6. È complicato

Ho sempre avuto l'impressione che il primo giorno dell'anno fosse sempre grigio e piatto, sospeso in una calma fredda destinata a dipanarsi con il rincorrersi delle ore. Tutto appare fermo e cristallizzato, come se il mondo sia in attesa di ciò che avverrà nei prossimi mesi.

Perlomeno, oggi sembra rispondere pienamente a questa descrizione. La giornata si è svolta con una calma piatta e snervante, resa ancora più tesa dal congedo con i miei genitori, ancora più rapido e formale dell'ultima volta. Ma, soprattutto, silenzioso. È questo a farmi più male, durante il tragitto che mi porta da casa alla stazione, una sorta di orrendo vuoto fatto solo di pause imbarazzate e frasi di circostanza. Come se, alla fine, tra noi non ci fosse più nulla da dire. Io ho scelto la mia strada, e loro sono rimasti bloccati nella loro.

In questi quasi trent'anni di vita, so di avergli dato numerose delusioni. In quanto figlia unica, avevano grandi aspettative su di me e io, egoista, non ne ho soddisfatta nemmeno una. Non sono mai stata una studentessa brillante, tolti gli ultimi anni di università, e non ho mai posseduto chissà quale talento al di fuori di qualunque cosa mi riportasse tra le mura di un maneggio. Qualcosa di talmente assurdo e distante che trasformarlo in un lavoro è apparso fin da subito una follia suicida.

Il nonno era così. Ha trascorso un'intera vita insieme ai cavalli, e il prezzo che ha dovuto pagare è stato altissimo. Sapevo che aveva svariate placche di titanio in giro per il corpo a seguito di numerose cadute, e più di una volta si era ritrovato in seri problemi dal punto di vista economico, attirandosi addosso le ire dell'intera famiglia. E poi c'era lo stile di vita in sé, duro e pieno di imprevisti, di stress, di ansie per un allievo infortunato o le condizioni di salute di un determinato cavallo. I cavalli andavano accuditi tutti i giorni, che fosse Natale, Pasqua o l'anniversario del tuo matrimonio. E magari proprio quel giorno potevi trovarti a dover gestire una colica, o le mansioni di un dipendente in ferie. Vivere tra i cavalli significava essere perennemente affaticati, sporchi e, spesso, doloranti. Il nonno trascorreva intere giornate in scuderia, e spesso non si sapeva a che ora sarebbe rincasato. Molte volte, lui e la nonna litigavano di brutto per questo motivo. Mia madre ricordava con rammarico di quanto suo padre fosse stato assente negli anni più delicati della sua vita, magari perché si trovava a un concorso internazionale, o doveva assistere alla nascita di qualche puledro. Lei e la nonna sono cresciute come due donne sole, tutto per colpa di quei maledetti cavalli. Che, tra le altre cose, per poco non lo hanno ammazzato un paio di volte.

Ma, se proprio devo ricordare il nonno, l'immagine più vivida che mi ritorna nella memoria è proprio il suo sorriso. In tutti questi anni, non ricordo di averlo mai visto davvero triste. Quella vita tanto dura era per lui il suo ossigeno. Stare lontano dalla scuderia lo avrebbe inevitabilmente ucciso. E così è stato, quando le forze hanno deciso di abbandonarlo definitivamente. Era come se avesse capito che il suo compito, lì, era finito.

Quel sorriso è stato in qualche modo la mia vita. Mi ha insegnato ad amare la fame e il freddo, a dare un significato al duro lavoro e ai sacrifici che spesso bisognava affrontare per raggiungere un obiettivo concreto. Mi ha dato una disciplina che nessuno, nemmeno il più rigido dei miei insegnanti a scuola, era riuscito a inculcarmi. Avevo preso ad apprezzare le mie mani sporche di terra, la mia pelle bruciata dal sole durante l'estate. Erano segni tangibili che ciò che stavo facendo mi stava portando in qualche modo nella direzione giusta.

Un sorriso che ai miei genitori faceva paura, soprattutto a mia madre, perché in qualche modo ricordava loro che la vera eredità di nonno Rudy si trovava ancora in circolazione, e non sarebbe stato facile estirparla.

Lo avevano capito nel momento in cui avevo deciso di partire per sempre, di costruirmi altrove ciò che sapevo non sarei stata in grado di coltivare restando lì, nella mia terra morta. E a quel punto si erano arresi, anche se dentro di loro sapevano che non mi avrebbero mai perdonata.

Mi avevano lasciato con un piccolo bonus mensile che mi avrebbe permesso di finire gli studi – ormai mi manca soltanto la tesi –, ma per il resto avrei dovuto cavarmela da sola. Sicuri che, prima o poi, tornerò da loro come il figliol prodigo del Vangelo, chiedendo perdono per aver miseramente fallito. Cosa che voglio evitare a ogni costo, e per questo so che non dovrò limitarmi a seguire le orme del nonno. Io dovrò fare molto, molto meglio.

