4.
La nebbia serpeggia come un serpente maligno tra gli alberi, ricoprendo il sottobosco desolato in un manto denso e opprimente. Ogni respiro è un colpo di gelo che mi trafigge i polmoni, e l'umidità si attacca alla mia pelle, penetrando nelle ossa. Il silenzio è innaturale, quasi assordante, rotto solo dal mio respiro che sembra risuonare come un'eco lontana. Le mie mani, intorpidite dal freddo, si aggrappano ai tronchi degli alberi, cercando un appiglio sicuro su quella superficie viscida di muschio. Il contatto è sgradevole, come stringere qualcosa di vivo, pulsante, ma in decomposizione.
Da lontano, i suoni emergono attraverso la nebbia come ricordi di un passato violento: il ritmato tambureggiare degli scudi colpiti, le grida roche dei guerrieri, urla di guerra e morte. Il suono è distante, ma cresce come una minaccia, facendomi battere il cuore con un ritmo incalzante. Ogni passo è un tormento, inciampo in radici nascoste sotto la coltre di nebbia, e ogni caduta mi sembra un abisso senza fondo. Il terreno sotto i miei piedi è instabile, freddo, e ogni passo sembra condurmi più vicino a qualcosa di terribile.
Alla fine, la foresta si dirada. Davanti a me si stendono le capanne della periferia di Kattegat, ma c'è qualcosa di sbagliato. L'aria odora di terra bagnata, di legno marcio e di morte. Al centro della piazza, un uomo mi guarda, immobile. Il suo corpo è scosso da piccoli tremiti, come se stesse lottando per restare in piedi. Il suo volto è uno spettrale dipinto di bianco, rosso e nero, come se la pelle fosse strappata a brandelli. Una corona di ossa gli stringe la testa, e il sorriso che mi rivolge è tanto innaturale quanto macabro. I suoi denti brillano sotto la luce fioca, come lame pronte a colpire.
Alza un braccio, e in quell'istante il gelo si impadronisce di me. Il mio corpo si blocca, intrappolato in un freddo paralizzante. È come se fossi diventata una statua di ghiaccio, incapace di reagire, incapace persino di respirare. Le mie membra non rispondono, e la paura mi attanaglia, rendendo ogni pensiero un urlo soffocato.
Poi, una mano. Leggera, quasi impercettibile, si posa sulla mia spalla. Mi giro, il cuore che sobbalza, e vedo Rebecca. Il suo sorriso dolce è un faro in questo incubo, il calore che emana scioglie il gelo che mi imprigiona. Mi getto tra le sue braccia, il suo profumo familiare di erbe e fiori mi riempie i sensi, e un senso di pace inizia a sostituire l'angoscia. <<Sei viva! Mi sei mancata così tanto>> le sussurro, la voce rotta, mentre affondo il viso tra i suoi capelli biondi.
Ma quando riapro gli occhi, il viso che ho di fronte non è più quello di Rebecca. I lineamenti dolci si sono trasformati in una maschera di odio. Margrethe. Le sue dita affilate si stringono sulla mia spalla, e prima che possa reagire, sento il freddo del metallo affondare nel mio ventre. Il dolore esplode in una morsa feroce, e sento il calore del sangue scorrere sulla mia pelle, tingendo di rosso la mia veste bianca. Il mondo si restringe attorno a quel dolore lancinante, mentre Margrethe sussurra con voce velenosa: <<Ti avevo avvertita. Ora mi riprendo ciò che mi hai tolto>>.
Cado. Il terreno sotto di me è duro e spietato, e il mio corpo vi si schianta con un tonfo sordo. Il mio cuore batte piano, troppo piano, e la vista si annebbia. Respiro a fatica, ogni boccata d'aria è un tormento. Con uno sforzo disperato giro la testa, e il mio sguardo si posa su un corpo riverso a terra. Il volto pallido di Ivar mi fissa con occhi spenti. È morto. Un urlo muto si forma dentro di me, ma non esce.
