Тоска
Una vaga irrequietezza
Settembre 2017, una settimana dopo. West Side, Chicago.
Bertolt si rigira più volte nel letto, trascinandosi dietro coperte e lenzuola, finché non diventa un tutt'uno di stoffa e arti mal riposti. Sembra trovare la posizione definitiva quando si sdraia sul fianco destro, in modo da poter osservare la porta della propria stanza, e da lì non si muove di un centimetro.
Ha gli occhi rossi e lucidi, le guance rese appiccicose dal sale, mentre un paio di occhiaie scure adornano il verde delle sue iridi. Sfarfalla parecchie volte le palpebre per cacciare via il pizzicore che gli infastidisce gli occhi, ma quello resta lì, imperterrito, a ricordargli che non ha ancora esaurito le lacrime e che ne ha molte altre da versare.
Nell'avvertire un pianto imminente, affonda la testa nel cuscino e vi tiene premuto il viso. Il calore si propaga fino alla base del collo e, sebbene senta la pelle ribollire, rimane così fino a quando non finisce lacrime.
La sua routine è rimasta invariata, nonostante le due settimane di vacanze estive: a seguito del traumatico risveglio, appoggia i piedi scalzi sul pavimento e, rabbrividendo a causa del gelo che gli pizzica le caviglie nude, sguscia fuori dal letto.
Lo scalpitio dei suoi passi riecheggia nelle stanze, disturba con irruenza il silenzio religioso che cala ogni sera all'interno della casa e che viene spezzato tutte le mattine, quando la sveglia decide di annunciare che il sole è sorto già da un bel pezzo.
Mentre avanza allo stesso ritmo di una marcia funebre, nella sua mente ricolloca i ricordi della giornata precedente come se fossero pezzi di un puzzle. Il terribile e realistico quadro che ne esce fuori pare sia stato dipinto da Caravaggio in persona: quale altra mente sana avrebbe potuto ritrarre determinati personaggi in certe situazioni e, come tocco finale, piazzarci nel mezzo la sua miserabile vita?
Il filo dei suoi pensieri lo conduce fino al bagno. Percepisce un enorme senso di smarrimento, paragonabile a quello che si prova quando si entra in una camera, e poi ci si dimentica cosa si dovrebbe fare. Immobile al centro di esso, se non fosse per il petto che si solleva e abbassa a ritmi irregolari, sembrerebbe un manichino, piuttosto che un essere umano.
Lascia vagare lo sguardo all'interno della stanza, alla ricerca di un qualsiasi oggetto che possa ricordargli perché sia lì e non in cucina a fare colazione, dove invece dovrebbe trovarsi. Non trova la sua risposta, ma, col volto impallidito e il sudore freddo che gli cola sulla fronte, rimane impalato lì sul posto.
Si è accorto che, nonostante sia proprio di fronte lo specchio, la sua immagine non è riflessa. Al suo posto pare esserci una sua caricatura, vestita con una camicia chiazzata di sangue e col volto ricoperto da vene pulsanti. I due si studiano a lungo ed è la sua versione grottesca ad interrompere quel sacro momento, appoggiando i palmi contro il vetro come se cercasse di guardare fuori da una finestra.
Dinanzi quell'avvenimento Bertoltt caccia un grido, cade per terra e retrocede fino a sbattere le spalle contro la parete, producendo un tonfo secco. Percepisce un'esplosione di dolore alla nuca, che si propaga in tutto il cranio e lo lascia intontito. Ha perso di vista per qualche secondo lo specchio, tuttavia è stato sufficiente per far dileguare la strana illusione che vi ha intravisto dentro.
Ha il fiatone, neanche avesse corso per un chilometro, e non ha il tempo di riprendersi che sente il citofono squillare impazzito, come se qualcuno vi abbia dimenticato sopra il dito.
Non è capace di comprendere a cosa abbia appena assistito.
«Quindi... avete capito?»
Le pupille di Reiner si soffermano sui volti di ognuno dei ragazzi che lo hanno ascoltato: Annie, Pieck, Bertolt e, caso eccezionale, Porco sono rimasti muti come pesci mentre ripeteva gli ordini di Yelena.
«Che rottura di palle» sentenzia Porco, le sopracciglia corrugate e una smorfia di dissenso tatuata in faccia. Pieck annuisce per assecondarlo.
Annie non lo guarda più, ha lo sguardo vacuo – ben nascosto agli altri dal cappuccio e dai capelli biondi – ed è certo che la sua mente sta rivangando i ricordi dell'estate trascorsa. Non c'è bisogno che lo dica qualcuno: la situazione in cui si trovano è pessima. Ci sono troppe, troppe, troppe cose che non vanno. Nessuno di loro si aspettava che quegli uomini li spingessero a fare a tanto, invece eccoli: rintanati in un vicolo, ad organizzare un rapimento. Ma che ne sanno, poi, un branco di ragazzini di certe cose?
