1. Ventiquattro mesi
31.12.19
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La mia migliore amica si chiama Vittoria Giannini. Ci conosciamo dalla prima elementare e siamo state nella stessa classe fino a tutte le superiori, prima che entrambe scegliessimo di intraprendere strade diverse. Lei ora si trova al primo anno della Scuola di Specializzazione in Architettura, ha le idee chiare e un posto assicurato nello studio del padre, un noto architetto che ha riprogettato il design di ogni hotel, bed & breakfast e agriturismo della Tuscia. Come lui, è sempre stata un tipo brillante e intraprendente, e sono sicura che una volta uscita dal circo delle università si farà la sua strada senza troppi problemi.
Sono ormai quasi due anni che io e la Vi non ci vediamo. Per la verità, negli ultimi ventiquattro mesi sono successe un po' di cose. Intanto mi sono spostata a Nord, a Bologna per la precisione. Dopo aver preso la laurea triennale in Lettere Moderne all'Università della Tuscia, avevo voglia di spostare lo sguardo altrove. A essere sincera, la vita in provincia iniziava a starmi davvero stretta. Avevo un disperato bisogno di cambiare aria, e concludere gli studi in un'università importante poteva essere l'occasione giusta per guardare il mio futuro – tra le altre cose incerto, come per tutti i laureati in Lettere – da un'altra prospettiva.
Sulle prime, era stato un continuo oscillare tra La Sapienza di Roma e l'Università di Firenze, che a quei tempi mi sembravano il massimo a cui potessi aspirare. Poi è arrivato Federico, e da lì in poi i miei piani si sono sgretolati come un castello di sabbia sotto le prime onde di alta marea.
Io e Fede ci siamo conosciuti quasi per caso a una festa universitaria. Ai tempi uscivo con un gruppo di Viterbo, perlopiù gente che frequentava i miei stessi corsi, e spesso durante i finesettimana estivi amavamo distrarci tra un esame e l'altro uscendo per la città e facendo serata nei vari locali del centro. Ammetto che prima di andare all'università non ero mai stata un tipo festaiolo, complici le innumerevoli restrizioni dei miei genitori, e ricordo quel periodo come una piacevole parentesi piena di piccole e più o meno innocenti trasgressioni.
Federico era in vacanza con una comitiva di amici, con cui stava girando in campeggio tutta l'Etruria. Si stava laureando al Dams di Bologna, e il suo sogno era quello di diventare un attore. Inutile dire che me ne innamorai a prima vista. Adoravo il suo modo di parlare, così aperto e allo stesso tempo forbito, e il fatto che venisse da una grande città lontana mi affascinò sin dal primissimo istante. Mi piaceva il suo accento, così diverso dal mio, lo trovavo irresistibile. E poi, io che non ero molto abituata a frequentare ragazzi, rimasi giustamente colpita dal suo aspetto fisico: asciutto e allo stesso tempo delicato, all'epoca quasi efebico, con quegli occhi verdi e le labbra sottili, i capelli biondi pettinati all'indietro e l'atteggiamento spavaldo che avrebbe attirato l'attenzione di chiunque.
Allora avevamo molti interessi in comune. Federico adorava la letteratura, e aveva anche provato a imbastire un romanzo che un giorno avrebbe tanto voluto presentare a una casa editrice. Era un thriller storico ambientato a Firenze, una cosa in stile Dan Brown che piaceva da matti anche a me e che non vedevo l'ora di leggere. E poi aveva studiato recitazione per molti anni, una cosa che anch'io avevo iniziato ai tempi del liceo ma che poi avevo dovuto smettere per non restare indietro con lo studio. Fede invece aveva continuato e ancora adesso si esibisce con una compagnia teatrale di Bologna, oltre ad aver partecipato a numerosi progetti per cortometraggi, alcuni dei quali avevano visto stendere la sceneggiatura di suo pugno.
Subito trovammo numerosi punti in comune, e quella che all'inizio sembrò una piacevole serata in cui entrambi ci eravamo sentiti attratti l'uno dall'altra per un curioso caso di coincidenze diventò in breve tempo una serie di appuntamenti che culminò con il nostro primo bacio e l'ardita decisione di metterci insieme.