Un tuono squarcia l'aria, e il mio corpo sobbalza violentemente. Mi metto a sedere di scatto, gridando, il respiro spezzato, il corpo coperto di sudore freddo. Il cuore batte selvaggiamente contro il petto, e la stanza intorno a me sembra vibrare. Le ombre delle candele tremolano sulle pareti, ma non riesco a distinguere il reale dal sogno. Le immagini dell'incubo mi avvolgono ancora, come un mantello che non riesco a scrollarmi di dosso. Cerco di riprendere il controllo di me stessa. Il bambino scalcia con forza, forse con l'intenzione di farmi riprendere più un fretta.
La porta si apre lentamente, e subito dopo vedo Ubbe avvicinarsi a me con passo rapido. Senza dire una parola, si arrampica sul grande letto e mi stringe tra le sue braccia, avvolgendomi in un abbraccio caldo e protettivo. Le sue mani scivolano dolcemente sulla mia schiena e sul mio ventre, il suo tocco è lieve, rassicurante.
<<Ho fatto un incubo terribile, Ubbe>> sussurro, osservando i suoi occhi color del ghiaccio. <<Ti prego, resta qui con me>> continuo, la voce rotta dai singhiozzi. Mi stringo ancora di più a lui, cercando rifugio nel calore del suo corpo, sentendomi piccola e fragile.
Con delicatezza, affonda la mano nei miei capelli sciolti, accarezzandoli come farebbe con una cosa preziosa. Il rumore della pioggia che batte contro i vetri delle finestre si mescola ai miei singhiozzi, creando una melodia malinconica. Gli racconto tutto, ogni immagine spaventosa che ho visto, e mentre parlo, il terrore sembra sciogliersi poco a poco, come neve al sole.
<<Era solo un sogno, Martha>>, mi rassicura con una voce dolce e calma. Con movimenti lenti, mi guida sotto le coperte, stendendosi accanto a me. Le sue dita tracciano un percorso leggero lungo il mio braccio, come se volesse disegnare sulla mia pelle una sensazione di pace. Poi inizia a canticchiare una vecchia canzone, una melodia che conosco bene, che parla di un uomo e del suo ritorno a casa dopo un lungo viaggio.
Le parole di quella canzone mi cullano, come se fossero una carezza sulle mie paure, e piano piano, il mio corpo si rilassa. Mi abbandono a quella voce familiare, lasciando che le ultime tracce dell'incubo svaniscano, fino a quando il sonno mi avvolge di nuovo, questa volta dolce e sereno.
****
Alzo lo sguardo su Torvi e Ubbe che, sotto lo sguardo incredulo dei sassoni, incrociano le spade in un allenamento che sembra più una danza che un combattimento. Torvi, con un sorriso sornione, schiva un colpo e lo prende in giro con una risata: <<Sei troppo lento, Ubbe>>. Mi lascio sfuggire un sorriso divertito, mentre affetto con calma la mela, tagliando un pezzo per me e uno per il falcone che riposa, vigile, sulla mia spalla. I suoi artigli si stringono leggermente, percependo la tensione nell'aria.
<<Non solo credono in Dei inesistenti, ma permettono anche alle loro donne di combattere>> sussurra un sassone al suo vicino, la voce carica di disprezzo. Senza alzare lo sguardo, lascio che il mio tono sia tagliente quanto il coltello che tengo in mano. <<E non solo ci permettono di combattere>>, dico con orgoglio, <<noi partoriamo i nostri bambini sul campo di battaglia, e li battezziamo col sangue che cola dalle nostre asce>>. Le mie parole lasciano gli uomini a bocca aperta, il loro sconcerto evidente. Il coltello che stringo nella mano è appiccicoso del succo della mela, che cola lentamente sulle dita, ma il mio sguardo rimane fisso su di loro, impassibile.
Il falcone sulla mia spalla emette un grido acuto, come un avvertimento, e i suoi occhi gialli si puntano minacciosi sugli uomini mentre spalanca le ali. Con un movimento fluido, faccio roteare il coltello nel palmo della mano e, con un gesto rapido del polso, lo lancio verso sinistra. La lama si conficca profondamente nella parete di una botte, a pochi centimetri dalla testa del primo dei due. Il suono del metallo che affonda nel legno fa sobbalzare gli uomini, che mi fissano con una paura malcelata prima di allontanarsi in silenzio, il loro orgoglio ferito.