Ecco perché, tanto per cominciare, il viaggio di ritorno me lo faccio seduta da sola nello scompartimento di un interregionale che ci impiegherà il doppio del tempo rispetto a un treno ad alta velocità per raggiungere Bologna. Non importa, ho sempre amato viaggiare in treno. Mi piace starmene seduta in silenzio, in compagnia solo dei miei pensieri mentre tutto scorre all'esterno. È anche uno dei rari momenti che ormai riesco a dedicare alla lettura, visto che nel mio frenetico quotidiano faccio spesso fatica a trovare la concentrazione giusta per godermi il piacere della carta stampata.

Proprio in questo momento, sono arrivata a un buon quarto del tascabile che ho acquistato alla libreria della stazione il giorno del mio arrivo, mentre aspettavo che i miei mi venissero a prendere. È un thriller scandinavo, uno di quelli che sanno di crepuscolo e brina, e parla di una scrittrice che torna nella sua città di origine dopo vent'anni per poi scoprire che lì tutti la credono morta in un incidente. La storia mi aveva attratta sin dal primo momento, e ora lo sto divorando pagina dopo pagina, complice il lungo viaggio. Forse perché, in qualche modo, in quell'anima sperduta all'interno delle pagine del romanzo ho visto specchiarsi debolmente la mia.

Ho sentito Fede, appena partita. Si è svegliato verso le dieci, e mi ha assicurato che ieri sera è andato tutto bene. Senza scendere troppo nei dettagli, le mie troppe domande finiscono puntualmente per indispettirlo. A quanto pare, è sobrio e sta bene, mi ama ancora e verrà a prendermi in stazione quando arriverò. Il che va benissimo.

Di Sofia invece non c'è traccia. Immagino che stia ancora dormendo, quando fanno serata di solito non riesce a riprendere conoscenza prima di mezzogiorno. Da una parte, meglio: comincio ad affezionarmi a tutto questo silenzio, in cui posso finalmente ascoltarmi senza interferenze.

In un momento di noia, sono entrata su Instagram. Ho trovato un messaggio da parte di Ethan, arrivato poco dopo la mezzanotte per augurarmi un felice anno nuovo. Gli ho risposto rapida e formale, anche se dentro di me quel piccolo e insignificante gesto mi ha fatto immensamente piacere. In fondo, come mi dovrei sentire, verso una persona che per me è stata il mio tutto, e con cui non ho parlato per quasi dieci anni?

Non so di preciso se e quando io ed Ethan abbiamo realmente litigato, ma sono consapevole che a un certo punto ci siamo allontanati, ed è stata una mia decisione. Eravamo al penultimo anno delle superiori, ed eravamo inseparabili dalla seconda media. Poi, a un certo punto, l'amicizia si è rivelata altro, in un tempo in cui Ethan era ben lungi dal diventare un attore famoso. Il problema era che questo sentimento non doveva esserci, ed era solo ed esclusivamente da parte mia.

Allora ero giovane, e maledettamente ingenua, ero convinta di vivere in una fiaba in cui prima o poi l'amore sarebbe sbocciato, che era destino che due persone così simili finissero inequivocabilmente per mettersi insieme.

Mi sono svegliata, per fortuna, nel momento in cui Ethan si è messo con la mia amica Sara. Sara era a scuola con noi sin dalle medie, anzi, se vogliamo proprio dirla tutta era la mia compagna di banco dall'anno prima che Ethan venisse trasferito nella nostra classe. Per mesi Sara ha ascoltato i miei voli pindarici e più di una volta asciugato le mie lacrime per i sentimenti non corrisposti per Ethan, e allo stesso tempo loro due si frequentavano e si conoscevano. Quando me lo dissero, al diciottesimo di un nostro compagno di classe, stavano ormai insieme da due mesi. Per me fu uno shock.

Non avrei dovuto prendermela, era crudele e insensato. Io non piacevo a Ethan, a Ethan piaceva Sara, e a Sara piaceva Ethan. Io con loro non c'entravo nulla, e non gli dovevo nulla, né loro a me. Tranne il fatto che mi fidavo di loro, e per questo lo vissi come un tradimento mostruoso. Ci stetti male, fu una tortura infernale, e a quel punto capii che la cosa migliore era allontanarmi senza fare troppo rumore. Smisi di frequentare non solo Ethan e Sara, ma anche la nostra compagnia. Mi isolai volontariamente, trovando rifugio in maneggio – per fortuna, all'epoca Ethan aveva smesso di montare da un pezzo – e soffocai la frustrazione impegnandomi al massimo in sella.

