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  Il cielo è grigio, quasi in sintonia con il mio stato d'animo. Ogni tanto una folata di vento mi scompiglia alcune ciocche di capelli sfuggite sulla fronte dalla stretta treccia che mi ricade sulla spalla, ricordandomi quanto sia cruda e impietosa la natura. Sono davanti casa intenta a stendere i panni appena lavati. Le mani gelate dall'acqua mi fanno male, ma il dolore fisico è un sollievo rispetto al vuoto che sento dentro. Ricordo ancora quando osservavo mia madre farlo. Andavamo vicino al ruscello che scorre non lontano da casa nostra. L'acqua fredda correva tra le rocce. Mia madre mi sorrideva, prendendomi per mano e mostrandomi come strofinare i panni dopo averli immersi in acqua, cenere ed essenze che mia madre creava da piante e fiori.
<<Vedi tesoro>> mi diceva con voce dolce <<Devi strofinare bene qui, dove il tessuto è più sporco. Così, brava, continua così>>. Le sue mani erano forti, segnate dalle battaglie, ma delicate mentre mi guida nei movimenti. La sua pazienza infinita. Mi insegnava a riconoscere il momento giusto per sciacquare, come sentire la morbidezza del tessuto pulito sotto le dita. Ogni tanto, rideva mentre io schizzavo acqua dappertutto, giocando più di quanto lavorassi. La sua risata era contagiosa, e presto mi univo a lei, dimenticando per un momento la serietà del compito. Ma poi, con dolce fermezza, mi riportava al lavoro, insegnandomi l'importanza della disciplina e della dedizione. <<Un giorno>> diceva <<Sarai tu a fare queste cose per la tua famiglia. Deve essere fatto bene>>.
  Il ricordo svanisce mentre torno al presente, con le mani che lavorano automaticamente. Mi accorgo che sto stendendo i panni con la stessa cura che mia madre mi ha insegnato tanti anni fa. Ogni gesto è un tributo a lei, un modo di onorare ciò che mi ha trasmesso.
  Mi fermo un momento, guardando le nuvole grigie nel cielo. Nonostante il freddo e il dolore, sento una calda sensazione di gratitudine. Le lezioni di mia madre sono un tesoro prezioso che porto con me, un legame con il passato che mi dà forza nel presente.
Non solo le sue.
Poco distante, sul tavolo di legno grezzo, ci sono alcuni conigli e trote appena pescate. Devo pulirli, ma la mia mente vaga ancora al funerale di mio padre. Lo abbiamo fatto secondo le antiche tradizioni. Abbiamo costruito una pira funebre imponente su una barca che Floki ha costruito apposta, usando la miglior legna che avevamo. L'abbiamo spinta verso il largo mentre canti di racconti e speranza lo accompagnavano verso il Valhalla. Le varchirie lo avrebbero preso con loro e guidato verso la sala di Odino dove si sarebbe ricongiunto con mia madre in attesa della battaglia finale. I figli di Ragnar si sono offerti di scoccare le frecce da prima accese da me. Come piccole stelle cadenti nel cielo al tramonto, si sono mosse verso la barca, consumando il suo corpo e lasciando solo cenere e ricordi.

Ricordo ancora il calore delle fiamme sul mio viso portato dal vento, il fumo che si alza verso il cielo e l'odore della legna che brucia, mescolato a quello della carne. La nostra gente si è radunata intorno, silenziosa, mentre venivano recitate le preghiere agli dei. Le lacrime rigano il mio volto, ma nessun singhiozzo sfugge dalle mie labbra. Devo essere forte, come lui mi ha insegnato.
  Finito di stendere i panni, mi asciugo le mani sul grembiule e respiro profondamente. Ho ancora tanto da fare, la vita deve andare avanti.
  Mentre i pensieri si affollano nella mia mente, le mani lavorano automaticamente. Prendo un coniglio dopo l'altro, pelandoli con cura. La pelle scivola via sotto le mie dita esperte, rivelando la carne bianca sottostante. Poi tocca alle trote, le loro squame argentate riflettono la poca luce del giorno. Le apro con un coltello affilato, rimuovendo le viscere con precisione.
  Lo guardavo con gli occhi sgranati mentre lo osservavo. Stava seduto su un tronco tagliato, vicino ad un fiume in Britannia. Davanti a noi, un coniglio appena cacciato e alcuni pesci appena pescati. Mio padre mi guardava con un sorriso rassicurante mentre mi passava io suo coltello preferito, abbastanza piccolo da poterlo maneggiare con sicurezza. Ero titubante. L'ultima volta che ci avevo provato mi ero tagliata. <<Vieni qui, piccola>> mi diceva con voce calda, <<Oggi ti insegnerò come farlo bene. È un compito importante, devi farlo con attenzione>>. Le sue mani si muovono con abilità e precisione mentre mi mostra come incidere la pelle del coniglio, separandola dalla carne con delicatezza. Ogni movimento è calcolato, e mi guida pazientemente, correggendo i miei errori con gentilezza. <<Vedi? così. Non avere fretta, prenditi il tuo tempo>> sussurrava, facendomi vedere come infilare il coltello sotto la pelle senza rovinare la carne e soprattutto senza farmi di nuovo male. Con la sua guida, cominciai a sentirmi più sicura. Le mie mani, anche se piccole e inesperte, seguono i suoi movimenti, imitando la sua destrezza. Dopo un po', riesci a pulire il coniglio da sola, e il suo sorriso di approvazione e le sue esultazioni erano il premio più grande. Passammo alle trote. Mi mostrò come rimuovere le squame, facendole scivolare via con un movimento fluido del coltello. Poi, con un taglio preciso, aprì il pesce e mi insegnò a rimuovere le viscere, spiegandomi l'importanza di mantenere la carne pulita e intatta. <<Il pesce deve essere trattato con rispetto. È un dono del mare, e dobbiamo onorarlo con il nostro lavoro. Così come tutti gli altri animali che cacciamo. Sono un dono di Midgard, non siamo i loro padroni>>.
  Ogni tanto alzo lo sguardo verso il mare.  Ogni onda sembra sussurrarmi il suo nome, ricordandomi che, nonostante tutto, lui è ancora con me, nel vento, nelle onde, in ogni respiro. Per un momento mi concedo di sentire il peso della loro assenza, permettendomi di essere solo una figlia che ha perso il suoi genitori, prima di tornare ad essere la donna guerriera che devo essere.