In tutta onestà, tutto avrei voluto meno che una relazione a distanza. Il tempo per vederci era sempre veramente poco e i biglietti del treno erano una spesa non da poco. In più c'era la tesi da scrivere e le condizioni di salute del nonno che andavano peggiorando, con l'atmosfera in casa che si faceva sempre più pesante giorno dopo giorno. E poi c'era il dato non indifferente che ai miei genitori Federico non piaceva neanche un po'.
A essere sincera, non mi furono mai chiare le ragioni di quella gratuita antipatia, al di fuori forse di una gelosia incontrollata nei confronti della loro unica figlia, i cui standard erano evidentemente troppo alti per un aspirante attore che nella migliore delle ipotesi sarebbe finito a portare caffè a vita (testuali parole di mio padre). Ma, al di là di quello che accadde in seguito, non mi vennero mai date delle spiegazioni schiette ed esaustive sul motivo per cui semplicemente non lo potessero vedere. Il che aumentò a dismisura il mio senso di oppressione in quella piccola cittadina di provincia in cui ero nata e cresciuta, e che ora mi sembrava di colpo troppo soffocante per una ragazza di ventitré anni che stava cercando di trovare la sua strada nel mondo degli adulti.
Decisi così di optare per Bologna, per poter stare più vicina a Federico, e allo stesso tempo per allontanarmi da un ambiente ormai vecchio e sterile, in cui mi sentivo prigioniera e priva di prospettive. Avevo bisogno di schiarirmi le idee, di pensare con la mia testa. E, soprattutto, di ritrovare la persona che ero veramente al disotto dei mille orpelli che negli anni mi avevano cucito addosso a forza.
Arrivata alla soglia dei venticinque anni, mi ero resa conto con sgomento che ogni scelta che avevo fatto dalla terza media in poi era stata pesantemente condizionata dalla mia famiglia. L'indirizzo delle superiori – rigorosamente nel miglior liceo della città – e il conseguente dirottamento verso Lettere erano lo specchio di un cieco disegno secondo il quale l'unico posto che competeva a una giovane di buona famiglia come me era quello di insegnante in un istituto superiore, mestiere che mi avrebbe assicurato uno stipendio sicuro e un adeguato status sociale senza dover pretendere troppo. Chissà, magari avrei completato il quadro con il matrimonio con un buon partito e il coronamento della nascita di un tenero e paffuto pargolo da esibire alle riunioni di famiglia. Cosa vogliamo farci, mentalità di provincia.
Fu la malattia del nonno a smascherare la trappola. Accadde durante il mio primo anno di università, quando a causa dello studio ero stata costretta ad allontanarmi temporaneamente dai cavalli e dal ranch per ordine dei miei genitori. L'equitazione era infatti uno sport troppo impegnativo, e inoltre non potevo correre il rischio di cadere e farmi male, non con gli esami da passare in tempo e la tesi da finire.
La malattia del nonno cambiò tutto. Accadde una mattina di giugno, quando il nonno era sceso in scuderia come ogni giorno per dare da mangiare ai cavalli. L'ictus lo colse proprio davanti al box di White Admiral, senza dargli nemmeno un avvertimento. Era solo, quella mattina, e trascorsero almeno venti minuti prima che Tiziano, il nostro groom, lo trovasse riverso sul pavimento polveroso. Quando giunse in ospedale, le sue condizioni erano ormai critiche. Non si riprese mai più. Trascorse un anno e mezzo infernale, in cui si spense a poco a poco, giorno dopo giorno, e insieme a lui tutto ciò che aveva costruito in cinquant'anni di duro lavoro.
Quando finalmente riuscii a raggiungerlo in ospedale, ricordo che in un ultimo sprazzo di lucidità egli mi afferrò saldamente per un braccio, guardandomi dritta negli occhi.
«I cavalli?» chiese, con un filo di voce. «I cavalli stanno bene?»