Se gli esseri umani erano egoisti e superficiali, i cavalli non mi avrebbero mai tradita. Correvano su un'altra lunghezza d'onda, e all'epoca avevo bisogno di investire il mio tempo con creature del genere. Avevo bisogno di affetto, di comprensione, di qualunque sentimento credevo appartenesse all'umanità. In qualche modo, da quel giorno trovai molto difficile fidarmi di nuovo delle persone.

Lo so, non ho mai avuto particolare fortuna con le amiche. Ci sto pensando proprio adesso, mentre fisso con aria instupidita le foto della festa di ieri sera postate su Instagram da Sofia. Non voglio ammetterlo, perché la vergogna mi brucia dentro, ma in qualche modo il mio subconscio mi sta mettendo in guardia da uno schema che già conosco, e che sta rischiando di ripetersi ancora una volta. E questo non fa che alimentare la mia rabbia, perché non capisco il motivo per cui attiro ogni volta persone del genere, così problematiche e allo stesso tempo così sciatte. Mi feriranno, questo lo so, mi feriranno entrambi e sarà terribile, ma ancora non voglio credere che saranno il mio fidanzato e la mia migliore amica i prossimi che mi faranno più male.

Chiudo gli occhi, massaggiandomi le tempie. Mi rendo conto solo ora che, in tutti questi anni, il mio unico vero faro sono state Vittoria e Cornelia, le sole persone con cui non abbia mai avuto un vero e proprio litigio e, per quanto fossero distanti dal mio mondo fatto di fieno e polvere, hanno sempre trovato un angolo del loro cuore sempre pronto ad accogliermi. Rivederle ieri è stato per me un dono, e già avverto la loro mancanza. Uno può possedere tutte le ricchezze del mondo, ma senza un vero amico al proprio fianco la sua vita è arida come una distesa di sterpi.

Improvvisamente, mi scopro ad avere gli occhi umidi. Due lacrime gemelle mi scendono lungo le guance, e nascondo il volto tra le mani per non farmi sorprendere in preda a quell'attacco di debolezza. Devo essere forte, non posso permettermi di mollare adesso. Anche se Vi e Cornelia sono rimaste indietro, quel posto ormai non mi appartiene più. Tutto ciò che mi teneva ancorata laggiù è svanito, o è stato reciso. Non c'è più posto per me, devo andare avanti. Un'esule senza radici, con una valigia piena di sogni e un cuore pesante come un macigno.

"Quanto sei melodrammatica, però!" chioccia una voce nella mia testa, che mi ricorda lontanamente quella di Sofia.

Ha ragione, devo smetterla. Fisso il paesaggio scorrere accanto a me, dove piccoli borghi medievali si arrampicano lungo le curve dolci delle colline, tra i vigneti e i calanchi. Tra poco inizieranno le gallerie, e sarò più vicina a casa.

Riprendo il cellulare, e decido di fare qualcosa che posso concedermi ora e mai più. Scorro il profilo Instagram di Ethan. L'ha aperto tre anni fa, ed è dedicato soprattutto alla sua carriera di attore. Lo vedo ritratto più volte nelle foto di scena, con la divisa da soldato britannico, oppure nei vari red carpet delle première in giro per l'Europa. Parla veramente poco della sua relazione con Nora, la vedo comparire solo in uno degli ultimi post, quando sono andati insieme a Venezia per la mostra del cinema. Ogni immagine è per me come una pugnalata, perché più vado avanti più mi rendo conto di quanto in realtà mi sia mancato, e che in tutti questi anni il posto che avevo riservato a lui nel mio cuore è diventato un vuoto che non voglio e non posso affrontare.

Pensavo che la mia fosse solo una cotta adolescenziale, qualcosa destinato a curarsi dal solo nel corso del tempo, eppure ora mi rendo conto che probabilmente c'era dell'altro, quello che provavo per lui era davvero... amore?

Chiudo tutte le app e metto via il cellulare con un gesto secco della mano, ricacciando indietro nuove lacrime e imponendomi disciplina. Ho esagerato, lo sento, e quello che è avvenuto ieri sera non è stato altro che il frutto di un errore. Non avrei dovuto concedere tanta confidenza a Ethan, non con una situazione tanto delicata per entrambi. Avrei dovuto essere rigorosa come ho fatto in tutti questi anni, obbligandolo a mantenere le distanze. Eppure non l'ho fatto, illudendomi ancora una volta di essere abbastanza forte e matura per riuscire a sostenere una cosa del genere.

"Stupida, stupida, stupida" grido dentro di me, e in questo momento ho voglia di spaccare tutto.

Forse farei meglio a bloccare Ethan e obbligarlo a uscire dalla mia vita una volta per tutte, ma mi rendo conto che in questo momento un gesto del genere sarebbe quanto di più infantile possa estrarre dal mio cilindro di reazioni incontrollate. Devo mantenere la calma e allontanarmi di nuovo, lentamente, senza far rumore. Ora come ora, non posso permettermi un altro calvario.

