Capitolo 4.
[...] La campanella suona d'improvviso, risvegliandomi dal mio stato di trance. Guardo un'ultima volta il mio diario, su cui ho segnato i compiti per la prossima settimana.
"Scrivere un tema a coppie".
Vorrei urlare in questo istante, rendendomi conto che sarò costretta a lavorare con uno di loro. Perché quella professoressa deve avere delle idee così schifose? A chi cazzo viene in mente di far scrivere un tema in due? Le sto sul cazzo, questo è poco, ma sicuro.
Alzo lo sguardo sbuffando, notando un volto sorridente proprio davanti a me.
«No», esordisco, capendo le sue intenzioni.
«Ma dai! Ci divertiremo! Io e te siamo favolose assieme!» Regia, ma è del mestiere questa?
Tiro fuori il telefono, controllando l'ora, chiedendomi ancora che ho fatto di male.
Ora avremo l'ora buca, perché il professore di fisica è assente. Beata me.
«Facciamo il lavoro assieme?»
«No»
«Quindi lo farai con un'altra persona?» Chiede, corrugando la fronte, dipingendo un'elegante espressione di curiosità.
Sbuffo, capendo che ha ragione, lasciando cadere la mia testa sul banco. Ho dannatamente sonno. Chiudo gli occhi e regolo il mio respiro, rallentando il ritmo, abbandonando il mio corpo. Mi sento incredibilmente leggera... Quanto è bello stare così? Da sola. In silenzio.
«È arrivato il supplente», mi avvisa. Ora credo si sia seduta davanti a me.
Sorrido. Mi ha reso i giorni a scuola più interessanti: sono sempre pronta a sentire un'altra delle sue stronzate, una sua lamentela, un suo sfogo... Passo troppo tempo con lei. Una cosa che ho notato è che non le piace parlare di persona dei suoi problemi, bensì preferisce la chat di WhatsApp. Forse non è così spontanea come credevo.
Il docente chiama i nostri nomi, usando un tono di voce molto basso e soporifero. Già non lo sopporto.
«Diamante Alejandra Montenegro», esclama. Alzo la testa e la mano, forzando un cordiale sorriso.
«Alejandra, presente.»
«Bel nome, mia figlia si chiama Alessandra»
E a me dovrebbe interessare?
Sorrido ancora e torno alla posizione precedente.
«Vincenzo Mutinelli.»
Davvero è subito dopo di me nell'elenco? Lo guardo ridacchiando sottovoce. Mutinelli. Che cognome di merda.
Chiama altri e non presto molta attenzione, finché arriva a un nome, nonché l'ultimo dell'elenco, che sta iniziando a diventare usuale nella mia testa: Giorgia Zorzi.
«Bene ragazzi, ora fate quello che volete, io vado a prendermi un caffè. Mi raccomando, non alzate troppo la voce; per il resto siete liberi di sfruttare l'ora come meglio credete. Io sono un professore di arte, se vi serve un ripasso, sono qui.» Okay, sto cambiando idea su di lui.
Ora che lo guardo è molto giovane, si sarà appena laureato. Sì, gli do massimo ventisette anni. È inesperto, ecco perché ci dà carta bianca su cosa fare durante quest'ora. Oppure è prettamente conscio di cosa sta facendo? Forse è una via di mezzo: sa quello che fa, ma non sa quello che fa.
Lo capisco. Questa classe di deficienti è praticamente ingestibile. Tutte vite perfette; solo io e Giorgia siamo quelle in posizione di svantaggio.
Si volta verso di me, guardandomi sorridente, scaldando il mio cuore. Di nuovo quelle finestre calde che scavano la mia anima, piegandomi come una schiava al cospetto della sua regina. Sei così speciale da rendermi insignificante quando ti sto vicina. Guardati, sei maledettamente bellissima. Fai battere all'impazzata il mio cuore.
«Allora? Con chi fai il tema?» Ma non si scorda proprio di nulla? Sì, del preservativo. Okay no, era brutta.
Sbuffo e la indico, mentre riprendo il telefono in mano.
Un messaggio da una chat.