<<Figli del demonio>> sussurra uno dei due. Un ghigno si forma sulle mie labbra, soddisfatta del silenzio che ha preso il posto delle loro chiacchiere vuote.
Mentre li guardo andare via, un movimento dall'altra parte della piazza attira la mia attenzione. Una giovane donna, vestita in modo elegante, mi sta osservando con occhi curiosi e guance che si colorano dello stesso rosso vivo del suo abito. Il suo imbarazzo è palpabile. Abbassa rapidamente lo sguardo e si chiude nelle spalle, camminando verso il grande portone del palazzo con una grazia composta. I miei occhi la seguono, affascinati dalla sua figura aggraziata, fino a quando scompare dalla mia vista. La futura moglie di Alfred.
<<Ti devo parlare>> esordisce improvvisamente Ubbe apparendomi a fianco. Scendo dal muretto con non poca fatica e lo seguo verso la stanza che il re ci ha lasciato per il tempo libero. Guardo le sue spalle che con regolarità si alzano e si abbassano. I suoi passi spediti risuonano sulla pietra del pavimento, le nostre ombre tremolano sulle pareti. Si ferma davanti la porta di legno e mi guarda dall'alto prima di aprirla. <<Promettimi solo che non ti arrabbierai>> dice afferrando la maniglia. Mi guarda negli occhi e corrugo la fronte, confusa e curiosa. <<Se dici ciò, vuol dire che mi arrabbierò Ubbe. E lo sai>> affermo ricevendo uno sbuffo come sua risposta, appoggiando le mani sulle mie spalle. <<Prometti>> ripete incalzante appoggiando la punta del naso al mio, come facevamo da bambini con suo padre. Ripeto il suo gesto accettando di non arrabbiarmi.
****
La grande sala di Kattegat ribolle di vita. I fuochi scoppiettano agli angoli, proiettando ombre tremolanti sulle pareti scolpite, mentre l'odore pungente di carne arrosto e spezie satura l'aria. I suoni della festa sono assordanti: risate, canti, il clangore dei corni pieni di birra, e il frastuono di calici che si scontrano in brindisi rumorosi. È la notte di Yule, la celebrazione della rinascita, e il popolo acclama il nuovo re, Ivar il Senz'ossa, con un fervore che si riflette nei volti ebbri di vittoria.
Ivar siede al centro della scena, la corona di ossa sulla testa e un sorriso tagliente dipinto sul volto, come un dio che osserva i suoi fedeli. Intorno a lui, ogni grido, ogni applauso è per il loro re-dio, il conquistatore di Kattegat. Ma Hvitserk, seduto accanto a lui appare lontano, distante da quella folla in festa. Il boccale di birra che tiene tra le mani sembra freddo, il calore del fuoco non riesce a raggiungerlo. Non c'è gioia nei suoi occhi, solo un vuoto che lo consuma da dentro.
La sua mente vaga lontano da Kattegat, lontano dalla festa, lontano dalla vittoria. Martha. Il suo volto si affaccia nella sua mente, ossessionandolo da quando l'ha lasciata dopo la battaglia. Incinta. Incinta del loro bambino, una vita che lui non conoscerà mai. Hvitserk serra le mascelle, sentendo un'ondata di rimorso salirgli dallo stomaco. Si pente di averla lasciata così, in un momento in cui il mondo intorno a loro crollava. Hanno rotto ogni legame con parole non dette, rabbia inespressa e la distanza crescente imposta dalla guerra. Si sono "salutati", certo. Ma non è servito a nulla. Lui aveva scelto Ivar. La gloria, la grandezza, la promessa di un futuro più grande sembravano allora la scelta giusta.
Ma ora? Ora, guardando il trono accanto a sé, tutto ciò che vede è un vuoto. La fama, la vittoria... sembrano insignificanti a confronto con ciò che ha perso. Martha. Il bambino che non abbraccerà mai. La loro vita insieme, strappata via dalle mani.