Metto via il cellulare e cerco di concentrarmi ancora una volta nella lettura, nella speranza di mettere a tacere il rimuginare continuo dei miei pensieri. Passano alcuni minuti, e sono ancora ferma sulla stessa frase; quanto mi basta a capire che per oggi il mio livello di concentrazione ha già dato il massimo.

Rassegnata, estraggo gli auricolari e li collego al telefono, aprendo YouTube. Le note della mia playlist predefinita, frutto di un incostante errare tra i meandri più schizofrenici della discografia, mi concedono finalmente un po' di relax. Ammetto di essere sempre stata un caso umano, in quanto a gusti musicali. Mi piace ascoltare di tutto, ma proprio tutto, dalla musica classica al trash più becero, passando per la musica leggera italiana e l'heavy metal. Insomma, se volete un consiglio, non collegate mai il mio cellulare a una cassa wi-fi per farvi compagnia alle feste, o rischierete di non invitarmi mai più.

Il treno arriva con i suoi puntuali dieci minuti di ritardo, e alle sette e mezzo sono sul binario che arranco in direzione delle scale mobili, trascinando il trolley con la mano destra e tenendo il telefono nella sinistra, nel disperato tentativo di rintracciare Fede. Per una serie di motivi, ho preferito lasciare la mia auto – una Panda di seconda mano che ho acquistato la scorsa estate con i risparmi del mio primo anno di lavoro – parcheggiata al sicuro nel garage di casa mia, ma l'appartamento si trova a una considerevole distanza dalla stazione e non è il caso di farsela a piedi di notte, specie a Capodanno, quando tutto è deserto e per di più sembra che non smetta di piovere da stamattina presto.

Mi avvio verso l'uscita, e Fede non risponde. Intorno a me, la stazione brulica di gente, e negli occhi di alcuni di loro mi sembra di leggere la stessa espressione che devo avere io in questo momento: quella del pendolare perennemente sospeso tra due mondi, in attesa di trovare quello definitivo in cui restare.

Riesco a rintracciare Federico in mezzo a quella selva di teste solo dopo qualche minuto. È fermo di fronte all'ingresso e sta osservando con aria distratta il tabellone degli arrivi. Tiene il cellulare in mano, e sta parlando fitto fitto con qualcuno. Il cuore mi accelera i battiti, e in pochi passi sono in piedi di fronte a lui, agitando la mano per attirare la sua attenzione.

Lui sembra cadere dalle nuvole nel momento in cui mi vede, ricambiando il saluto a sua volta e continuando a parlare come se niente fosse. Incrocio le braccia sul petto, senza riuscire a trattenere un certo fastidio: insomma, sono dieci giorni che non mi vedi e questa è la tua reazione?

Al mio gesto delle forbici con l'indice e il medio, lui sospira.

«Scusami, ti devo salutare. È arrivata Anna. Sì, sì, le dico che la saluti. Ciao, ciao.»

Levo gli occhi al cielo. Sono pronta a scommetterci il cap che stava parlando con Sofia.

«Ti saluta la Sofy» dice lui, infatti.

Come volevasi dimostrare.

«Oh» commento io. «Effettivamente, è tanto che non vi sentite» non riesco a trattenermi dall'aggiungere.

La cosa non sfugge a Federico, che subito inarca le sopracciglia con fare stizzito. «Che c'è, sei gelosa?» ribatte subito.

«No, no, figurati. È solo che ultimamente la Sofy mi sembra un po' troppo presente nelle tue conversazioni, tutto qui» mi schermisco io.

«È la mia migliore amica, la conosco da molto tempo prima di te. E poi non siete voi due, quelle che si messaggiano di continuo e trascorrono la giornata insieme? In realtà, dovrei essere io, quello geloso» ribalta la situazione lui.

«Calma, calma, ho capito» cerco di smorzarlo, perché i toni si stanno alzando e un paio di persone ci hanno appena rivolto un'occhiata incerta. «Sono solo le mie solite paranoie.»

«Non crederai mica che ci stia provando con me, vero?»

"No, no, figurati, ieri sera era semplicemente appiccicata a te mezza nuda, ma siamo un paese libero, giusto?"

«Ma dai! Ti stavo solo punzecchiando» spero davvero che lui abbia ragione.

«Comunque, Sofia mi chiamava perché si sentiva un po' giù, oggi» torna alla carica Federico.

«Come mai?»

«Dice che ha discusso con sua madre per via dell'università. Sai, il discorso che non riesce a passare gli esami e giù di lì. Diciamo che non ha avuto un pranzo di Capodanno particolarmente tranquillo.»

«Mi dispiace. Più tardi, proverò a sentirla.»

«Sì, le farebbe piacere, credimi.»