Magari è mia madre. Accedo e scopro tristemente, che a scrivermi è stato Gabriele.
"Venerdì, stazione di Ala, ore 21:00, non voglio ritardi."
Merda! Problemi per la consegna posticipata. Mi massacreranno di botte, se non vengo all'incontro. Devo avere fiducia in Greta, sperando che riesca ad addolcire Gabriele. Quel bastardo non si fa scrupoli a ordinare ai due scagnozzi di prendermi a calci e ridurmi in fin di vita. Devo uscire da questo giro di merda. Devo solo convincere Giorgia a entrarci e poi sarò libera. Ma cosa cazzo sto pensando?! Non posso farle questo. No, non lei. Vincenzo? Lo guardo mentre ride con Riccardo, il nostro compagno di classe, e mi sento stupida solo a pensare di poterlo vendere in questa merda. Massimo è sacrificabile, no?
Alla fine che importa a loro di me? Loro sono egoisti, pensano solo a sé stessi, perché non dovrei farlo anch'io?
«Tutto bene, Ale?» Chiede d'improvviso Giorgia, attirando la mia attenzione.
«Cosa? Sì, tutto bene», rispondo, sorridendole dolce.
Stavo solamente pensando a chi sacrificare tra di voi, così da salvare me stessa. Stavo solamente pianificando una scusante perfetta per trascinarvi in questa merda e salvarmi la pelle, lasciandovi a marcire. Stavo solamente riflettendo su quanto siete imperfetti, umani, egoisti, bastardi, infami; ma alla fine io sono identica a voi. Sto egoisticamente pensando a come distruggere voi, per non distruggere me stessa. La verità è che ho dannatamente paura di dirti cosa mi passa per la testa e ho paura della tua reazione; ho paura di perdere un'amica.
«Sei sicura? Sembravi piuttosto cupa...» Attacca lei, mettendomi all'angolo.
«Mi spieghi perché cazzo dovrebbe interessarti?» Ribatto, alzando il tono, fulminandola con lo sguardo. Mi rendo conto di averla appena allontanata bruscamente da me.
«Scusa, non avrei dovuto insistere. Problemi tuoi.» Sussurra, guardando il pavimento, con un'espressione amaramente dipinta di tristezza.
«No, sono io a dovermi scusare. Sei solo una persona che si affeziona facilmente, che vuole aiutare, mentre io sono riservata e diffidente.»
«Facciamo inglese?» Domanda con un sorriso stampato in faccia.
«Passo»
«Okay, allora faccio matematica. Posso mettermi qua?»
«Fai pure», sbuffo, guardandola sistemarsi e sorridere contenta.
«Possiamo unirci alle due secchie della classe?» Mi volto a guardare male Vincenzo.
«Visto che siamo le secchie, non vi rovineremo la reputazione?» Controbatte Giorgia, mentre sorride cordialmente. Velenosa e coccolosa, mi piace.
«Finché non parlate dei tipi che vi scopate tutte le sere, come fa Virginia, penso che non farete altro che aumentarla», afferma Riccardo, sistemandosi gli occhiali. Lo guardo a lungo, concentrandomi su quelle palpebre che coprono i suoi occhi.
«Fate come volete, basta che non scassiate troppo la minchia», borbotto, appoggiandomi al banco.
Guardo fuori dalla finestra, scorgendo delle rondini svolazzare nel cielo. Che belle... Almeno loro non devono sopportare il peso di tutto questo: la scuola, la vita, il giro di amici sbagliato, la sfiga...
No, loro sono libere. Talmente belle, che guardarle ti viene naturale e lo fai volentieri, quasi incantato dalle loro esibizioni.
«Fra', guarda questa!»
«Cazzo, che curve», risponde Vincenzo.
«E qui? Mi piacciono troppo i suoi fianchi!»
«Ehi, ma qua è troppo magra... No, fra', è troppo magra.»
«Hai ragione, però, tutto sommato, di faccia non è male», commenta Riccardo.
Sbuffo, fulminandoli con lo sguardo. Chi cazzo si credono di essere per criticare le forme di una ragazza? Sono solo dei deficienti come gli altri, paragonabili a quella che si dice essere una puttana di Virginia: piccoli, insignificanti, malati sado-deficienti di classe superiore. La classe peggiore di questa categoria di persone: giudicano, criticano, biasimano, commentano e annotano.