  Mi sento richiamare e vedo Rebeka avvicinarsi, scuotendo una mano sopra la testa in segno di saluto. <<Ti ho portato delle cose>> afferma appoggiando bruscamente il sacco che si portava dietro. Pulisco le mani con acqua e le asciugo nel grembiule prima di sbirciare all'interno del sacco il cui nodo è ora allentato. Ci sono patate e ortaggi dal mercato che avevo detto alla mia amica che, una volta essermi ripresa dal funerale, avrei dovuto comprare. <<Avrai speso una fortuna>> le dico ringraziandola, portando dentro gli animali puliti e il sacco. <<Mi sembra il minimo in realtà. Non mi devi dei soldi, ricambierai il favore>> afferma appoggiando il sacco sul tavolo della piccola dispensa. <<In che modo?>> le chiedo mettendo la carne a conservare prima di farla essiccare.
<<Potresti venire con me>> ipotizza Rebeka gongolando, guardandomi come se fosse un cerbiatto. <<Dove?>> chiedo alzando un sopracciglio. <<ti porto da chi ti può tirare su il morale>> risponde sorridendo e alzando le spalle. 


  Raggiungiamo il capanno di caccia dove i ragazzi passano ancora la maggior parte del loro tempo. Scavalco la staccionata mentre Rebeka preferisce fare il giro ed entrare dall'apertura nella recinzione. I ragazzi ci salutano mentre li raggiungiamo. Hanno piazzato diverse trappole nel bosco, in punti che secondo Ubbe erano strategici, e sono stati ricompensati con diversi scoiattoli, alcune lepri e persino un daino. <<Caccia buona>> affermo prendendo posto accanto a Ivar che mi guarda come se avesse preso quegli animali con la sola forza delle sue mani. <<Una cena degna di nota>> risponde il maggiore dei quattro fratelli, affilando un coltello dalla lama lunga e l'elsa di osso. Tra le chiacchere e i battibecchi il tempo vola. Abbiamo aiutato i ragazzi a legare le prede a delle corde, i più piccoli infilati in alcuni sacchi di tela. Sono grata che i miei amici mi fanno vivere un po' di pace.
Porgo a Hvitserk il suo pugnale che ho pulito con cura e mi sorride, lasciandomi un bacio all'angolo della bocca. Quando il sole è quasi alla sua massima altezza nel cielo, Rebeka si avvicina a me e Hvitserk. Come da consuetudine comunichiamo con lo sguardo e mi alzo in piedi. <<Noi andiamo, abbiamo delle cose da fare. Vi raggiungiamo più tardi nella grande sala>> dico salutando i fratelli ad uno a uno e ci incamminiamo sul sentiero dove i nostri cavalli sono legati a un albero. Rebeka mi guarda con un sorrisetto che cerca malamente di nascondere. <<Che hai?>> le chiedo sistemandomi più comoda sulla sella. Lei alza le spalle impugnando le briglie. <<Vi vedo bene insieme>> afferma senza darmi il tempo di replicare perchè inizia ad allontanarsi seguendo il sentiero. Scuoto la testa e mi giro un'ultima volta ad osservare il capanno. Sulla soglia Hvitserk mi saluta con la mano.


