Capitolo 2.

Arrivo alla fermata del bus, fumando la mia sigaretta con calma, percependo la nicotina che lentamente faceva effetto sul mio cervello, sentendomi più leggera. Sistemo il cappuccio della felpa, notando le persone in distanza, e mi appoggio alla rete intrecciata del muretto della villetta oltre stante. Mi nascondo nella mia felpa, inspirando fumo, e alzo lo sguardo a guardare oltre quelle nuvole, che coprivano il cielo. 

Chi lo sa se lei è lassù a guardarmi e insultarmi urlando? "No! Diamante sei una cretina deficiente di merda!" Sì, me la immagino così: a gridare come una pazza a ogni mia scelta sbagliata. 

Marica, spero tu sia un meraviglioso angelo; che, nonostante il peccato, Dio ti abbia perdonata e accolta tra le sue braccia... Aspettami, giuro che sto per arrivare anch'io. Mi manchi così tanto... Mi ricordo ancora il tuo profumo preferito: "1881" di Cerruti. Ne mettevi sempre quintali, perché volevi che Massimo ti fermasse e ti dicesse di avere un buon profumo. Non l'ha mai fatto, ma tu non smettevi di sperarci. 

Ti ricordi i pomeriggi al McDonald's? Mangiavamo pure i tavoli!
Marica... Perché? Perché mi hai lasciata da sola? Hai promesso di fuggire con me... Forse tu intendevi questo con "fuggire". Magari hai fin da subito cercato di dirmi che volevi solamente morire... Che tutto andava di merda; che nessuno ti ascoltava... Scuoto la testa e mi appoggio alla rete. Non voglio ripensarci... No... Non voglio perderti pure mentalmente. Preferisco ricordarti felice. Perdonami.

«Ciao, moretta!» Esclama una voce, obbligandomi a smettere di pensare a Marica. Era Greta, con il suo solito sorriso e gli occhi vivaci. 

«Ciao, Greta», dico, buttando il mozzicone a terra. 

«Com'è andata a scuola?» Chiede con voce stridula, scrutandomi curiosa.

«Bene, ho iniziato a parlare con una delle mie compagne di classe», spiego, accennando un sorriso. La guardo incupirsi e spegnere la sua gioia. Ho detto qualcosa di sbagliato?

«Ale stai attenta, che alle persone non fregherà mai un cazzo di noi; siamo ragazze di strada, che hanno a che fare con la droga tutti i giorni. Pensi che a qualcuno di loro importi che tua madre è gravemente malata? Piccola sciocchina, sei così ingenua che chiunque si approfitterebbe di te senza che te ne accorga. Ti voglio bene, Ale. Dammi retta: non ti fidare», afferma, abbracciandomi forte. Aveva ragione; a loro non sarebbe fregato un cazzo. Per loro sono solo un elemento sacrificabile. 

Perché non ci ho pensato prima? Era tutto uno stratagemma. Sono solo un giochino nuovo. Si stuferanno di me e mi lasceranno da sola nel mio fango, con la mano dannatamente protesa, in attesa di un aiuto.

«Sì, hai ragione...» Però quegli occhi non potevano mentire. Almeno che non sia come dice Greta; sono degli egoisti. Noi siamo le uniche di cui possiamo fidarci.

La guardo e mi concentro sui capelli castani, che incorniciano il volto allungato, e le arrivano alle spalle. La pelle caramello s'intona con il colorito della capigliatura. È parecchio bella, quasi assimilabile a una creatura celeste... La invidio. Lei ha tutto: genitori ricchi, tanti amici, niente stress, sbattimento più totale e nessun problema sociale. Dalla sua camera esce un ragazzo diverso ogni mattina, però nessuno le parla male alle spalle. È il contrario di Marica. Già... Non mi ricordo come ho conosciuto Greta, so solo che c'è sempre stata dopo che Marica se n'è andata.

«È tua questa sigaretta?» Chiede una voce profonda ed estremamente calda, richiamandomi alla realtà. Due occhi azzurri puntano in profondità, scavando nella mia anima, trapelata di ricordi e tristezza esistenziale. Due scaglie di cielo rubate, forse all'Empireo, che mi guardano con serietà.

«Sì, è mia. Perché?» Domando, deglutendo nervosa. Mi sento scoperta, spoglia, denudata, esposta... Che strana magia mi sta facendo?
«Potresti raccogliere il mozzicone?»

«Chi me lo chiede?» Ribatto, alzando nuovamente le mie barriere, assumendo l'aria da strafottente.

