2.
Dopo il giro di saluti ho lasciato mio padre con loro, a riprendersi dal viaggio bevendo e mangiando grato finalmente dell'ospitalità di Kattegat, sono uscita dalla sala con un mucchio di domande e informazioni nella testa.
Kattegat è diventata una delle città commerciali più importanti della regione, e forse una possibile capitale in vista di una futura unione dei vari territori scandinavi. Mi aspettavo un ritorno diverso, più tranquillo, ma ho solo un gran mal di testa adesso.
Sovrappensiero imbocco il sentiero che conduce nel bosco e cammino in mezzo alla vegetazione e raggiungo la casa dove sono nata e cresciuta. Essa si erge fiera al limite del bosco, con il fiordo che si estende maestoso oltre la scogliera vicina. Costruita con tronchi robusti e scuri, è semplice ma resistente, riflettendo la maestria artigianale e la praticità dei suoi abitanti. Il tetto spiovente, coperto di erba e muschio, si fonde armoniosamente con l'ambiente circostante, offrendo isolamento e mimetismo. All'esterno, un piccolo orto ben curato fornisce erbe e verdure, mentre un sentiero battuto conduce verso la scogliera, dove le onde si infrangono rumorosamente contro le rocce. Le finestre, piccole e quadrate, sono incorniciate da scuri di legno, proteggendole dalle intemperie. La porta, pesante e intagliata da mio padre con immagini di draghi, creature, nodi norreni e rune, accoglie chiunque si avvicini emanando un senso di sicurezza. Con una spallata apro la vecchia porta di legno. Casa è ancora come ricordavo.
Appena varcata la soglia, l'interno rivela una grande stanza multifunzionale, con il focolare al centro, che è spento da tanti anni, dove noi bambini ci sedavamo intorno nel sentire le storie sugli dei e le avventure di guerra. Panche e tavoli di legno grezzo, coperti da pelli di animali, creano spazi per sedersi e mangiare, mentre strumenti di uso quotidiano e armi sono appesi alle pareti, pronti per essere usati. Il profumo del legno e del fumo si mescola con l'odore salmastro del mare, che arriva in folate portate dal vento. Due archi decorati separano la stanza dalle camere. Due tende fungono da porta per dividere le due stanze. Scosto quella a sinistra e entro nella mia stanza. Mi siedo sul letto che, abbassandosi sotto al mio peso, produce qualche scricchiolio. Prendo un profondo respiro osservandomi intorno. Ricordavo questa stanza più grande. O forse ero solo io ad essere più piccola. Alcune bambole di legno e stoffa sono adagiate con cura sulla cassapanca che contiene i vestiti di mia madre e le sue cose più preziose. Rifaccio il letto che ora è della misura perfetta per me e riordino casa prima dell'arrivo di mio padre. Siamo stati così a lungo lontani che le stanze si sono come fermate nel tempo. Al piano di sopra, raggiungibile dalla ripida scala di legno intagliato, c'è la stanza dei miei genitori. Posto in cui non oso andare. Se mi soffermo a guardare verso l'alto posso ancora sentire le grida di mia madre. Distolgo lo sguardo. Con l'aiuto di alcune pietre focaie accendo il braciere. Rimango un po' davanti il fuoco, mentre la stanchezza inizia ad avere la meglio. Mi perdo ad osservare le fiamme, persa nei pensieri che non mi danno tregua. Se da prima cercavo di abituarmi alla nuova città ora sono concentrata totalmente su mio padre. Una mano si appoggia sulla mia bocca per evitare di farmi urlare. Quando i miei occhi si incontrano a quelli di Ivar rilascio un sospiro di sollievo e sposto la mano dalla mia faccia <<Ivar, come sei entrato?>> chiedo rilassando le spalle e incurvandole leggermente in avanti. Lui sorride e si guarda alle spalle <<La porta era aperta>> dice semplicemente alzando le spalle. Sorridendo guarda dietro di lui e dalla porta entra una giovane donna dai lunghi capelli scuri e un abito rosso. <<Come sempre>> afferma sorridendo e spalancando le braccia. Mi alzo per raggiungerla, ricambiando la sua stretta con tanta forza da rischiare di far cadere entrambe o di pestare il povero Ivar. <<Hai sistemato tutto da sola?>> mi chiede Ivar strisciando per la stanza, interrompendo la riunione tra me e la mia migliore amica Rebeka. Se non fosse stato per la voglia scura che le copre la parte sinistra del volto, non l'avrei mai riconosciuta. Annuisco. <<Mi piace sai? E' come se non te ne fossi mai andata>> afferma lei sedendosi dall'altra parte del focolare mentre il sorriso si allarga. Mi sposto una ciocca di capelli dietro l'orecchio e sospiro, il mio sguardo vaga per la stanza. Su una colonna portante, vicino alla scala, sono scolpite nel legno delle linee sormontate dal mio nome. Le ha fatte mia madre dal momento in cui ho imparato a stare in piedi. Sorrido scuotendo la testa per riprendermi dal viaggio nei ricordi e punto lo sguardo sul giovane difronte a me. <<Voi cosa mi raccontate?>> gli chiedo impaziente di sapere quello che hanno fatto mentre io non c'ero. Apprendo di battaglie sanguinose e tanti morti da non riuscire a tenerne il conto. Il rapporto difficile tra i figli di Aslaug è sempre più ostico e, a quanto pare, dopo la sconfitta di Parigi, Ragnar è come scomparso. Molti lo credono morto, altri troppo codardo da tornare. Nell'udire queste storie mi si stringe il cuore. Fatico a credere che il grande Ragnar Lothbrok sia tornato a casa con la coda tra le gambe per poi non farsi più vedere. Ricordo un uomo pieno di ambizioni e curiosità, che mi ha insegnato a guardare lontano. Colui che torreggiava su tanti, che era persino riuscito a convertire un cristiano. Ricordo un uomo saggio e gentile, quasi un secondo padre per me che come dono di addio mi aveva regalato una pietra solare dicendomi "Così, anche quando le nuvole copriranno il sole tu riuscirai ad andare ovunque vorrai". Il ricordo che ho di quell'uomo è ben lontano dalle parole che adesso sto ascoltando.