   La prima persona a venirci incontro appena entrate nella grande sale è Ubbe. Ha messo uno dei suoi vestiti buoni, segno che questa cena di famiglia non è come le altre. <<Ciao bellissime>> ci saluta baciandoci le guance. Lo seguiamo nell'altra stanza dove i suoi fratelli sono tutti con un calice in mano e ci invitano a sedere con loro. Guardo la mia amica che è rimasta incantata a scambiare profonde occhiate a Ivar. Le do una gomitata nelle costole e con la testa indico le due sedie accanto al tavolo. Mi siedo accanto a Hvitserk mentre Rebeka siede vicino a Sigurd. Il giovane ragazzo accanto a me, porgendomi un calice, sussurra "Skol". Picchio il bicchiere contro il suo e, ripetendo la medesima parola, bevo un piccolo sorso del suo contenuto. Il liquido leggermente alcolico mi brucia la gola, ma ormai ci sono abituata. <<Ti sta bene questo vestito>> sussurra a pochi centimetri dal mio orecchio, mentre la sua mano calda mi accarezza il ginocchio coperto dal tessuto verde scuro della lunga gonna. Abbasso gli occhi un po' imbarazzata e, nel mentre, cerco una risposta. Volto il viso verso di lui e i nostri nasi si sfiorano. Vorrei rispondergli ma un gran vociferare ci giunge dall'esterno dalla sala. I nostri sguardi si uniscono tra loro, tutti con la stessa domanda in testa: cosa sta succedendo?
Ci alziamo tutti e con passo svelto usciamo in piazza dove una gran folla si è radunata al centro di essa. Facendoci spazio tra le persone ci avviciniamo al centro. Come tutti gli altri, anche noi siamo colpiti.
La folla si è radunata intorno al grande Ragnar Lothbrok. Il famosissimo uomo rivolge uno sguardo fiero ai suoi figli, fermandosi sul più piccolo. Gli si avvicina sorridendo <<Ciao Ivar. È ovvio che sia tu>> guardo Rebeka e anche lei ha il viso pallido. Guardo Hvitserk, il fratello più vicino a me. Sta impugnando la spada. <<A quanto pare il mio ritorno non è il benvenuto>> continua Ragnar, guardando la folla. Inizia a camminare avanti e indietro dicendo che ci siamo fatti delle idee su di lui; molti lo credevano morto, altri lo consideravano troppo codardo per tornare. Eppure, ora che è qui, sembra che tutti si stiano pentendo dei loro pensieri. <<Chi è che lo farà?>> chiede guardando uno a uno la sua prole, uno più confuso dell'altro. <<Chi mi ucciderà?>> si spiega con nonchalance. Aggrotto le sopracciglia; dice sul serio?
Nessuno di loro risponde così si avvicina a uno di loro. <<lo farai tu Hvitserk? Pensi di essere abbastanza uomo?>> lo sfida. È così vicino che riesco quasi a sentire il calore emanato dal suo robusto corpo. Il ragazzo davanti a lui non risponde così, il padre lo incita <<FALLO!>> grida facendo arretrare di un passo tutti i presenti. Stringo la mano della mia migliore amica. Indica i presenti continuando a guardare con durezza e serietà il secondogenito che gli ha dato Asloug.<<Guarda queste persone. Non mi sostengono più. Perché dovrebbero? Sono il vostro capo eppure vi ho abbandonati. Che razza di re abbandonerebbe il proprio popolo?>> urla camminando in mezzo alla gente. Guardo le persone e nei loro occhi vedo tante emozioni diverse: paura; stupore; rabbia; delusione; compassione. <<Che razza di padre abbandonerebbe i propri figli?>> questa volta il suo tono si fa più basso e con esso si percepisce il pentimento nella sua voce. Ancora silenzio. I suoi gelidi occhi si posano su di me e sento un brivido. Pelato, la barba lunga e lievemente grigia, i tatuaggi che gli ricoprono il cranio... è cambiato, ma non il suo sguardo nei miei confronti. Ne sono sicura, mi ha riconosciuta.
  L'unico suono che rompe questa atmosfera è quello del vento leggero e delle onde che si infrangono sulla riva in lontananza. <<Chi vuole essere re?>> chiede più serio che mai ed estrae la spada dal suo fodero di cuoio, lanciando quest'ultimo. Si avvicina alle persone <<Sapete come funzione. Uccidetemi e sarete re>> spiega porgendo la spada a un uomo dai lunghi capelli grigi, ma lui rifiuta. Fa lo stesso gesto verso un anziano, ma pure lui si tira indietro. Dalla rabbia conficca la spada nel terreno urlando a squarciagola: <<CHI VUOLE ESSERE RE?>>.
  Dopo un attimo di esitazione, Ubbe impugna la spada muovendo passi decisi verso il padre. <<Ma è impazzito?>> mi sussurra Rebeka. Non le rispondo, sono troppo sconvolta. Ragnar appoggia la mano sull'elsa della spada ma non la estrae dal terreno. Si avvicina al figlio e con gran sorpresa, lo stringe a se. Tiro un sospiro di sollievo ma trattengo ancora il respiro quando, tra la folla, intravedo avvicinarsi Bjorn. Le persone lo lasciano passare e lui incrocia le braccia al petto. <<Perché sei tornato?>> gli chiede con tanta durezza, come se non fosse suo padre ma un uomo qualunque.

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