«Neanche a me piace questa prospettiva. Se non obbediamo, però...»
«Se non ti sta bene, puoi anche andartene» sputa Annie, noncurante di interromperlo.
La ragazza non è mai sul piede di guerra. Provoca solo quando si sente tesa. Reiner lo sa bene, dopo che hanno trascorso tanti anni e cicli di terapia insieme. Nel frattempo che quella battibecca con Porco, non può fare a meno di notare le fiamme che le accendono lo sguardo. Persino Bertolt, dall'angolo in cui è accovacciato, allunga il collo per scrutare quell'emozione tanto estranea all'amica. L'ultima volta che l'ha vista in tale stato, fu in occasione del funerale di Marcel.
Strizza le palpebre, prima che le lacrime minaccino di sgorgare dai suoi occhi. Non può piangere. Un leader non piange. Marcel non piangeva quando dirigeva la baracca, di conseguenza nemmeno Reiner Braun può farlo.
Deve distrarsi, dunque, piuttosto che affogare nei ricordi, si concentra su Pieck, seduta su un barile di metallo accanto all'altra ragazza. Ha un sorriso serafico e ciondola i piedi, come se nulla fosse. Come se non le avesse appena comunicato di dover ridurre a zero il valore di una vita umana. Ammira e teme la perseveranza di quella ragazza.
«Ti piacerebbe, stronza» sibila Porco, gonfiando di bile l'insulto pronunciato.
«Pokko.»
Pieck ha la voce ferma e non batte ciglio nel riprendere il compagno. Invidia il polso fermo che lei riesce a sfoggiare in queste situazioni. Gli ricorda che ancora deve lavorare su molti aspetti di sé, affinché diventi un leader che s'incastri alla perfezione nel vuoto lasciato da Marcel. Non sarà mai come lui o come lei, se continua a piangersi addosso. Dannazione!
L'altro ragazzo rotea gli occhi, si morde la lingua per non replicare ed estrae tabacco, cartine e filtri da una tasca dello zaino.
«Dico solo...» borbotta e armeggia con il tabacco per avvolgere una sigaretta «... che quel ragazzo non mi piace. È strano, stupido e potrebbe rivelarsi un problema se ci avviciniamo a lui. Non puoi dire a quella mentecatta di affidare il lavoro a qualcun altro? Io con un impiastro del genere non voglio averci a che fare.»
«Be', pensavo la stessa cosa di te all'inizio, eppure ti sei rivelato sia una spina nel culo che un elemento utile. Chi può dirlo?» lo punzecchia.
Sa soltanto nascondersi dietro il sarcasmo, come se questo fragile scudo sia in grado di proteggerlo dal male che provocano le azioni o le parole altrui. Porco gli lancia un sasso a causa della sua insolenza, ma lo evita spostandosi a destra. Collaborare con il fratello di Marcel dovrebbe rientrare tra i lavori più retribuiti dell'anno, e pure di quelli a venire. In parte, però, non biasima quel rancore taciuto. Lui era lì presente, mentre a Porco veniva sottratto il bene più prezioso.
«Gli ordini non si discutono. Questo è il lavoro da fare. Se non vi sta bene, mollate» afferma Reiner, che emula un tono serio.
Porco si alza da terra, si spazzola i pantaloni con le mani e, infine, si accende la sigaretta. Contemporaneamente Pieck scende dal barile, inforca le stampelle sotto le braccia e zoppica verso l'uscita del vicolo.
«Ci va benissimo. Ma penserete voi ad abbordarlo» li avvisa lei, piccata, prima di svoltare l'angolo seguita a ruota dal ragazzo.
Non ribatte a quell'affermazione, sebbene ne sia ferito. Ha convocato anche lei e Porco affinché li aiutassero, non per ritrovarsi invischiato in quella faccenda più di quanto avesse voluto. Si mette le mani sui fianchi, come sempre quando le circostanze lo mettono in difficoltà, e studia i volti di Annie e Bertolt, alla ricerca di conforto.
La prima si allontana cheta, senza concedere a lui e all'altro un saluto. Invece, Bertolt è accartocciato come una foglia accanto al barile. Ha tutti i pantaloni sporchi di polvere, nonostante si sia seduto sullo zaino, e tiene il viso nascosto fra le braccia conserte.
«C'è qualcosa che non va, Bertl?» chiede, la voce stonata dall'apprensione.
«Ho dormito poco» è la risposta che gli viene rifilata.
Potrebbe anche crederci, eppure sul volto dell'amico non vi sono tracce di occhiaie. Non l'ha sentito sbadigliare nemmeno una volta. Che gli stia mentendo? Anche Bertolt ha perso fiducia in lui? È per questo che non vuole aprirsi?
«Tu che dormi più di un materasso?» scherza e sorride per metterlo a suo agio.