Sospiro, cercando di non sembrare ancora più scocciata. Tra parentesi, ultimamente Sofia sembra sempre avere brutte giornate. Sua madre, Paola, è praticamente all'opposto di lei. Se Sofy è gracile come un giunco, allo stesso tempo Paola è imponente come una matrona d'altri tempi. Se Sofy è sempre attenta al suo aspetto esteriore, curandolo in modo quasi maniacale, il fisico di sua madre è temprato da cinquant'anni di fatica e due gravidanze più un divorzio, amministrando l'azienda di famiglia con la stessa determinazione di un generale romano al comando delle sue truppe. Per questo, spesso e volentieri, entra in conflitto con sua figlia, in particolar modo a causa delle sue leggerezze. La prospettiva che un domani l'intero maneggio passerà a lei la terrorizza, e vuole essere sicura che la sua degna erede non mandi in malora l'impero che ha costruito con anni e anni di passione e sacrifici, come del resto suo padre prima di lei.

"I Pioppi" un tempo non erano altro che un covone disperso nella campagna e i primi cavalli che avevano ospitato erano due vecchi destrieri pensionati dal corpo forestale dello Stato. Da lì erano arrivati i primi allievi, e con essi le prime pensioni. Il padre di Paola era stato un maresciallo dei carabinieri, e aveva imparato l'equitazione dai migliori Maestri del tempo, allievi diretti del grande Federigo Caprilli, e aveva gareggiato a sua volta al fianco di Graziano Mancinelli e dei Fratelli D'Inzeo. Il centro che era andato a fondare era diventato ben presto un'eccellenza nella zona, e Paola era determinata più che mai a tenere alta la tradizione, specie in un'epoca in cui l'equitazione appariva particolarmente in crisi, specie dal punto di vista dell'insegnamento della tecnica e delle basi, che spesso venivano agilmente scavalcate dal portafoglio dei clienti che preferivano investire in cavalli potenti e bardature considerate "miracolose" piuttosto che imparare a montare come si deve.

Uno dei motivi per cui mi ero trovata subito bene con Paola era proprio questo: la mia sterminata voglia di imparare. All'epoca come ora non avevo alle spalle una famiglia che poteva investire interi capitali nell'acquisto di una piccola formula uno con cui vincere i gran premi la domenica, tantomeno investire in gare o addirittura in una mezza fida; tutto ciò che potevo fare per inserirmi in quell'ambiente estremamente complicato e competitivo era imparare quanto più potevo, ed era già tanto che avessi trovato qualcuno disposto a spendere il proprio tempo a formarmi, con tutte le incombenze che c'erano in scuderia.

Per quanto Paola fosse un'istruttrice di vecchio stampo, estremamente esigente e severa, la tecnica che insegnava era semplice e pura, e io facevo tesoro di tutti i suoi insegnamenti, pendendo letteralmente dalle sue labbra. Avrei trascorso intere giornate ad ascoltare le sue lezioni, o a montare sotto le sue direttive, anche se per quest'ultima attività il tempo era veramente poco e il mio livello di preparazione era decisamente al disotto delle sue aspettative.

«Ecco, questi sono i risultati degli ultimi vent'anni di insegnamento» commentava spesso dopo l'ennesima lavata di capo nei miei confronti. «Vi hanno sbattuti in una ripresa senza neanche spiegarvi come si sta in sella, ed ecco qui che vi vedo con i piedi a papera, che spanciate come dei dannati al trotto e non riuscite a fare una partenza di galoppo decente. Sui salti, poi, Dio ce ne scampi, e infatti gli schianti in campo gara la domenica ne sono la prova.»

Molto spesso quelle filippiche di frustrazione andavano avanti anche per venti minuti buoni, e in quei frangenti non mi toccava che sorbirli in silenzio, rendendomi conto che purtroppo Paola aveva dannatamente ragione. Se dovessi ripercorrere al contrario la mia carriera equestre, a livello tecnico le lacune farebbero rabbrividire qualunque istruttore competente. Il nonno, per quanto avesse buona volontà, veniva da un tipo di formazione diverso, più vicino all'ambiente della monta da lavoro e decisamente più distaccato dai campi gara, a cui si era avvicinato solo in un secondo momento per pura passione. Il suo modo di insegnare era inequivocabilmente diverso, più semplice e rustico, ed ecco perché dopo tanti anni mi ero ritrovata ad essere molto più indietro di quanto avrei dovuto dopo così tanta esperienza in sella.

Il mio assetto era veramente pessimo, spesso mi veniva istintivo spanciare al trotto e avevo serie difficoltà nel galoppo sollevato. Nei salti, poi, perdevo completamente la sintonia con il cavallo e ogni volta che affrontavo anche la più ridicola delle crocette rischiavo puntualmente di andarmi a sfracellare in mezzo alla sabbia. Per anni avevo usato una staffatura troppo lunga, da dressage, che poco mi aiutava a mantenere la gamba piegata e i piedi in linea al disotto di spalle e bacino, per questo finivo ogni volta per perdere l'equilibrio e dare i comandi in maniera del tutto inefficace. La cosa generava in me una terribile frustrazione, perché mi rendevo conto che tutto quello che io e il nonno avevamo costruito era stato completamente inutile.

