20. Primo giorno di scuola

È il primo giorno di scuola e io sono già in ritardo. Attraverso le stradine del centro con lo zaino che mi sega le spalle e un dizionario stretto al petto, ansimando mentre mi arrampico su per la salita che mi porta verso l'ingresso del mio liceo, che ora mi sembra più distante e irraggiungibile che mai. Mi sembra già di vederlo, al disotto del cielo grigio e uniforme: un vecchio palazzo d'epoca dalla facciata austera e le grandi finestre squadrate che ci spiano dalla strada.

Affretto il passo sul marciapiede, superando l'ingresso gremito di persone e correndo verso le scale. La folla mi rallenta, e l'interno dell'edificio mi sembra ancora più grande e labirintico di come lo ricordassi. Ci sono molte rampe di scale, lunghi corridoi (molti dei quali sembrano non portare da nessuna parte) e una serie infinita di aule di cui non sapevo l'esistenza. Mi trovo a chiedere più volte indicazioni su dove si trovi la quinta E, e puntualmente ottengo risposte diverse.

Inutile dire che finisco per perdermi, e nel momento in cui la campana suona io sono ancora in pieno vagabondaggio tra la palestra e il primo piano, senza avere la minima idea di dove sia finita la mia classe. E, cosa più inquietante di tutte, ho come l'impressione di non conoscere nessuno, e che tutti gli studenti che ho incrociato finora siano tutti degli emeriti sconosciuti. Che fine hanno fatto i miei compagni?

«Ehi, Anna!»

Quella voce mi fa trasalire, mentre il cuore sembra arrestarsi di colpo per il sollievo e la felicità. Ethan è appena apparso in cima alle scale e sta agitando il braccio nella mia direzione. È un Ethan di quindici anni, quando frequentava la seconda D, aveva tolto finalmente l'apparecchio e già allora portava i capelli esageratamente spettinati.

Lo raggiungo di corsa, lasciandomi sfuggire l'emozione di averlo incontrato proprio in un momento di difficoltà.

«Ciao» lo saluto raggiante. «Non dirmi che ti sei perso anche tu.»

«Perso?» Ethan solleva un sopracciglio scuro con fare chiaramente divertito. «Veramente sto andando in classe.»

«Con calma, eh! Sono già le otto e trenta» gli faccio notare io, esasperata.

«Ho visto la prof che chiacchierava in sala professori con la preside, quindi me la sono presa comoda» si schermisce lui stringendosi nelle spalle. «E tu? Non dirmi che...»

«Mi sono persa, va bene? Non ridere o ti rifilo un pugno!» ribatto io, lanciandogli un'occhiata di sfida.

«D'accordo, farò finta di non aver sentito» lui fa cenno di allontanarsi.

«Ehi, aspetta! Per caso hai visto la seconda E? Sarai la quinta persona a cui chiedo, le altre quattro mi hanno spedita in direzioni completamente diverse» lo riacchiappo io, ormai esasperata.

Ethan si volta verso di me, rivolgendomi un'occhiata di sfida con la sua migliore espressione da schiaffi.

«Dunque lo ammetti» incalza. «Ti sei persa.»

«Ti ho detto di sì» abbaio io. «Ma preferirei che non ne facessi una questione di stato, okay? Aiutami solo a ritrovare la mia classe e poi ti lascio in pace.»

«D'accordo, d'accordo.»

«Non ridere!»

«Non sto ridendo, infatti.»

Bugiardo, si vede da un miglio che sta facendo una fatica pazzesca per contenersi.

«Allora, vieni con me o vuoi restare lì a tenere il broncio?» mi incalza subito dopo, facendomi cenno di seguirlo.

Io sbuffo, prendendo a camminare al suo fianco. Lui non dice una parola, e d'altronde io sono contenta che non abbia trovato altri argomenti per prendermi in giro per la mia proverbiale sbadataggine. Attraversiamo corridoi e rampe di scale di cui non ricordavo nemmeno l'esistenza e ci fermiamo finalmente di fronte a un'aula segnata con un foglio bianco che recita freddamente 5E.

Sbircio all'interno, perplessa. A quanto pare, ci hanno messi nell'ex laboratorio di scienze, un ambiente grande quanto caotico, e i banchi sono ammucchiati tra grossi tavoli di metallo e gli armadi colmi di materiali per gli esperimenti di chimica e animali impagliati. I miei compagni sono già seduti ai loro posti e stanno ascoltando la lezione della prof di storia, anche se a giudicare dall'aspetto non l'ho mai vista prima.

Mi volto verso Ethan. È il momento di salutarci.

«Be', grazie dell'aiuto» faccio io, stringendomi nelle spalle.

«Non c'è di che» risponde lui, imitando il mio gesto. «Ci vediamo dopo in maneggio?»

«Okay,» rispondo io, e subito mi sfugge un sorriso.

«Allora a più tardi» mi saluta Ethan.

«Ciao.»

Mi volto, facendo per entrare in classe, quando subito la voce del ragazzo mi richiama indietro.

«Anna?»

Mi giro verso di lui, e dentro di me vorrei che quell'istante non finisse mai.

«Sì?»

«Aspetta. C'è una cosa che vorrei dirti.»

Ethan si avvicina a me, e io levo lo sguardo verso di lui. Era veramente alto a quell'età. Ci guardiamo un istante negli occhi, poi lui si china in avanti e posa le sue labbra sottili sulle mie. Il suo gesto mi lascia letteralmente senza fiato, folgorata dalla sorpresa. Non capisco come, ma sta accadendo davvero, quel bacio che ho tanto desiderato e sognato, senza bisogno di alcuna spiegazione. Avverto il cuore esplodermi nella gabbia toracica e la felicità gorgogliare in fondo alla gola mentre gli circondo il collo con le braccia e rispondo a mia volta. Le sue labbra hanno un tocco dolcissimo e passionale, e io cerco di esplorare il loro sapore, quando improvvisamente un pensiero mi colpisce la mente.

Quando avevo quindici anni e frequentavo la quinta E, Ethan aveva smesso di cavalcare da quasi sei mesi.

Mi sveglio di soprassalto, ritrovandomi a fissare le travi in legno che rivestono il soffitto del mio appartamento bolognese debolmente illuminate dalle luci che filtrano dalla strada. Sono le quattro del mattino, è inverno e io ho quasi trent'anni. Ma in qualche modo, mentre mi trovo ad arrossire nell'oscurità come la più timida delle adolescenti, mi sembra ancora di avvertire il tocco di Ethan bruciarmi sulle labbra.


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