Bertolt gli lancia una breve occhiata, poi si rifugia di nuovo tra le proprie braccia, troncando ogni tentativo di intavolare una discussione. È una reazione inaspettata e dolorosa quanto un coltello che affonda nella carne, ma decide di lasciare perdere e gli lascia una carezza tra i capelli, cosicché comprenda che, qualsiasi cosa sia successo, gli sarà accanto. Sempre.
«Dopo ti porto qualcosa che possa aiutarti. Ora andiamo a scuola, altrimenti faremo tardi» lo sprona e gli scuote una spalla, ma il capo di Bertolt non si scosta di un millimetro.
Reiner sospira, rammaricato: se Porco, Pieck, Annie e Bertolt reagiscono così al primo incarico che hanno affidato loro, non osa immaginare cosa succederà quando li convocheranno con maggiore frequenza.
Quando entra in aula, il docente non è ancora arrivato.
Non saluta nessuno, tranne coloro che, per primi, gli rivolgono la parola e in pochi passi raggiunge il suo posto all'ultimo banco. Annie è nella sua stessa fila, ma di fronte la cattedra, e a separarli ci sono le teste di Franz e Hannah, che si stampano un bacio in bocca ad ogni frazione di secondo. Se non si fosse tenuta quella strampalata riunione mattutina, probabilmente riderebbe della faccia disgustata che l'amica rivolge ai due fidanzatini. Se non fossero invischiati in quella maledetta situazione, Bertolt potrebbe persino rivolgerle qualche balbettio in classe. Di comune accordo, non interagiscono mai all'interno della scuola o nei dintorni di essa, di conseguenza, lei è esclusa dal suo breve giro di saluti ed è costretto a trattarla come una perfetta estranea – quando, in realtà, la considera l'esatto opposto.
Oggi in classe tira un'aria strana. Jean Kirchsteim, Marco Bodt, Connie Spriner e Sasha Blouse hanno già occupato i loro posti e chiacchierano a voce alta, come se fossero al parco e non in aula – ignari che, come ogni mattina, entrerà il professore Shadis e li rimprovererà della loro loquacità.
C'è un dettaglio, tuttavia, di cui Bertolt non sa darsi spiegazione: Eren Jeager non è in classe e nemmeno sua sorella adottiva, Mikasa Ackerman. I due non si presentano neanche al secondo squillo della campanella. Non c'è nemmeno Armin, il ragazzo che sta spesso appiccicato ai due, e, senza rendersene conto, Bertolt si ritrova ad affondare le dita nel tessuto dei jeans. Tenta di ricordare un singolo giorno in cui quel malcomposto trio sia stato assente da scuola, ma non gliene sovviene nessuno, quindi estrae il cellulare e avverte Reiner dell'insolita situazione. Si distrae dal proprio compito, quando ode uno scalpitio forsennato e, mentre solleva le pupille dal cellulare, lo attribuisce alla figura minuta che appare sulla soglia della porta.
Il caschetto biondo di Armin è arruffato, mentre le iridi azzurre schizzano come biglie impazzite all'interno delle orbite. Al ragazzo tremano persino le ginocchia, ma non sa se ciò sia dovuto alla corsa, oppure sia collegato all'assenza di Mikasa ed Eren. Neanche ad Annie sono sfuggiti quei dettagli, perché, nel frattempo che lei si volta verso Mina, gli lancia un'occhiata perplessa.
Le novità lo intimoriscono, poiché, essendo incerte, non sa mai se interpretarle in maniera positiva o negativa. Da quello strano evento, però, non si aspetta nulla di buono.
Le ore che lo separano dalla campanella della ricreazione trascorrono con una lentezza esasperante. Dopo ciò a cui ha assistito quella mattina, la sua mente non fa altro che rimuginare sui motivi che si celano dietro al ritardo di Armin. Tramite un messaggio, Reiner gli ha intimato di stare tranquillo, ma gli è impossibile rilassarsi. Trova che sia una terribile coincidenza che, dopo l'annuncio di Yelena, Eren e Mikasa non si presentino a scuola.
E se qualcuno, quella mattina, avesse origliato la loro discussione e lo avesse riferito ai due? E se ora Mikasa ed Eren si sono recati alla stazione di polizia? E se li avessero già denunciati? E se le forze dell'ordine stanno venendo a prenderli? E se...
«Hoover.»
Sobbalza sulla sedia, quando la voce del professore lo chiama. Senza comprendere il motivo, Bertolt volge lo sguardo sull'uomo che gli si è piazzato davanti. Le labbra di Shadis sono contratte in una smorfia di disgusto, accentuata dalle rughe profonde che ha agli angoli della bocca.
«Hai finito di dirigere l'orchestra con la tua matita? O devo spezzartela in due, per farti smettere?» lo redarguisce il professore.