Io annuii, tra le lacrime. I suoi occhi scuri si rasserenarono, e il nonno parve rilassarsi per un attimo.
«Prenditi cura di loro» mi disse, fissando ormai il vuoto. «Prenditi cura di loro. Anna...»
In quel momento, la morfina iniziò a fare effetto. L'infermiera di turno mi invitò a uscire. Da quella notte in poi, il nonno non riuscì più a dire una sola parola. E io, nello smarrimento e nel dolore più assurdo, capii che cosa dovevo fare per la prima volta nella mia vita.
I cavalli avevano bisogno di me. Dovevano mangiare, essere strigliati, accuditi e movimentati. C'erano le lezioni da mandare avanti, i privati a cui prestare assistenza, la manutenzione da fare, le pensioni da ritirare e le tasse da pagare. Non c'era un solo minuto da perdere.
Il giorno dopo alle sette ero davanti alla porta della scuderia, esattamente come avrebbe fatto lui. Da lì in avanti, fui io a occuparmi di tutto, almeno fino a quando mi fu concesso, ossia tre mesi prima del mio trasferimento. Ero io a dare da mangiare ai cavalli e a occuparmi di tutto ciò che potevo fare. Restavo in scuderia dalla mattina alla sera e studiavo per gli esami nei ritagli di tempo. Per quanto i miei genitori fossero convinti che stessi bruciando un'intera carriera universitaria, in realtà riuscii a passarne uno dietro l'altro con ottimi voti. Avevano paura che io fallissi, e invece mi ostinai a dimostrare il contrario.
Al primo appello disponibile, mi iscrissi al corso istruttori e acquisii il brevetto di Operatore di Base, in modo tale da poter dare una mano nelle lezioni. Volevo che ciò che aveva costruito il nonno non fosse vano, che la sua presenza continuasse a regnare all'interno del ranch anche se lui non c'era, e molto probabilmente non sarebbe mai più tornato.
Fu allora che capii chi ero davvero, a che cosa appartenevo. Il mio posto era tra i cavalli, lo era sempre stato. Tutto ciò che si era stratificato in quegli anni non erano altro che alibi, dettati da paure e preconcetti che ora più che mai avvertivo come antiquati e pericolosi. Mi sentivo soffocare, e quando pensavo che avrei dovuto abbandonare ciò che stavo facendo – la mia battaglia! – per un futuro incerto che percepivo come estraneo, venivo assalita puntualmente da un insopportabile senso di panico. Volevo fuggire, inseguire quella strada che sentivo ormai mia senza che nessuno si mettesse in mezzo per influenzarmi o sviarmi, pensando solo con la mia testa, anche a costo di fallire.
Così, quando mio zio decise di lottizzare il ranch, io presi la strada per Bologna. Decisa, già in partenza, a non voltarmi più indietro.
Ecco il motivo per cui sono due anni che non mi fermo più davanti a quella porta, che per molto tempo mi è stata così famigliare e ora mi appare quasi estranea. La casa di Vittoria, una villa di ultima generazione costruita sulle rive del lago, teatro di feste e pomeriggi di studio fino a tardi, coronati dalle nostre serie tv preferite (allora non avevamo Netflix) e l'immancabile merenda a base di pane in cassetta e nutella.
Ora, avvolta nella nebbiolina e incorniciata da una graziosa ghirlanda di agrifoglio, mi sembra appartenere a un'altra dimensione, un'altra storia, come se la stessi spiando attraverso lo schermo di un televisore.
Indugio ancora un po', indecisa se entrare o meno. Due anni sono tanti, e sono accadute tante cose. Quando sono partita, credevo che fosse la cosa migliore per tutti. Io avevo bisogno di trovare la mia strada, di staccarmi da una famiglia ormai tossica e inerte, convinta che con l'eliminazione della pecora nera anche loro sarebbero andati avanti, avrebbero risolto finalmente i loro problemi senza un elemento scomodo a cui badare. Ora invece mi rendo conto che in tutto questo tempo i problemi sembrano essere triplicati.