Ma torniamo a Sofia, e ai suoi drammi. D'accordo, avevo un miliardo di motivi per essere gelosa di lei, concedetemelo. Sin dalla nascita, sapeva che avrebbe ereditato uno dei maneggi più importanti della zona e aveva potuto praticare l'equitazione quando e come voleva, con tutti i mezzi economici e il sostegno morale che avesse potuto desiderare. I cavalli più forti del centro erano i suoi, maestosi esemplari importati direttamente dall'Olanda e dalla Germania, e ogni volta che usciva in concorso il podio era quasi sempre assicurato.

In più Sofia era bella, forte e determinata. Una giovane donna desiderata da tutti, e bastava un semplice sbattere di ciglia o uno sguardo dei suoi occhi da cerbiatta per ottenere tutto quello che voleva. Sapeva giocarsi bene le sue carte, Sofia, conosceva il suo potenziale e odiava essere messa in discussione. Per questo, spesso e volentieri, entrava in contrasto con sua madre. L'università faceva parte della miriade di motivi per cui loro due facevano i fuochi d'artificio.

Per Paola, Sofia era tutto ciò che aveva. Tredici anni fa, il suo ex marito, un militare, aveva pensato bene di trasferirsi a Milano con una donna più giovane, con cui aveva costruito una seconda famiglia a insaputa di tutti. L'evento aveva creato un'orrenda spaccatura all'interno della famiglia, che si era risolta con la partenza anche di Michele, il fratello maggiore di Sofia, che aveva preferito seguire le orme paterne. Ora lavorava in uno studio notarile a Milano, e aveva tagliato praticamente tutti i ponti con loro. L'ultima volta che si era fatto vivo era successo poco prima del mio arrivo a Bologna, solo per avvisare che si era appena sposato e che la consorte aspettava un bambino.

Vi lascio immaginare quale peso dovesse portare Paola, che in tutti quegli anni era andata avanti da sola, e quali aspettative nutrisse verso Sofia, l'unica figlia rimasta, e allo stesso tempo il suo punto debole. Più di una volta, mentre montavo con lei, Paola mi aveva confidato i suoi timori nei confronti della figlia, in particolar modo la sua totale insofferenza allo studio. Sofia voleva vivere in mezzo ai cavalli, questo era sempre stato chiaro, e di conseguenza si era messa in testa di non voler continuare gli studi, specie dopo aver strappato una maturità molto sofferta al liceo scientifico. Paola non aveva voluto sentire ragioni e, dopo un'estate di fuoco, l'aveva costretta a iscriversi a Scienze dell'Educazione, l'unica cosa che sembrasse sostenibile con la sua vita di maneggio, e che magari le avrebbe dato qualche riconoscimento in più nel momento in cui sarebbe diventata istruttrice federale.

La trovata si era rivelata un vero fallimento, dal momento che Sofia preferiva di gran lunga uscire con gli amici piuttosto che cavarsi le diottrie sui libri, e di conseguenza ogni sessione d'esame si trasformava in un autentico calvario fatto di minacce e crisi di pianto.

I buoni propositi da parte di Paola di usare me come buon esempio per la figlia riottosa si erano rivelati in un fiasco totale, dal momento che Sofy aveva fiutato subito l'inghippo, e ciò non aveva fatto altro che incrementare le tensioni tra noi, oltre ad affibbiarmi l'etichetta di instancabile secchiona che aveva bruciato sui libri gli anni migliori della sua vita.

Certo, Sofia aveva ragione. A differenza di lei, io avevo accettato passivamente le decisioni da parte della mia famiglia riguardo il mio percorso di studi, sicura, in un'età così giovane, che fossero la cosa più giusta per me. Che poi con il tempo avessi capito che la mia strada era un'altra, che colpa ne avevo?

«Comunque, ho un programmino per questa sera» interviene Fede, facendomi ripiombare nella realtà.

«Ovvero?» spero solo che almeno per stasera saremo da soli io e lui.

«Ti lascio un attimo a casa a mettere giù le tue cose e poi ce ne andiamo a cena fuori. Che ne dici?»

«Ottima idea!»

Dopo tutto il trambusto degli ultimi giorni, stare un po' con il mio ragazzo è veramente l'unica cosa di cui ho bisogno. Gli getto le braccia al collo e gli stampo un rapido bacio a fior di labbra. Lui mi sorride, stringendomi a sé.

«Mi sei mancata, piccola» ridacchia, scompigliandomi i capelli per gioco.