Dirigere l'orchestra con la matita? Abbassa lo sguardo sulla matita che regge tra le dita e che, fino a quel momento, non ha smesso di picchettare contro il banco di legno. La posa subito, producendo l'ultimo e rumoroso tic, mentre incassa il capo tra le spalle, nella speranza di svanire. Non osa voltarsi verso i propri compagni: la pelle delle guance è già escandescente, al solo pensare di essere sotto l'attenzione di tutti.
«Mi scusi» balbetta.
«Come? Non ti ho sentito bene.»
«Mi scusi» ripete e alza, per quanto gli è possibile, il volume della voce.
«Che c'è? T'è cascata la lingua? Parla più forte, Hoover!»
Bertolt prende fiato e apre bocca, pronto a gridare – se davvero possiede la facoltà di farlo – le sue scuse, ma il trillo della campanella sovrasta la sua voce. È salvo, pensa, mentre afferra tutto ciò che ha sul banco e lo getta all'interno dello zaino, non preoccupandosi di infilare le penne, la matita e la gomma nell'astuccio.
Avrà un'altra occasione per farsi sentire.
Uscire per prendere un po' d'aria fresca è una delle poche attività quotidiane che lo fanno sentire normale. Mentre vaga per i corridoi e spintona la marmaglia di corpi che va a ritroso rispetto a lui, immagina già il calore piacevole dei raggi del sole sulla propria pelle e l'odore dell'erba umida di rugiada. Seguendo questo suo desiderio, Bertolt attraversa corridoi, l'androne, la mensa e, infine, raggiunge il suo angolo preferito all'interno della scuola: una quercia enorme, stanziata vicino il campo di football, sotto cui nessuno, al momento, ha piantato le tende.
Prima lancia lo zaino all'ombra dell'albero, cosicché nessuno gli freghi il posto, dopodiché si stende accanto alla borsa. Rimarrebbe per ore disteso lì, ignorando i fili che gli si appiccicano addosso al minimo spostamento del suo corpo. Si godrebbe meglio quel momento, se accanto a lui ci fossero Annie e Reiner. Gli pare che siano trascorsi anni, dall'ultima volta in cui loro tre hanno trascorso un po' di tempo insieme. Pensandoci meglio, è proprio così: è dal giorno in cui Marcel è venuto a mancare, che...
«Buh!»
La voce che non gli è uscita prima, adesso gli raschia la gola, a causa dell'urlo che emette dallo spavento. Si tira a sedere e si preme il palmo della mano sul petto, come se con questo gesto eviti che il cuore impazzito gli fugga dal petto.
«Che c'è, Bertl? Addirittura tremi?» ridacchia Ymir, che si lascia cadere di proposito accanto a lui.
«Non farlo mai più...» le ordina con un filo di voce, mentre ha gli occhi spalancati e il fiatone gli scuote le spalle.
«Cosa? E perché?» borbotta lei, che allunga una mano per premergli indice e medio sulle costole, come spesso fa per allentare la tensione con lui.
Il proprio corpo reagisce prima della mente, perché quando si accorge di averle afferrato il polso con troppa veemenza, Ymir lo sta già osservando stralunata.
«Perché», farfuglia, «quel suono mi ricorda i colpi di pistola.»
Quando il proiettile perforò la testa della sagoma di legno, si levò una voce accanto a lui:
«Ottimo, Hoover. Hai centrato il bersaglio nove volte su dieci.»
Alle sue spalle, anche Marcel si congratulò con lui, mentre Porco masticò un'imprecazione che sentì a malapena. Reiner non disse nulla, ma non lo biasimava: era appena stato rimproverato poiché aveva di nuovo sprecato le munizioni, senza sfiorare neanche una volta la sagoma di cartone che avrebbe dovuto colpire.
«Sei un candidato eccellente» proseguì l'uomo e Bertolt percepì le guance bruciare.
Non era affatto abituato ad essere lodato. Di solito erano Annie e Pieck, quelle che venivano riempite di complimenti durante le sessioni di allenamento. Mormorò un "grazie" che a malapena fu udito dall'adulto – "generale Magath", voleva essere chiamato l'uomo.
«Può fare di meglio» sentenziò una voce femminile.
Bertolt si voltò, affinché potesse scoprire chi metteva in dubbio le sue capacità, e rimase a bocca aperta quando si ritrovò a tenere ritto il collo, per osservare in faccia la signora. Percepì le gambe tremare, nel momento in cui i pozzi neri della donna si posarono su di sé.
«Questo è un risultato persino migliore di quello raggiunto dai miei soldati. E poi, chi ti ha dato il permesso di intrometterti?» sibilò il generale Magath, ma quella non lo degnò di uno sguardo.
Sembrava un gigante in procinto di divorarlo, tanto lo fissava con interesse.
«Lo sa meglio di me, comandante Magath, che dobbiamo selezionare le cavie migliori. Se non le stimola adeguatamente, inoltre, come possono dimostrare di esserlo?»