Avevo deciso di ritornare a casa per quel Natale, pensando che finalmente gli animi si fossero un po' acquietati, che i miei genitori si fossero rassegnati alle mie scelte e che l'eterna faida con mio zio sull'eredità si fosse un pochino risolta. So che avevano smantellato il ranch, venduto tutti i cavalli rimasti e trasformato il terreno in un complesso di villini a schiera, uno dei quali era stato ereditato da mia cugina Cassandra, che aveva trasferito la Quarter nel centro del suo istruttore per continuare la carriera agonistica nel reining ed era andata a convivere con il suo compagno dopo aver conseguito il Master in Scienze della Comunicazione. A quanto sapevo, aveva iniziato da poco uno stage retribuito presso un'azienda locale e presto l'avrebbero assunta part time. Mio cugino Adriano, invece, stava finendo gli studi in Ingegneria e stava iniziando a orientarsi nel mondo del lavoro, tra l'altro assai competitivo all'interno del suo settore.
Questi erano stati i racconti al pranzo di Natale, allestito a casa di mio zio come da tradizione dalla morte del nonno. Era un ricco casale di campagna, dove per un periodo Cassie aveva alloggiato Miss Drover, la sua cavalla, in attesa di trovarle una sistemazione definitiva. Adoravo quella casa, dallo stile semplice e rustico, come piaceva tanto al nonno. Molti mobili erano stati portati lì apposta dal ranch prima che lo smantellassero. Potevo riconoscere la cassettiera in legno all'ingresso e il tavolo del salotto imbandito per Natale, che un tempo occupava il centro della club house. Sono sicura che da qualche parte, sotto l'abbondante strato di cera e prodotti con cui è stato restaurato, conservi ancora i segni degli interminabili pomeriggi in cui io, Cassie e il resto della compagnia del maneggio facevamo i compiti davanti al caminetto, in attesa di entrare in campo a fare lezione, o delle lunghe partite ai più svariati giochi da tavolo in cui toccavamo le soglie del disagio più imbarazzante.
Il pranzo è stato un errore, me lo sentivo sin dal primo momento, eppure la mia innata testardaggine mi ha spinta ad andare fino in fondo, in attesa di un insperato segnale di miglioramento da parte dell'atmosfera generale. Non c'è mai stato buon sangue tra mia madre e suo fratello Cristiano. Sono sempre stati molto diversi, e alla fine la loro rivalità è esplosa nel momento in cui il nonno si è ammalato. Il ranch era tutto quello che ci lasciava, e finalmente le mille polemiche che avevano costellato la sua scelta di aprirlo molti anni prima erano esplose in tutta la loro violenza. Per mia madre (e mia nonna prima di lei) il ranch era stato un errore, e i cavalli un assurdo dispendio di energia e di denaro che erano andati a scapito della stessa famiglia. Tutto il contrario di mio zio (a giudizio di mia madre il favorito da parte del nonno), che vedeva nel ranch un'autentica miniera d'oro da far fruttare in ogni modo possibile. Quando mia madre aveva preteso la sua parte, tra i due si era scatenata una violenta lite, che era culminata con la mia decisione di andarmene da lì al più presto, prima che arrivassero le ruspe.
In tutto questo, il mio parere non era stato minimamente considerato, per quanto avessi ormai abbondantemente raggiunto l'età della ragione. Probabilmente perché mia madre vedeva in me l'unica, pericolosa erede di mio nonno, e voleva stroncare il perpetrarsi della sua "malattia per i cavalli" sul nascere. Tutto il contrario di mia cugina, che – a differenza di me – era sempre stata fomentata dal punto di vista equestre. Mio zio amava i cavalli e l'equitazione al pari di mio nonno, anche se aveva sempre prediletto la monta americana piuttosto che quella inglese. Era un tipo da rodeo, mio zio, e non era raro vederlo aggirarsi per il ranch in jeans e cappello da cowboy tanto per fare scena. Cassie era uguale, e aveva imparato a cavalcare quasi prima di parlare e camminare. Mio zio la metteva in sella ai suoi Quarter da competizione quando ancora si trovava sul passeggino e la portava a spasso per la tenuta tenendola in braccio sulla sua colossale sella americana. Aveva ricevuto il suo primo cavallo come regalo per la prima comunione, il secondo per i sedici anni e il terzo, Miss Drover, per la laurea. Aveva avuto sin da subito una brillante carriera agonistica nel reining e aveva partecipato con successo anche a competizioni internazionali. A quanto diceva, si sentiva con la figlia di Michael Schumacher, che incontrava spesso nelle gare all'estero.