Nemmeno cinque minuti assieme a loro e vorrei far implodere il loro cervello mal funzionante. Vincenzo intercetta la mia occhiata omicida e sorride confuso. Incurvo a mia volta le labbra e socchiudo gli occhi, incontrando il suo sguardo dalle sfumature azzurre. Non hanno lo stesso effetto di quelli di Massimo.
Parlando di quel diavolo, è una settimana e mezzo che non lo sento. Mi ha scritto qualche volta su Instagram, ma non si fa più vedere. Chissà se ha perso interesse dopo quel bacio... Non so chi dei due abbia baciato chi, so che è successo, che sia stato involontario o meno. Eppure credo sia stato lui a intensificare il bacio. Mi sento arrossire al pensiero, avevo baciato Massimo. Eppure sembra un sogno distante; come le immagini d'autunno in un mese di novembre, sfocate e scure, cariche di tensione e malinconie; delle storie sulla punta della lingua, che forse verranno raccontate a persone che non ascolteranno, ma sentiranno, come il canto di una sirena.
E le tue labbra mi tornano a mente, quando guardo le foglie rossastre degli alberi, più precisamente le foglie di betulla. E mi tornano in mente le rondini nello stomaco, non le farfalle, uno stormo di rondini, che vorticavano nella mia testa, fino a toccare il mio torace. Perché come una scossa elettrica, mi fece risentire viva, tu, che con gli occhi come pezzi di paradiso rubati, mi guardi come una delle creature più belle sulla terra. E sento solo il cuore, quando ci ripenso, che palpita, che mi fa male e bene, non mi capisco mai.
Lo so che non sia giusto nei confronti di Marica, anche se non c'è più, so che ti amava più di tutti e tu l'amavi. È sbagliato volerti baciare di nuovo, quando tu eri suo. Come fai a non sentire la sua presenza? Quando mi hai baciata, non hai sentito la sua risata? Io sì.
Giorgia davanti a me legge il testo d'inglese, dopo aver finito di fare matematica, bella come le foglie che cadono dagli alberi e volano nell'aria, come l'ultimo respiro di una persona sofferente. Più la sento vicina a me, più mi sento viva.
«Ehi, a che pensi?», chiede lei sorridendo.
«A nulla, Gio, a che punto sei? Poi mi fai copiare, vero?», le rispondo, accennando un sorriso.
Le sue iridi ambrate sorridono, come gli occhi di un bambino s'illuminano quando ride, innocenti e dolci. Chiudo la sua immagine in uno scrigno mentale vetrato, per conservarla dentro di me a lungo andare, per non dimenticare mai i tuoi sorrisi. Anche se le nostre strade non proseguiranno insieme, sono certa che il tuo volto, quell'espressione di gioia, rimarrà impressa nella mia mente per molto tempo. Sarà il mio paragone di felicità negli altri, per cui non riuscirò a fidarmi di altri sorrisi se non il tuo.
«Ho quasi finito il testo, devo rispondere alle domande di comprensione e te le passo, ok?», risponde, tornando a leggere. La guardo e tiro un ghigno, ma svanisce nell'istante in cui nasce.
Non è un mondo che mi merito, ma solo l'illusione che mi creo, visto che non ho futuro. Le persone rideranno di me e diranno che non riesco nemmeno a uscire da una piccola porta, come Coraline. Mi giudicheranno alla prima caduta, perché valgo poco e niente, perché sono una perdente. Nata nelle strade per rimanere nelle strade, non voglio cambiare la mia strada, non ce n'è bisogno. Sono fatta per questo, mi sta bene rimanere nel mio, non perché sono pigra, bensì per il milieu. Il positivismo aveva ragione su qualcosa, chi nasce in un contesto morirà nel suo contesto, che sia povero o ricco, ci morirà. Forse non c'entra nulla, ma lo penso davvero, perché pensare a un futuro diverso mi terrorizza. Mi terrorizza l'idea di staccarmi dalle mie certezze, perché nonostante tutto, io ci sto bene. Mi sento sicura. Sono sicura.