Lo seguo all'esterno della stazione. Fuori, il frenetico caos sembra svanire nel nulla, come sotto un incantesimo. Una pigra pioggerella invernale cade lentamente dal cielo pesto, inzaccherando le strade e le auto in sosta. Fa un freddo cane, e seguo Fede stringendomi alla bell'e meglio nel cappotto.

Per fortuna la sua auto non è lontana, parcheggiata in doppia fila vicino ad alcuni bidoni dell'immondizia. Partiamo rapidi verso il centro, stretti finalmente nell'intimo tepore dell'abitacolo. Fede parla poco, concentrato com'è sulla strada, e il brusio dell'autoradio è la nostra unica compagnia.

Io ne approfitto per rilassarmi, distendendomi le gambe e concedendomi quegli ultimi, preziosi istanti di quiete: avverto già l'indomani avvicinarsi, e subito mi prende un fastidioso moto d'ansia. Sofia non mi ha ancora chiamata, il che è strano, ma sono sicura che una volta in scuderia ci sarà qualcosa che ho dimenticato di fare, un cavallo che non si trova in condizioni ottimali, un allievo ritirato, e quant'altre incombenze da rincorrere.

Raggiungiamo casa in una quindicina di minuti. È un piccolo appartamento nel cuore del centro storico, una graziosa mansarda stretta tra i portici e i palazzi medievali. È poco più di un buco, ma me ne sono innamorata a prima vista non appena sono arrivata a Bologna, in cerca di un alloggio consono alle mie finanze. È costituito da due camere, un bagno, un angolo cottura e una zona soggiorno occupata per la maggior parte da un divano dalla lisa tappezzeria multicolore, ma è caldo e accogliente, e questo è l'importante. Lo condivido insieme a Clarice, una studentessa di Beni Culturali approdata in Italia direttamente da Lille, e il suo gatto Margot. Con lei vado molto d'accordo: per quanto mastichi ancora a fatica l'italiano, è una ragazza molto educata e discreta e spesso ci siamo ritrovate a condividere insieme le solitarie serate invernali.

L'unico neo è forse costituito dalle mie frequenti lavatrici, per cui da un po' di tempo a questa parte ho iniziato a portarmi un cambio a maneggio e a fare avanti e indietro dalla lavanderia sotto casa: ci tengo infatti a mantenere buoni rapporti, e in base alla mia esperienza pregressa a casa, il primo passo è proprio quello di evitare di impestare l'appartamento di peli, sabbia e tracce di fango, oltre all'inconfondibile olezzo di cavallo che a lungo andare resta impregnato sui vestiti. Per evitare ulteriori problemi, ho lasciato tutta la mia attrezzatura (cap, stivali, paraschiena, guanti, frustino e frusta da dressage) in un armadietto del maneggio, così da sembrare in tutto e per tutto una persona normale e presentabile.

Raggiungiamo l'appartamento alla fine di due rampe di scale, con Fede che arranca dietro di me trascinando il trolley, mentre io mi barcameno tra la borsa e le chiavi di casa. Clarice non è ancora rientrata: rimarrà in Francia ancora qualche giorno e ci rivedremo dopo l'Epifania. Di conseguenza, l'interno oggi appare particolarmente freddo e buio.

Inizio ad aggirarmi qua e là, depositando i miei pochi averi e riattivando luce e riscaldamento. Raggiungo la mia cameretta e vado a recuperare degli abiti di ricambio, nonostante i brividi di freddo. Mentre mi libero della felpa col cappuccio e la sostituisco con un maglione, lancio un'occhiata di sottecchi verso il soggiorno. Sto quasi sperando che Fede mi raggiunga, come ha fatto in passato, e approfitti di questo momento per rubare un po' di intimità con me, specie ora che la mia coinquilina è fuori; ma un attimo dopo lo sorprendo sul divano, assorto di fronte alla televisione accesa. Sospiro, finendo di cambiarmi. Evidentemente, dopo la festa di ieri sera, è stanco anche lui.

Per inciso, io amo Federico. Lo amo ancora, e rivederlo oggi dopo diversi giorni mi ha fatto ricordare i sentimenti che provo per lui. Ma ora, mentre mi avvicino lentamente alle sue spalle e lo sorprendo per l'ennesima volta a messaggiare con Sofia, l'aria concentrata che scema nel vuoto nell'esatto istante in cui scopre di avermi al suo fianco, posso dire che lo stesso vale per lui?

«Che c'è?» mi chiede, notando il mio sguardo perplesso.

«Niente» mi ricompongo. «Ho fame.»

Ci fermiamo nella nostra rosticceria preferita, a pochi passi da casa mia. È un locale piccolo e bisunto, ma il cui pollo con le patatine è qualcosa di talmente pazzesco da attirare folle di avventori anche in giornate deserte e uggiose come questa. Ci sediamo a un tavolo in disparte e ordiniamo i nostri piatti preferiti.