«Che cosa vorresti dire, Yelena?»
«Voglio dire che, per un prodigio, è troppo facile colpire un oggetto inanimato. Se vuole che migliori, deve porlo dinanzi ad un ostacolo degno delle sue capacità. Lasci che le dimostri.»
La donna chiamata Yelena gli diede le spalle, molto probabilmente per osservare gli altri bambini. Ci fu un lungo silenzio, prima che quella esclamò:
«Tu, biondino in carne. Vieni qua» annunciò.
«Non sono in carne! È la maglia troppo larga» protestò Reiner dietro di sé, mentre si faceva avanti.
«Mettiti lì, dove si trova il bersaglio centrale» ordinò Yelena e puntò la posizione esatta con l'indice.
Quando venne impartito quell'ordine, Bertolt stritolò il fucile che teneva tra le braccia. Era preoccupato di scoprire ciò che avrebbe chiesto in seguito la donna, ma, soprattutto, era terrorizzato all'idea di non potersi sottrarre a quella sfida.
Dopo che Reiner si piazzò dove gli era stato indicato, la signora lo raggiunse e gli premette una mano sull'addome, cosicché l'amico aderisse la schiena al legno che aveva dietro. Infine, gli pose una mela sul capo. Non ebbe il tempo di chiedersi da quale tasca l'avesse tirata fuori, che quella prese le distanze dal bambino e gridò:
«Colpisci la mela sulla sua testa, se sei davvero capace!»
Sentì l'aria mancare e la testa appesantirsi, quando Yelena pronunciò quelle parole. Bertolt voltò il capo in direzione del generale Magath, che si era stampato un ringhio sul viso. Non era adirato con lui, bensì con la donna, eppure non gli diede il permesso di rifiutarsi. Avrebbe dovuto sparare sul serio alla mela sulla testa di Reiner? E se avesse sbagliato? Percepì un conato di vomito premergli sul fondo della gola, quando analizzò quell'ipotesi.
«È pazza» sussurrò Porco.
«Comandante Magath, sta scherzando, vero?!» urlò Reiner, le cui spalle erano scosse da tremiti, così come il resto del corpo.
«Forza, cosa stai aspettando?» lo stuzzicò Yelena, la quale, poi, si rivolse verso Reiner: «fossi in te starei immobile, altrimenti potresti perdere la testa. Letteralmente.»
«Fa' quello che devi» mormorò l'uomo, la voce intrisa di miseria.
Sentì gravargli sulle spalle un peso enorme e, quando imbracciò il fucile per puntarlo verso Reiner, sentì la bile in bocca. Deglutì, nel tentativo di mandarla giù, dopodiché socchiuse l'occhio sinistro per prendere la mira.
«Aspetta, Bertolt! Lo vuoi fare davvero?!»
Un singhiozzo vibrò dalla gola dell'altro e ciò non lo aiutò affatto a concentrarsi.
«Non muoverti, Reiner! Stai fermo, ti prego!» ululò Marcel.
Quando l'altro bambino rimase immobile e il mondo intorno a sé tacque, Bertolt premette il grilletto. Non seppe come, però, rispetto alle volte precedenti, sostenne l'impeto del rinculo e non si mosse da un centimetro dalla sua postazione. Nel frangente in cui il proiettile entrò in collisione col suo obiettivo, serrò le palpebre. Non voleva vedere la testa di Reiner esplodere, né, tantomeno, assistere allo spettacolo della sua materia grigia che si schiantava sulle pareti e sul pavimento.
Appena udì un "blop", iniziò a singhiozzare. Già si proiettava al funerale di Reiner e immaginava le grida di sua madre fracassargli i timpani, mentre malediceva il mostro incapace che aveva privato suo figlio della vita. Lasciò andare il fucile, ma non sentì il clangore del metallo sulle mattonelle, quindi ebbe il sospetto che il generale Magath lo aveva afferrato in tempo.
Non comprendeva perché nessuno parlava. L'unico rumore che percepì, qualche secondo dopo, fu un applauso lento e deciso, a cui seguì un paio di braccia che lo avvolsero fino a soffocarlo. Fu in quel momento che aprì gli occhi e lo vide: Reiner era vivo e lo stava abbracciando. Ignorò la sostanza appiccicoso di cui era ricoperto – era il succo della mela, per fortuna – e si aggrappò all'altro, come se fosse un appiglio stabile e lui temesse di cadere.
«Grazie per non avermi ucciso» sussurrò Reiner e tirò su col naso. Anche lui piangeva.
Restarono abbracciati finché Bertolt non percepì qualcosa inumidirgli il pantalone. Subito dopo, il tanfo stantio e acido, tipico dei bagni, gli pizzicò le narici.
«Reiner... perché puzzi?» balbettò e si scostò appena dall'altro bambino, quanto gli bastava per osservarlo impallidire.