"Sei solo invidiosa, Anna. Tutto qui" mi sussurra una voce malefica nella mia testa mentre questi pensieri mi tormentano innocentemente, e io non posso che darle ragione.
Mentre Cassie faceva le sue passeggiate in sella ai Quarter dello zio, io ero nascosta tra i cespugli a fissarla con gli occhi spalancati dalla voglia di provarci anch'io, chiedendomi che cosa avessi di diverso per non poter vivere a mia volta quell'esperienza straordinaria, magari insieme al mio papà.
Non so di preciso quando scoccò la mia passione per i cavalli; ho come la sensazione che ci sia sempre stata, come un istinto innato. L'aria del maneggio, l'odore intenso dei cavalli, il suono dei loro zoccoli e il movimento dei loro corpi erano stati come una sorta di imprinting, per me. Quando ero con loro, tutto mi veniva incredibilmente spontaneo e naturale. L'esatto opposto di quello che mi accadeva lontano dal ranch, dove apparivo goffa e introversa a dei livelli imbarazzanti.
Era stato il nonno a mettermi in sella per la prima volta, all'età di quattro anni. All'epoca avevo il divieto assoluto anche solo di avvicinarmi ai cavalli.
«È pericoloso!» questa era la risposta secca e automatica a qualsiasi mia richiesta di rompere quel divieto, come se avessi dovuto rimanere sulla sedia a rotelle non appena uno di loro avesse provato ad alitarmi in faccia.
Tuttavia, una mattina d'estate il nonno mi prese per mano e mi fece montare su Orpheus, il suo anziano stallone. Ricordo che fui travolta da una tempesta di emozioni, oscillando in maniera vertiginosa tra un'euforia incontenibile e la paura paralizzante di stare infrangendo il più terribile dei divieti, tuttavia dopo pochi istanti tutto divenne facile e spontaneo, come se l'avessi sempre fatto. E anche se feci solo pochi metri di passo, aggrappata ai ciuffi di criniera con le gambette grassocce che dondolavano nel vuoto senza alcuna grazia, ormai il danno era fatto. E da lì in poi non mi sono mai fermata, per quanto il mio cammino si sia presentato puntualmente tortuoso e pieno di inciampi.
Ma ritorniamo al pranzo di Natale. Sin dall'inizio sapevo che sarebbe stato un errore, tuttavia al momento dell'invito avevo accettato con la massima innocenza, sperando ingenuamente che le cose non precipitassero come effettivamente era accaduto.
Le tensioni tra i parenti serpenti non si erano minimamente acquietate, questo l'avevo percepito sin dal primo momento in cui avevo messo piede nel salone riccamente imbandito e decorato per Natale. Per tutta la durata del pranzo, la famiglia di mio zio non ha fatto altro che bersagliarmi di domande, chiedendomi che cosa stessi facendo e ribattendo puntualmente con gli ultimi aggiornamenti sulla situazione di Cassie, che tra le altre cose stava anche pensando di mettere su famiglia con il suo compagno, presente al suo fianco – e da lì è diventato automatico chiedere anche il motivo per cui anche quell'anno, come al solito, Fede non fosse con me –.
Ma la cosa peggiore è stato l'atteggiamento dei miei genitori. A ogni mia risposta, avvertivo il loro sguardo bruciare su di me, come se il fatto che lo stage che stavo svolgendo presso una casa editrice locale fosse scavalcato dai miei interminabili pomeriggi in maneggio a sellare i cavalli della scuola e pulire i box fosse una macchia indelebile nella mia fedina penale, e arrivando di tanto in tanto a troncare il discorso nel momento in cui sembravo dilungarmi troppo, neanche stessi dicendo qualcosa di particolarmente sconveniente.
