Mi volto verso la direzione opposta e guardo la nebbia. Il mio petto si gonfia e si sgonfia irregolarmente per la fatica e il mio cuore martella all'impazzata.

Inizio a muovere i passi verso la direzione di quel nome gridato. Mi sposto disordinatamente, mentre d'improvviso le lacrime bagnano la mia guancia. Perché piango? Mi asciugo il volto con la mantella e cerco di fermarle inutilmente.

Torrenti impetuosi di lacrime conquistano millimetro dopo millimetro il mio volto, lasciando ustionanti scie, creando un greve nodo in gola sempre più difficile da deglutire.

Mi accascio a terra, incapace di resistere a quel momento di debolezza. Mi rassegno e accompagno i fiumi salati con un urlo plumbeo; una scarica di emozioni perpetuamente patetica.

Quando riapro gli occhi mi ritrovo una fotocamera di un telefono davanti al naso. Non è l'unica. Decine di telefoni mi filmano da vicino, ridendo delle mie lacrime e i miei occhi arrossati. Miriadi di parole tagliano la mia pelle, come lame di rasoio, mentre spero con tutto il mio cuore che qualcuno li faccia smettere.

Guardo in alto e noto l'aeroplanino sopra il lampadario a LED. Sono a scuola, nella mia classe. La mia schiena contro il freddo muro e le persone senza volto davanti a me.

Scuoto la testa, nascondendo il volto con le mani. Le lacrime scorrono senza fermarsi, dimostrando il deterioramento incurabile della mia anima, trafitta nel cuore dalla stessa speranza di una vita migliore.

Una figura femminile si para danti a me e poi si accuccia, mostrandomi il suo volto dalla bellezza amena. Mi perdo in due iridi ambrate come il miele più limpido e trasparente. Un sorriso definito dalle labbra rosee e delicate; lo splendore di un aspetto infantile e tenue.

Giorgia.

Come gli altri, inizia a sghignazzare malvagiamente delle mie debolezze, mostrando a tutti i miei tasti dolenti. Perché me lo fai? Non siamo amiche?

Mi lancia occhiate cariche di scherno e starnazza insieme alle altre parole dolorosamente cattive. Un insulto dopo l'altro, deridendo la mia vita di merda, tirandomi per i capelli.

Mi fidavo di te... Perché fai questo?

Voglio scappare da qui. Stringo la collana al mio collo e chiudo gli occhi, piangendo. I denti battono, le mani tremano, il fiato accelera, la vista si annebbia.

La professoressa, appena entrata dalla porta verde, non fa nulla per fermarli. Mi guarda schifata e torna a parlare con la classe, concedendo a un ragazzo l'onore di sputarmi addosso. "Le cose inutili non hanno senso di esistere."

Ha ragione, non ho ragione per rimanere. Sono solo una piccola creatura senza speranza. La classe svanisce e al suo posto compare una corda, appesa al soffitto, e una sedia al centro di una stanza grigia. Mi avvicino a quella sedia, come una falena attratta dalla luce di una fiamma.

Le cose inutili non hanno senso di esistere.

Afferro la corda, singhiozzando maggiormente. Basta un piccolo sforzo e tutto finirà. Un ultimo sacrificio, per scrivere la parola fine.

Una voce distante urla un nome, ma non riesco a comprendere. Non voglio comprendere, ora ho da fare.

Salgo sulla sedia e faccio passare la corda attorno al mio collo.

Di nuovo una voce urla un nome di cui capisco solo l'iniziale e la finale. Smettetela! Non mi interessa!

«Marica!» Urla la voce.

Cerco di girarmi nella direzione opposta, ma nello stesso istante i miei piedi scivolano, firmando la mia condanna.

Spalanco gli occhi, ritrovandomi nel mio letto.

«Ben sveglia, principessa. Che mi dici del pestaggio?» Esclama una voce, costringendomi a guardare nella sua direzione.

I ricci rossastri vengono illuminati dalla luce dei lampioni e gli occhi grigi sembrano irraggiare l'atmosfera cupa.

«Claudio...» Mugolo, mettendomi seduta. «Chiudi quella fogna. Non ti sopporto più.» Ringhio, fulminandolo con lo sguardo.

«Cuginetta cara...»

«Stai zitto!»

Scoppia a ridere e accende la luce, avvicinandosi a me. Si siede sul letto e mi guarda, sorridendo.

«Scusami, torno serio. Come stai?» Chiede, abbracciandomi con delicatezza. Ricambio, appoggiando la testa sulla sua spalla.

«È una domanda di merda, te ne rendi conto?» Domando con un lieve bisbiglio.

«Me ne rendo conto, però questa domanda di merda mi serve per capire come stai, anche se probabilmente so già la risposta. Tra cugini si parla, no?» Ribatte, accarezzandomi i capelli, stando attento a non tirare dei nodi. «Non andare a scuola», afferma preoccupato.

«Claudio, domani ho un'interrogazione.»

«Ti scrivo la giustifica, allora. Quando ti ho portata a casa, avevi perso i sensi. Sei fragile e le pillole, che prendi alla mattina, non ti aiuteranno questa volta. Rimani a casa, ti prego.» Mi supplica, sciogliendo l'abbraccio. Mi guarda, trattenendo le lacrime, e cerca di mantenere il contatto visivo, che interrompo, guardando le mie braccia piene di botte e graffi.

«Che ore sono?»

«Sono le quattro di mattina, la tua sveglia suonerà fra un'ora e quaranta minuti. È sabato.»

«Capisco», sospiro. 

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