«Me la sono fatta sotto, mentre miravi... scusa» gli rivelò sottovoce.
«Lo vede, comandante Magath? Non dimentichi mai che, affinché dimostrino il loro pieno potenziale, le pedine vanno stimolate a dovere.»
Gli occhi di Yelena erano spalancati e il ghigno sinistro le aveva spaccato il volto. Il generale Magath rimase in silenzio, ma tramite la coda dell'occhio Bertolt notò che aveva chiuso i pugni e le nocche erano sbiancate.
In quel momento non capì a cosa fosse dovuta la rabbia del generale. Forse l'avrebbe compreso in seguito. Per lui l'importante era aver salvato Reiner – e aver dimostrato le proprie abilità. Il resto lo considerava una questione da adulti che non lo riguardava.
«I colpi di pistola? Davvero, Bertolt? Manco fossi cresciuto nel ghetto» lo rimbecca Ymir e, indispettita da quella reazione, strattona il braccio per liberarsi dalla presa.
Bertolt la lascia immediatamente e sospira, mentre si copre gli occhi con una mano. Non dovrebbe reagire così, men che meno con le persone che sono estranee alla faccenda.
«Mi dispiace...»
C'è un attimo di pausa, dopodiché percepisce le dita di Ymir pressate con forza sulle proprie costole: si scatena il delirio, perché quel gesto gli provoca solletico – o meglio, panico – e allora si contorce e dimena, batte le mani sul prato, ma sa che è tutto inutile, perché l'altra lo libererà solo quando si riterrà soddisfatta.
«Ymir! Cosa stai facendo? Lascialo stare!» la voce di Christa è una manna dal cielo: non appena Ymir la ascolta, molla la presa su di lui e si scioglie in una risata.
«Suvvia, piccola. Ci stavamo solo divertendo» mente l'altra ragazza.
«Grazie, Christa» sussurra lui, col fiato corto.
«A me non sembra proprio!» continua Christa.
Quando si risiede, scorge accanto a Christa la figura di Reiner. L'amico ha un sopracciglio sollevato, come se fosse sorpreso di averlo beccato durante un momento del genere, ma non sa dire se è contento o meno di ciò che ha visto.
«Christa, Ymir, potete perdonarci un attimo?» domanda Reiner, interrompendo la discussione animata delle due.
«Sì, fate pure, piccioncini.»
Dopo quella frase sarcastica, Ymir afferra il polso di Christa e, nonostante le proteste che solleva questa, la trascina fino alla parte pavimentata del cortile. Non è troppo lontano, perché possono vederle, ma lo è abbastanza da non farsi sentire, se parlano sottovoce.
«Cosa stavi facendo?»
Bertolt corruccia il viso, quando gli viene posta quella domanda.
«Cosa intendi?»
«Intendo che... Dovremmo stare lontani da loro. Altrimenti sarà più doloroso, in futuro.»
Reiner tenta di ammorbidire il tono della voce, ma il fatto che si sforzi per farlo è un particolare che non gli sfugge. Ha qualcosa di strano, lo nota dal modo in cui tiene serrati i pugni, dalla posizione troppo dritta della schiena. Dal fatto che si tiene a debita distanza, come se temesse qualcosa.
«Ma... Yelena ha chiesto solo di...»
«Tu te lo aspettavi?» l'interruzione di Reiner gli fa strabuzzare gli occhi. Quello non è il suo migliore amico.
«Cosa?» azzarda, poi si porta le dita alla bocca per mordicchiarne le unghie.
«Di Eren» risponde stizzito l'altro, l'espressione spaccata da un broncio.
Nega col capo, mentre percepisce di nuovo le spalle pesanti. Ora, allo stesso modo di quando sparò alla mela sul capo di Reiner, il senso del dovere lo schiaccia. Stavolta, però, Bertolt non sa se riuscirà a sostenere tale peso: le sue spalle sono gracili, se paragonate a quelle di Marcel o Reiner.
«Quindi, be', cosa ti fa pensare che il prossimo non sia un altro di loro?»
Bertolt si volta lentamente, verso il luogo dove Ymir e Christa battibeccano – il suono delle loro voci arriva fin lì, tanto gridano e gesticolano. Le pupille si soffermano poi su Connie e Sasha, che ridono poco più in là, dove sono disposti i tavoli della mensa. Infine, nella sua visuale subentra Annie, rintanata nell'angolo dei fumatori. L'amica parla con Mina e di tanto in tanto annuisce mediante il capo.
Solo in quell'istante realizza che loro tre sono dei lupi travestiti da agnelli. Reiner ha ragione: non è escluso che Yelena ordini loro di rapire qualcun altro.
«Comunque sia, scusa. Non ero venuto qui per parlarti di questo...» mormora l'amico e, sebbene per poco, riconosce il ragazzo con cui trascorre tutte le giornate, da quando l'ha conosciuto.