«Massimo. Massimo Bertolini», scandisce le parole attentamente, scoccando una freccia dritta al mio cuore. Mi ero dimenticata il volto del ragazzo di Marica? Non era lui... O forse sono io ad averlo scordato. Sento il mio cuore appesantirsi, mentre lo guardo sorridere amaro e allontanarsi. L'ho offeso? Ma non ho detto nulla! 

Mi dispiace non essermi ricordata di te... Non avresti comunque compreso; nessuno capisce una come me.

***

Salgo sul mio bus, passo il tesserino e cerco con lo sguardo un posto libero. Dannazione! Nessun posto da due a disposizione; vorrà dire che mi andrò a sedere sulle scale. Vado fino ai gradini posti al centro del mezzo, dall'interno grigio e blu.

«Non penserai mica che ti lascerò sedere lì?» Chiede un ragazzo dai capelli legati in un codino. Evito il contatto visivo, osservando la sua maglietta bianca e il giubbotto di jeans. Alzo di nuovo lo sguardo, fermandomi alla punta del naso e le labbra chiare, che si mimetizzano con la pelle pallida. Mi assomiglia, però solo un poco. Poi compio l'errore più grande della mia vita: lo guardo negli occhi. Di nuovo quei pezzi di Paradiso rubati...

«Vuoi stare lì seduta per tutto il tempo?» Mi incita Massimo, sorridendo divertito dalla mia titubanza. Lo guardo incerta. Ho paura... Perché mi vuole seduta vicino a lui?
Fatto sta che mi alzo comunque, venendo adocchiata da qualche ragazza nei sedili retrostanti, e mi siedo su metà sedile.

Sorride ulteriormente, beccandosi una delle mie occhiatacce omicide. Che ha da sorridere?
Mi sento a disagio, voglio allontanarmi... Posso alzarmi e sedermi nuovamente sui gradini? Ti prego, lasciami andare via, brutto parasaurolofo del cazzo. Che vuoi da me?
«Non ti mangio, tranquilla», afferma sull'orlo di una risata. 

Voglio cercare su Google: "come dire a una persona che ti senti a disagio?" Come gli faccio capire che non voglio stare qui, al suo fianco.

«Puoi smetterla di essere così zitta? Mi fai ridere», esclama, irritandomi profondamente, scoppiando in un riso fastidioso. Posso recidere le corde vocali a questo individuo senza cervello? O forse è lui che mi vede come quella stupida? Magari tutto è intrecciato da diversi punti di vista... Forse una di quelle persone ci vede come una coppia; mentre un altro come due ex; un altro ancora come due amici ai primi stadi o un amore appena sbocciato. Su questo bus ci sono all'incirca altre trenta versioni differenti.

«Cosa c'è, Massimo?» Chiedo scocciata, guardandolo negli occhi. Lo sento di nuovo trafiggere la mia anima, rendendomi nervosa e insicura. Che contraddizione storica... Prima faccio la leonessa e poi, appena incontro quei frammenti celesti, la preda di fronte al predatore. Sento una scarica elettrica lungo la spina dorsale, percependo una sensazione di peso sullo stomaco.
Lui sorride, come se avesse capito il mio leggero disagio di fronte lui. Che coglione, sorride sempre. Che ha? Una paralisi facciale?

Inspiro col naso, riconoscendo il profumo maschile.
«Acqua di Gio?»

«Cosa? Ah... Sì, mi fa sentire potente. Sai... La morte di Marica mi ha stroncato, però ora, a distanza di un anno, posso dire che sono felice di averla avuta al mio fianco. Mi sono perdonato le mie colpe...»

«Quali colpe?!» Lo interrompo, alzando il tono. Torno alla realtà e lo fisso io, con un'intensità illegale. Che cazzo le hai fatto figlio di puttana? Sei stato una causa del suo suicidio? Parla, bastardo di un cane! Se le hai torto un solo capello ti ammazzo qui e ora. Giuro su quanto era vero il mio amore per lei, che ti ucciderò con le mie stesse mani.

«Be' sai... Io non sono mai stato il ragazzo che lei voleva. Lei voleva l'avventura: una fuga in vecchio stile. A me non dispiaceva stare qui, inoltre io volevo studiare all'università di scienze cognitive di Rovereto. L'anno scorso ero all'ultimo anno di scienze umane e cercavo di aiutarla in ogni modo. Speravo di riuscire a convincerla di aprirsi con me...»

«Ma non l'ha fatto...» Abbasso le armi e mi appoggio con la schiena al sedile, sospirando. «Non l'ha fatto e non l'avrebbe mai fatto. Era così, non parlava dei suoi problemi... Non mostrava gli scheletri nell'armadio nemmeno a me», sussurro con il fiato spezzato. Massimo mi passa il braccio attorno alle spalle e mi stringe al suo petto, nascondendomi. Si ricorda della mia paura di mostrare le mie fragilità... 