Ecco, ciò che mi faceva più male. Il senso di vergogna verso di me, come se ormai avessero appurato che io fossi un autentico fallimento. Li avevo delusi, li avevo delusi su tutto. Non solo non ero venuta su come volevo, ora stavo mandando al diavolo il mio futuro per un lavoro incerto, duro e maledettamente sporco. Sarei finita sotto a un ponte, su questo ne erano certi. Il tutto dopo aver fatto anni e anni di sacrifici per me.
Quella sensazione bruciante che mi aveva divorato le viscere per tutto il pranzo si era rivelata una volta a casa, nel momento in cui era calato un silenzio carico di imbarazzo nello stesso istante in cui avevo varcato l'ingresso. Mio padre mi ha tenuta all'angolo per un'ora e mezzo, riversandomi addosso tutto quello che non era riuscito a dirmi negli ultimi ventiquattro mesi, senza risparmiarmi alcun dettaglio. Di come avevo buttato via la mia vita, di come li avevo delusi. E aveva parlato male anche di Federico, definendolo un idiota totale.
A quel punto, non ce l'avevo fatto più. Ero implosa, letteralmente. Non avevo detto una sola parola, non avevo pianto, non avevo urlato. Avevo semplicemente recuperato la borsa e mi ero chiusa in camera, senza più alcuna voglia di reagire. Perché, nonostante mi facesse un male cane ammetterlo, sapevo che aveva maledettamente ragione.
Il flusso dei miei pensieri viene improvvisamente interrotto dallo squillare deciso del mio cellulare, abbandonato sul sedile passeggero. È Vittoria, mi sta chiamando. Afferro l'apparecchio prima che smetta di suonare, anche se dentro di me non ho alcuna voglia di rispondere. A essere sincera, non vorrei nemmeno trovarmi lì, costretta a dover raccontare per l'ennesima volta la stessa storia.
«Oi?» butto giù all'interno del ricevitore.
«So che sei là fuori, ho riconosciuto la macchina dalla finestra» la voce di Vittoria risuona più alta di due ottave del normale all'interno dell'apparecchio. «Coraggio, ti ho già aperto il cancello. Non vorrai mica negarci tutti i racconti che aspettiamo da te prima che arrivino gli ospiti, vero?»
«No, no, tranquilla!» in realtà ci avevo pensato, ma non mi sembrava educato esprimere la cosa apertamente. «Adesso arrivo.»
«Bene. Sappi che ho già messo su il tè, vedi di non farlo freddare.»
«Agli ordini, mein Fuhrer!»
Provo l'istinto di raggomitolarmi all'interno del mio piumino rosso. Il termometro segna meno due gradi sotto lo zero, e non mi va di affrontare il freddo che mi separa dall'interno della casa di Vittoria. Sono sempre stata un tipo che soffre l'inverno, e quando devo uscire la sera ho sempre la sensazione di essere vestita troppo poco, e che i maglioni che metto per apparire più carina del solito siano in realtà molto meno caldi dei morbidi vestiti che indosso per montare. Ho già freddo, e ne avrò per tutta la serata, me lo sento.
Ma Vittoria ha già messo su il tè, e so che sarebbe capace di venirmi a scardinare di peso dall'interno dell'auto, se non mi sbrigo. Riconosco la Lancia della madre di Cornelia, posteggiata accanto alla siepe, come se il tempo non fosse mai passato in questi due anni. Ma, forse, è solo l'ennesima illusione.
Mi faccio coraggio ed esco dall'auto. Il freddo mi pugnala implacabile, penetrando attraverso il sottile strato delle calze che sfuggono tra gli stivali e il maglione lungo che mi arriva fin quasi alle ginocchia, fasciandomi stretta. Mi stringo negli abiti e marcio lungo il vialetto circondato da luminarie, sbirciando oltre il cancello come se fossi un'estranea. Dall'interno, mi sembra di percepire un vago aroma di zucchero e di agrumi. Lo stesso del mio tè preferito.
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