«Volevo dirti di parlare con Armin.»
Si toglie le mani dalla bocca e annuisce, mentre raccoglie le ginocchia al petto. Lo ha cercato per il lavoro, quindi.
«Devo scoprire dove sono?» domanda e strappa un ciuffo d'erba, mentre chiude le palpebre.
«Sì. E, se puoi, anche altre informazioni» gli suggerisce Reiner – o chi per lui.
«Lo sai che Armin non è uno stupido... se gli chiedo troppo, si insospettirà» protesta, sebbene aggiunga subito: «Dov'è adesso?»
«In biblioteca, è da...»
«Reiner! Reiner!»
È Christa ad interromperlo, che si sbraccia per attirare l'attenzione del ragazzo. Ha un sorriso enorme sul volto, mentre Ymir, al suo fianco, ha un ghigno sornione stampato sulle labbra. Sembra che si siano riappacificate.
Osserva il viso di Reiner contorcersi, quasi volesse cambiarsi i connotati, e infine partorire un sorriso sibillino. Trova che sia un gesto sospetto, però tiene per sé quel dubbio. Magari ne parlerà con Annie o Pieck, quando ne avrà occasione. Magari anche loro hanno notato quello strano atteggiamento.
«Arrivo, Christa! Quindi puoi farmi questo favore, Bertl? Solo per questa volta» lo implora l'altro, che nemmeno attende una risposta e si avvia verso le due ragazze, poiché dà per scontato che lui obbedirà.
E Bertolt farà esattamente come gli è stato ordinato. Non gli è mai stato concesso scegliere, d'altronde.
Durante una chiacchierata risalente ad anni prima, Pieck gli aveva confessato di amare la fragranza emanata dai libri vecchi. Bertolt non aveva avuto abbastanza fegato, tuttavia, di ammettere che a lui fa solo venire mal di testa. Difatti gli basta inalare un po' di quell'aria pesta, affinché l'emicrania cominci a ronzargli dietro la nuca. Inoltre, trova soffocante il perenne silenzio che regna nella biblioteca, poiché l'angoscia gli stringe il cuore quando ce n'è troppo: per questo predilige i posti in cui vi sia almeno un brusio sommesso.
Il suo passo pesante rimbomba sul parquet della biblioteca, annunciandolo prima di essere visto: sembra quasi un titano che si addentra in un villaggio. È talmente rumoroso, che qualcuno gli intima persino di fare silenzio. Adesso, però, non può preoccuparsi di cosa pensino gli altri: la sua missione viene prima di tutto e di tutti. Ci sono troppe cose in ballo, che gli impediscono di essere arrestato dai rimorsi. Sente un magone, quando si rende conto di questo particolare: non può neanche rifiutarsi.
Gironzola tra gli scaffali ricolmi di tomi per una manciata di minuti, finché non individua il suo obiettivo: Armin è seduto in uno dei banchi vicino la finestra, uno di quelli nascosti tra due librerie alte fino al soffitto. Un essere così piccolo e silenzioso, nascosto lì, può addirittura diventare invisibile. Bertolt lo invidia un po' per tale motivo: anche a lui piacerebbe sparire, se non fosse che i suoi – quasi – due metri di altezza glielo impediscono. Prima di farsi avanti, studia l'ambiente circostante. Uno spesso strato di polvere ricopre sia le copertine dei libri che le mensole, facendoli sembrare più usurati di quanto non siano. Le ragnatele sul soffitto, poi, sono il tocco cinematografico e bolla quella biblioteca come antiquata. Sebbene si trovi ancora nella penombra, la voce di Armin lo accoglie:
«Ehi, Bertolt.»
«Ciao» ricambia.
Il ragazzo distoglie l'attenzione dal libro che legge e gli sorride con le labbra serrate. Le sue iridi si fissano su di lui e di conseguenza percepisce i palmi sudare.
«Vuoi sederti accanto a me?» gli propone Armin, che, dopo, gli chiede: «Come mai sei solo? Reiner non c'è, oggi?»
La mole di gentilezza con cui lo sommerge l'altro ragazzo, sa di non meritarla. Una voce roca e sgraziata dentro di lui gli suggerisce di voltargli le spalle, correre via, fuggire da quella situazione prima che soffochi nella mole di bugie che dovrà produrre. Per una volta, seguire il proprio egoismo e lavarsi le mani gli sembra un'idea allettante e giusta. Il senso di colpa che prova nei confronti di Annie e l'affetto che prova per Reiner, tuttavia, sono la palla al piede che lo tiene ancorato lì dove si trova. Quando gli balena in testa il volto del padre, poi, il dado è tratto: non può lasciarli da soli per capriccio, si dice.