Mi bacia la fronte con tenerezza e mi accarezza la schiena. Mi sento stranamente al sicuro in quel breve istante, prima di ritrarmi dal contatto. È troppo. Mi sistemo seduta rigidamente al suo fianco. Di nuovo quella sensazione di disagio e insicurezza... Non voglio essere abbracciata. Odio il contatto fisico con altri, che non siano Greta o mia mamma. 

«Così per sapere: da quando fumi? L'ultima volta che siamo stati assieme, dicevi di odiare il fumo e che non avresti mai iniziato», dice con tono interrogativo, volgendomi uno sguardo a me nemico. Quegli occhi mi costringono a dire la verità. Li odio.

«Potrai non credermi, però questa merda mi ha davvero aiutata. Lo so che sembra una grande cazzata, perché uccide e tanto altro; ma il fumo mi ha dato una mano a superare il lutto più in fretta. Piuttosto, da quando sei un ambientalista?» Chiedo, scagliando una frecciatina verso i cento punti. 

Fa una smorfia e mi guarda addolorato. Quello sguardo mi rende incredibilmente triste. Ho fatto centro, ma a quale costo? L'ho ferito. Però non ci sto male per questo, bensì perché conosco già la risposta: Marica. Lui l'ha amata come un marinaio ama la luce del faro durante una tempesta.

«Ho iniziato a smettere quando ho saputo del suo funerale. Quando mi hai chiamato quel giorno non riuscivo a credere... Non volevo crederci. Lei era speciale. L'unica cosa bella che mi fosse mai capitata. Era così vera e unica, che nessuno la poteva imitare. Hai presente quando copi un quadro di Monet? Se qualcuno l'avesse plagiata, avrebbe fatto schifo. Quella ragazza era tutto per me. Non ero disposto a perderla, ma quando mi hai chiamato e ti ho sentito pronunciare quelle parole con una voce tremante, come le foglie scosse dal vento forte, il mondo mi è crollato addosso. Scusa se te ne parlo, ma devo parlarne con qualcuno e liberarmi di questo peso.» Gli sussurro di proseguire e appoggio la testa allo schienale.

«Dopo il funerale mi rifiutai di mangiare per giorni ed ero tentato a cercare di raggiungerla. Non puoi capire questo dolore, finché non perdi la persona che hai amato più di te stesso. Non è facile lasciare andare qualcosa che volevi a tutti costi proteggere, ma so che pure tu l'amavi a modo tuo. Lo vedevo dai tuoi occhi, verdi e luminosi, che provavi un sentimento forse più intenso del mio. Tu amavi lei più di quanto io l'abbia mai potuta amare in due anni. Ti invidiavo, perché tu hai sempre avuto la sua fiducia per prima e ti parlava di cose che io non scoprirò mai. Pure ora ti invidio, perché piangi ancora la sua morte e la senti ancora troppo vicina per lasciarla andare. Vorrei anch'io, un giorno, provare una sofferenza del genere. Un dolore che non passa nemmeno dopo un anno e due mesi. Una colpa verso te stessa che non svanirà mai. I tuoi occhi sono tristi... A me sono sempre piaciuti quando sembravano brillare di verde», asciuga la mia lacrima, mentre mi sorride. 

Il silenzio assordante dei miei pensieri mi fa capire che in questo istante io sto esattamente come ha detto lui.
Perché lui mi legge così facilmente? Nessuno capisce mai le mie emozioni, ma lui le ha azzeccate tutte, meno una: lui ci sta ancora male. Sono certa che non me lo dirà mai, per non sembrare più fragile di me. Oppure lui veramente ha voltato pagina... Magari Marica l'avrebbe preferito. Sicuramente non avrebbe sopportato di vederlo così sofferente a causa sua. Forse l'unica che dovrebbe lasciare andare sono io. 

Non voglio staccarmi da questa collana... Non voglio perdere il nostro ciondolo dell'amicizia. Mi ricordo di aver chiesto a tuo padre di consegnarlo assieme ai vestiti da farti indossare nella bara. L'avevo aiutato io e ho preso il tuo vestito preferito, Marica; quello con le maniche in pizzo e la gonna di velluto bianco. Ricordo che ti ho potuta vedere, prima che chiudessero la bara. Sono stati due minuti, ma il loro valore era paragonabile a un'eternità. Non smettevo di piangere. Poi ti ho accompagnata fino al cimitero e sono rimasta lì, ad aspettare che riaprissi la bara e uscissi, gridando: "Scherzetto!"

Per tutto il tempo ho sperato che tutto questo fosse solo un brutto sogno, uno scherzo di cattivo gusto.