«Potresti almeno evitare di tenere il cellulare mentre siamo a tavola?» mi viene da dire a un certo punto, visto che siamo seduti da dieci minuti buoni e lui non mi calcola di striscio.

«Scusami, è sempre...»

«Sofia, ha avuto una giornataccia. Lo so» taglio corto io, esasperata. «Però, per quanto le vuoi bene, quello è un problema di Sofia, giusto? È una persona adulta, sono sicura che a una certa riuscirà a cavarsela alla grande anche senza che tu le faccia perennemente da balia.»

«Non mi sembra una bella cosa nei confronti di un'amica» bofonchia lui, rabbuiandosi. «Ha bisogno d'aiuto, è tutto il giorno che piange per via della litigata con sua madre, e io cerco di starle vicino. Tutto qui.»

«Sì, certo, però non c'è bisogno che ti scaldi tanto tutte le volte che nomino Sofia in tua presenza» gli faccio osservare io, smarrita. Insomma, non è neanche un'ora che siamo insieme e già stiamo litigando per colpa di una persona che non è nemmeno presente.

«Non mi piace che ti alteri in questo modo solo perché sto rispondendo a un messaggio, tutto qui» ringhia lui.

«E a me non piace il fatto che da un po' di tempo a questa parte tutto sembri girare intorno a Sofia, quando uno non è la tua ragazza, e due anche la tua fidanzata avrebbe i suoi problemi in famiglia, se permetti.»

«Non è vero, è solo oggi che la sto sentendo!»

«Oggi, ieri, l'altro ieri...»

«E dai, smettila! Mica faccio queste scenate con i tuoi amici o sbaglio?»

«Per tua informazione, attualmente non ho amici maschi, quindi è diverso.»

«No, non lo è. La verità è che sei solo gelosa, e sappi che queste sono solo paranoie.»

«Non sono gelosa e non sopporto che usi questo tono con me!»

«Senti, io...»

La conversazione viene subito troncata dal prepotente vibrare del mio telefono sul tavolo. Lo fisso sbigottita, rendendomi conto che la persona che mi sta chiamando è proprio Sofia.

«Visto?» fa lui in tono di trionfo. «Ora sta cercando te.»

Sospiro, incapace di trovare le parole giuste per rispondergli, e afferro l'apparecchio.

«Sì?»

«Olà, finalmente ti fai viva! Non è che hai deciso di lasciarci tutti a piedi, vero?»

A giudicare dal tono di voce, Sofia mi sembra tutto meno che afflitta.

«Certo che no» ribatto io. «Ero semplicemente uscita a cena con Fede. Il viaggio è stato lungo, avevo voglia di vederlo.»

«Sì, sì, posso capire. Ascolta, piano per domani: ce ne andiamo in gita a Cervia. Ci stai?»

«Così lontano?»

Resto per un attimo basita, cercando di dosare quell'ultima informazione.

«Mia madre ha trovato il cavallo per me, lo andiamo a provare domattina» continua Sofy, le parole che corrono frenetiche come un treno in corsa. «Giustamente, voglio che ci sia anche tu, così magari mi dai una mano. Allora, affare fatto?»

Sulle prime non so che dire, mi sento ancora stordita dal viaggio.

«Certo» mi lascio sfuggire.

«Molto bene, ragazza» conclude lei, in tono soddisfatto. «Ci vediamo domattina alle cinque in maneggio. Puntuali!»

Riattacca senza quasi darmi il tempo di salutare. Io resto lì, un'espressione appesa mentre cerco di elaborare le informazioni appena ricevute. Da tempo mi aspettavo una cosa simile, dopo che Paola aveva dato via Gorla lo scorso ottobre per via di un infortunio che le avrebbe impedito di tornare a saltare le centoventi per il resto dei suoi giorni. Ma non è di certo la prospettiva di un nuovo cavallo per Sofia a preoccuparmi, quando tutta la valanga di imprevisti che può investirci da qui al passaggio di proprietà.

So che in questi frangenti Sofia diventa una bomba ad orologeria, e basta veramente il minimo dettaglio per scatenare tutte le sue frustrazioni sul primo essere vivente che le capiti a tiro. Motivo per il più delle volte in cui l'accompagno in concorso la giornata si trasforma in un vero incubo, con lei che bercia ordini e isterismi in tutte le direzioni e io che cerco, inutilmente, di starle dietro, sentendomi inadeguata e incapace persino nelle azioni più semplici, come quella di passeggiare il suo cavallo di fronte alla scuderia in attesa che lei si prepari, salga ed entri in campo prova.

«Che succede?» chiede Federico, notando il mio malumore.

«Niente» rispondo io, riponendo il cellulare.

Di colpo mi sento lo sento lo stomaco chiuso. In quel momento, l'arrivo del pollo con le patatine stronca qualsiasi altro tentativo di conversazione.


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