Il nodo in gola si fa sentire, trema in respiro, lo sguardo inizia a ballare tra le persone attorno a me. Sento freddo, inizio a sudare, perché dovrei pensare ad altro? Alla fine non importa, le riflessioni che incido sul diaro... Chi leggerà ciò che scrivo? Forse nessuno, ma spero che mamma lo trovi e sbirci, almeno mi fermerebbe dalla fuga. Non lo so... Non voglio fuggire da lei, la amo, c'è sempre stata per me, ma devo fuggire dal posto in cui sono cresciuta. A tutti i costi, voglio andarmene. La nonna sta a Roma, mi ospiterebbe. Ma da sola? Non c'è modo. L'aria inizia a mancarmi.
Tiro fuori una pasticca dallo zaino e la infilo nella tasca. Alzo la mano e chiedo di poter andare in bagno. Esco silenziosa, senza fare rumore e quasi corro in bagno. Sento il cuore accelerare, le lacrime bagnare agli occhi, lo sento arriva. Ingoio la pasticca, bevo l'acqua dal rubinetto, e mi chiudo nel cesso. Non mi trattengo più, lascio le lacrime scorrere.
Non è vero che mi sento sicura, detesto questo stile di vita. No, forse detesto la mia vita, odio me, odio il riflesso che vedo. Voglio andarmene. Va bene morire, basta smettere di provare tutto questo. Basta uscire da questo casino, basta non dover vedere Gabriele. Non voglio nemmeno vedere Mattia e Greta. Voglio rimanere nel mio letto, non uscire più, non respirare più. Preferirei non sentire il mio cuore battere, che rimanere ancora qua. Mi hanno tolto pure il canto, non ho sogni nel cassetto, ma pillole per l'insonnia. Ma resto ferma, di fronte a un treno merci che mi sta per travolgere. Non riesco a scappare, le gambe non si muovono, gli occhi puntati sul locomotore. Alla fine spero che mi travolga, che mi prenda in pieno.
Sono insoddisfatta della mia vita, ma non voglio cambiare. Non voglio vivere, ma ho paura di morire. Non ho il coraggio di Marica. Mi manchi come l'aria... Vorrei raggiungerti, sentirmi chiamata di nuovo Diamante, alla fine è un nome bello... Sono gli altri che me l'hanno fatto odiare, mamma me l'ha dato perché ero il suo gioiello. Non ci sei da un anno e qualche mese, ma la ferita brucia come se fosse successo ieri. Sei volata via, anche se con un cappio al collo. Come una farfalla bianca in un campo di grano d'estate, hai preso il tuo volo e mi manchi. Vorrei raggiungerti... Ma non ho la forza di volontà di combattere contro i miei demoni che mi obbligano a rimanere qua. Non posso abbandonare mamma... Non dopo papà.
Faccio un respiro profondo, forzo un sorriso. Non fa niente, sto bene, no? Ci sono cose più importanti, io valgo poco più di cinque lacrime. Mi sciacquo il volto, sorrido di nuovo allo specchio. I difetti risaltano, ma almeno sono magra, no? Alla fine, posso comunque essere passabile, nonostante la pelle pallida e le occhiaie profonde. Torno in aula, mi siedo di fronte a Giorgia che mi rivolge il suo solito sorriso dolce.
«Eccoti, ho finito», mi dice, passandomi i compiti d'inglese.
«Grazie, cosa farei senza di te?», la ringrazio, guardandola più a lungo del dovuto. Mi sento la testa leggera.
«Prego! Ma... stai bene, sì?», mi chiede d'improvviso.
«Eh? Come?», balbetto.
«Te l'ho chiesto due volte già... stai bene?», ripete.
«Sì, scusa, sono solo stanca.»
«Lo vedo... Dai ci vediamo domenica per fare il tema?»
«Come? Sì certo, dove?» domando, cercando di pronunciare bene le parole.
«A casa mia, ti va?»
«Va bene, sì, va bene», le rispondo. Poggio la testa sul banco e prendo sonno.
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