***

«Devo scendere» affermo, notando di essere arrivata alla mia fermata.
Mi saluta, per poi tornare a fissare il nulla, con un sguardo perso. Non l'ha ancora lasciata andare.

Cerco di non pensarci e scendo, incamminandomi verso casa. Mi aspettano all'incirca settecento metri prima di arrivare alla località I Mulini di Chizzola, una frazione di Ala, trovantesi a sudest del Trentino. Solitamente scendo a Santa Cecilia, perché sono convinta di metterci di meno. In realtà, non cambia nulla che io scenda a Chizzola, vicino all'azienda vinicola o vicino alla casa di Marica. Penso che io lo faccia solo per abitudine, per sentirla più vicina a me.

Ci passo davanti, la guardo e sorrido. Me la ricordo ancora quando finiva prima di me e mi aspettava affacciata alla finestra del secondo piano. Non saprei descriverla. Ecco, il più grande problema per me, se un giorno volessi mai scrivere un libro che, sono le descrizioni. A me non viene da fissare una cosa e descriverla a perfezione, rappresentando ogni sua sfaccettatura e angolatura. No, penso che lavorerei più sul protagonista e i suoi sentimenti. Trovo che in un buon libro non ci debba essere per forza una quantità esatta di descrizioni. Ai lettori non interessa molto sapere com'era una cosa, a meno che questa sia essenziale per la storia, come la casa di Marica. 

Ebbene nella villetta prevalgono il bianco e il grigio, come il padrone: un vecchio scorbutico, che sa solo giudicare e urlare. Penso che verso di lui riserverò la gran parte del mio astio. Non ha mai dato ascolto alla sua secondogenita, perché era triste per la perdita del figlio: Lorenzo.
La famiglia Ugolini era stata segnata dalla perdita del primogenito due anni prima del suicidio di Marica. Un incidente in moto, che pose fine alla vita del ragazzo a soli diciannove anni.

***

Entro in casa togliendomi le scarpe e buttando lo zaino a terra.

«Mamma, sono tornata!» Grido dirigendomi scalza fino alla cucina, passando dal piccolo corridoio. 

Non possiamo permetterci un appartamento più grande, perché stiamo ancora cercando di uscire dai debiti che ci ha lasciato mio padre, prima di scappare a Madrid con la sua amante. Fantastico, no? 

Mio padre è nella mia lista di possibili omicidi. Ti ringrazio tanto papà, ma preferisco vederti in una bara, piuttosto di avere a che fare con te. È una questione personale, quindi puoi pure offenderti e rattristarti. Non ho bisogno di un bastardo da due soldi come te. Posso farcela da sola, senza i tuoi dannati scherzi in spagnolo. Perché non te ne sei andato prima? Chi ti ha mai chiesto di rimanere qui? Io e mamma ce la faremo, arriveremo in alto e la porterò su io.

«Diamante! Vieni qui bambina mia», dice, mentre mi viene incontro con le braccia aperte.
Il sorriso illumina il suo volto e mi regala la visione di una donna paffuta, sulla trentina e i capelli corti. La abbraccio, piegandomi su me stessa, per arrivare alla sua altezza. Le tremano le mani e si appoggia leggermente di peso a me.

«Mamma, come stai? Sei andata dal medico?» Chiedo, allarmandomi, però i suoi occhi verdi e grandi mi rassicurano. Ammetto di aver paura di perderla, perché è mia madre e lo trovo normale. È naturale temere per la salute delle persone a cui tieni.

«Non sono andata, oggi non ho proprio avuto tempo. Ho lavorato con Nicole alla cassa per tutto il mattino. Ho visto la mamma di Marica, dice che sta per divorziare da Bruno. Dopo aver perso entrambi i suoi figli, non si sente più al sicuro in quella casa. Dice di vedere il fantasma di Marica puntualmente a mezzanotte. Quella è uscita di testa, te lo dico io! Ha perso il figlio per caso, ma la figlia poteva salvarla; però era troppo occupata a piangere il figlio», racconta dura.

Abbasso lo sguardo, togliendo il finto sorriso e scoppio a piangere.
«È tutta colpa mia...»

«Ma che dici, mi niña? Tu sei stata l'unica a porgerle una mano. Non è assolutamente colpa tua se lei non ha sopportato questo dolore. Ha deciso di dimostrare ai suoi genitori, che pure lei aveva un limite. Che ti avesse conosciuta o meno, lei l'avrebbe fatto comunque. Ne aveva bisogno e sono certa che si trova in un posto migliore. Era un vero angelo...» La stringo a me, singhiozzando.

Regola numero uno: mai nominare Marica.

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