Le risate intorno a lui sembrano ovattate, lontane. Non riesce a sentirsi parte di quel momento. Il boccale scivola dalle sue dita, cade a terra con un tonfo sordo, ma Hvitserk non si preoccupa di raccoglierlo.
Una ragazza, dai capelli chiari e un vestito bianco che riflette il bagliore delle fiamme, si avvicina con un sorriso seducente. Gli tocca il braccio, il profumo dolce della sua pelle lo avvolge per un istante. <<Sei il fratello del re>>, gli sussurra vicino all'orecchio, la voce un misto di provocazione e desiderio. <<Dovresti essere tu a goderti questa festa più di tutti>>.
Hvitserk la guarda, ma i suoi occhi sono vuoti, stanchi. Non c'è interesse, non c'è calore in quello sguardo. Il sorriso che le rivolge è stanco, privo di vero sentimento. <<Non è la serata giusta per me>>, le dice piano, con una voce che si perde nel rumore della festa. La ragazza, sorpresa e ferita dal suo rifiuto, si allontana rapidamente, mischiandosi di nuovo alla folla.
Ivar, seduto sul suo trono, ha osservato la scena. Lo sguardo del fratello non gli è sfuggito. Con un gesto brusco e un sorriso tagliente, si volta verso Hvitserk. <<Fratello>>, dice, il tono carico di scherno, <<Stai davvero rifiutando tutte queste donne per cosa? Dovresti essere il primo a goderti questa vittoria, e invece sembri lontano miglia. Cos'è che ti tormenta?>> Hvitserk non risponde subito. Il suo sguardo è fisso sulle fiamme che danzano nel braciere davanti a loro. <<Non tutti siamo come te, Ivar>>, dice infine, con voce bassa. <<Non tutti possiamo vivere di vittorie e sangue. Alcuni di noi hanno perso qualcosa che non può essere sostituito>>.
Ivar ride, una risata breve e tagliente, carica di cinismo. <<Ah, Martha>>, dice il suo nome come fosse una battuta, quasi derisorio. <<Ti manca quella dolce creatura, è per questo che sei così cupo? Sei ossessionato da lei e da quel bambino che neanche è nato. E per cosa? Per una donna e un bambino lontano?>> Il tono di Ivar è pieno di disprezzo, come se non potesse concepire che qualcosa di così insignificante potesse distrarre suo fratello dalla gloria. Il nome di Martha, pronunciato da Ivar, colpisce Hvitserk come una lama. Si volta verso il fratello, gli occhi finalmente colmi di qualcosa, di rabbia trattenuta, e di dolore. <<Non è solo una donna, Ivar. Era mia amica, la tua migliore amica fin da bambini. Era la mia compagna>>. La sua voce si incrina, piena di amarezza. <<Noi l'abbiamo tradita e delusa>>.
Ivar, per un istante, smette di sorridere. Un'ombra di qualcosa, forse un ricordo, attraversa i suoi occhi. Anche lui aveva condiviso un legame con Martha, un'amicizia che aveva sacrificato per la sua sete di potere. Ma scuote la testa, come per scacciare quel pensiero.
<<Il passato è il passato, Hvitserk>>, dice con voce fredda, tagliente. <<Abbiamo vinto. Abbiamo Kattegat. E Martha è solo un altro ricordo di una vita che non ci appartiene più>>.
Hvitserk stringe i pugni, sentendo il peso di quelle parole schiacciarlo. <<E il futuro, Ivar? Quale futuro ci attende, se per raggiungerlo dobbiamo distruggere tutto ciò che abbiamo amato?>>. La sua voce è carica di tensione, la domanda sospesa nell'aria tra loro.
Ivar lo guarda, il volto di ghiaccio. <<Il futuro appartiene a chi è disposto a prenderlo. Io sono un dio, Hvitserk. E tu puoi essere al mio fianco, o rimanere indietro, consumato dal rimorso e da sogni che non esistono più>>.
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