Dopo aver accompagnato il mio migliore amico a casa insieme a Rebeka, parlando dei viaggi che ho intrapreso, ho incontrato Hvitserk per strada. Stava attraversando il mercato, spada corta in vita e sguardo schivo. Una parte di me voleva raggiungerlo, chiedergli come stava e cosa aveva fatto in questi anni. L'ultima volta che l'ho visti, prima della mia partenza, era un bambino di sette anni che pensava a divertirsi con suo fratello e con gli altri bambini della città, facendo arrabbiare sua madre cacciandosi nei guai.
Mentre mi addentro nel bosco, i miei occhi si abituano lentamente alla penombra creata dal fitto intreccio di rami e foglie. I colori sono un mosaico di verdi profondi, punteggiati dai raggi di sole che filtrano tra le chiome degli alberi, creando macchie di luce dorata sul terreno umido. I sentieri che un tempo percorreva con sicurezza ora appaiono un po' diversi, meno definiti, quasi inghiottiti dalla natura in crescita. Ad ogni passo, il fruscio delle foglie sotto i piedi si mescola con il canto melodioso degli uccelli e il lontano ronzio degli insetti. Il vento sussurra tra i rami, portando con sé l'odore fresco della terra bagnata e delle piante selvatiche, un aroma familiare che riaccende ricordi lontani. Ricordo quando giocavamo a nasconderci nel bosco e fingevamo di essere famosi guerrieri che si danno battaglia per salvare la vita delle loro principesse che, spesso e volentieri mio malgrado, la parte toccava a me e a Rebeka.
I tronchi degli alberi, coperti di muschio e licheni, sembrano più alti e massicci, e le radici sporgenti intralciano il mio cammino, come vecchi amici che cercano di attirare l'attenzione. Ogni suono è amplificato nella solitudine del bosco: il crepitio di un ramo spezzato, lo scricchiolio delle foglie calpestate, il battito delle ali di un uccello che si alza in volo improvvisamente. Questi suoni, una volta familiari e rassicuranti, ora sembrano estranei, quasi misteriosi, aumentando la mia consapevolezza di quanto il tempo sia passato e di come tutto sembri cambiato. Mentre mi avvicino alla casa sulle sponde della baia, un misto di nostalgia e anticipazione cresce dentro di me. Il vecchio albero cavo che usavo come rifugio è ancora lì, ma più logoro, segnato dal tempo e dagli agenti atmosferici. La piccola radura che un tempo era un luogo di giochi spensierati è ora coperta di felci e cespugli, quasi come se la natura avesse cercato di cancellare le tracce del passato. Mi fermo per un momento, chiudendo gli occhi e ascoltando il cuore pulsante del bosco. Anche se tutto sembra cambiato, sento una connessione profonda con questo luogo, un legame che il tempo non ha potuto spezzare. Riaccendere quei ricordi e ritrovare un senso di appartenenza in mezzo a tanta trasformazione mi dona un senso di pace e continuità, come se la natura mi stesse sussurrando che, nonostante tutto, sono sempre la benvenuta. Come se gli dei stessi mi stessero dando il ben tornato.
Esco dal bosco e già da lontano riconosco la chioma bionda di Helga, intenta a sistemare dei vestiti suoi e di Floki. E' al sole, alcune ceste di bucato ai piedi e le mani veloci e indaffarate sui vestiti bagnati che stende con forza sulla corda tesa.
Muovendo i passi lentamente cercando di fare il minimo rumore mi avvicino a lei. Le stringo le braccia intorno a i fianchi, ringhiando. Sono stata via a lungo, ma le mie abitudini non sono cambiate. Helga si gira spaventata, gridando. <<Zia Helga, sono io. Sono Martha>> la rassicuro facendo alcuni passi indietro. Riconoscendomi subito, si appoggia al tavolo dietro di lei per non svenire <<Oh grande Odino>> dice tirandomi a se, mentre le lacrime scorrono copiose sulle sue guance, rigandole di nero <<Sei davvero qui o è solo una visione?>> mi chiede prendendomi il viso tra le mani <<Oh zia, non sono una visione. Sono davvero qui>>scivoliamo a terra, senza staccarci l'una dalle braccia dell'altra. Helga inizia ad urlare il nome dell'amato marito senza smettere di strizzarmi le guance e attirarmi al suo petto.
Floki esce dal piccolo cantiere navale brandendo l'ascia, minacciando chiunque abbia scombussolato la quiete della sua proprietà. Mi alzo da terra e gli corro incontro, saltandogli in braccio. Il costruttore di navi mi osserva un attimo ma poi si lascia andare. Lascia cadere l'ascia a terra e mi abbraccia ridendo. Sicuramente sapeva già del mio arrivo.
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