Per rinnovare il suo invito, Armin scosta la sedia accanto a sé e questa volta lo accetta. Una volta lesse in una poesia che l'amore è una delle forme di suicidio più frequenti. Mentre si accomoda accanto al compagno di classe, Bertolt comprende di praticarlo ogni giorno.
«È impegnato con le cheerleaders...» risponde, «lo hanno eletto capitano della squadra quest'anno.»
«Oh! Non lo sapevo... sarà molto felice, immagino» replica Armin, sul cui volto sorge un altro piccolo sorriso, «Quest'estate ripeteva sempre di voler diventare capitano e il suo sogno si è realizzato. Dovrei congratularmi con lui, forse...» mormora tra sé e sé, infine.
Rimane in apnea quando Armin menziona l'estate passata. È ovvio che l'altro ragazzo – così come Eren e Mikasa – non possa dimenticare, ma lo intimorisce scoprire che ancora pensi al tempo che hanno trascorso insieme. Hanno rovinato tutto, hanno rovinato tutto.
«Comunque... volevi dirmi qualcosa, Bertl?»
Il volto d'altro è contaminato dalla confusione. Si è accorto che qualcosa con va, ma sarebbe impossibile non notarlo: senza la compagnia di Reiner e disposto alla conversazione, questo momento deve apparire ad Armin come un evento più catastrofico che raro. Negli anni passati non è stato mai visto da solo e, se il suo migliore amico non è a scuola, nemmeno Bertolt si presenta. Viceversa, tuttavia, non è mai accaduto.
«No. Ti ho visto solo... e ho pensato di farti compagnia.» Bugia.
«Oh, grazie... È molto gentile da parte tua» Armin fa una breve pausa, dopo la quale aggiunge: «Eren e Mikasa stanno male. O meglio, Eren ha la febbre, mentre Mikasa è a casa ad accudirlo. Il fratello di Eren lavora all'estero, quindi è rimasta lei.»
«Oh... mi dispiace» mente.
Annota in mente quelle informazioni. Ha avuto timore che gli fosse capitato altro. Durante gli aggiornamenti recenti, Yelena li ha avvertiti di essere in competizione con un'altra fazione. Stanno partecipando ad una corsa contro il tempo e per loro è di vitale importanza vincere.
«Effettivamente... c'è altro che vorrei dirti» mormora, lo sguardo fisso su uno scarafaggio che sul pavimento viene fatto a pezzi da alcune formiche.
È affascinato dalla metodicità che impiegano nello strappare lembo dopo lembo la carne dalla vittima e, per certi versi, ammira l'arrendevolezza con cui quello si abbandona alla morte. O forse invidia che perfino a quell'insetto sia permesso scegliere, mentre a lui no?
«Dimmi tutto» dice Armin, mentre stappa un evidenziatore e sottolinea alcune righe del libro su cui stava chino, prima che lo distraesse.
Gettandovi un'occhiata, Bertolt scorge dei termini tedeschi – crede di cogliere la parola Auschwitz, tra le tante – e fotografie in bianco e nero. Non sta studiando qualcosa relativo alla scuola, dunque.
«Ho... problemi con matematica. Potresti... aiutarmi, per favore?»
Armin solleva il capo dal testo e sbatte le ciglia più volte, come se fosse sorpreso da quella richiesta. Un rosa tenue si propaga sulle guance del ragazzo.
«Oh, certo! Non farti problemi a chiedere, Bertl. Possiamo vederci in questi giorni se ti va, d'accordo?» dal tono della voce trapela trepidazione e ciò non fa altro che affossare il suo umore. Deve trarre davvero piacere nell'aiutare il prossimo.
«Sì, grazie. Ci vediamo nei prossimi giorni, allora...» riepiloga, mentre si alza per andarsene.
Nel frattempo trilla la campanella, che segna la fine della pausa scolastica; Bertolt le sarà sempre devoto, poiché lo salva sempre quand'è il momento adatto.
«D'accordo! Ci vediamo» ricambia Armin e, anche se già gli dà le spalle, sa bene che l'altro ha sollevato una mano e gli sorride ancora, come se fosse un caro amico.
È proprio per questo motivo che Bertolt fugge il più rapidamente possibile dalla biblioteca, affinché possa seminare il senso di colpa che lo perseguita.
Lo stesso giorno, pomeriggio.
«E anche oggi torniamo alla nostra cara baracca!»
Reiner sembra contento, mentre spalanca la porta di metallo. La baracca è un ammasso di mobili retrò e logori, che hanno spostato – accatastato – all'interno di un container di quaranta piedi. La chiamano così perché Annie, la prima volta che Reiner e Marcel l'hanno portata lì, se ne è uscita con questo buffo termine e, da allora, è diventata un'abitudine appellarsi al loro rifugio tramite esso.
Non pulisce nessuno, tranne lui qualche volta, per evitare che il divano diventi un nido di termiti e il tavolo una sala da ballo per i topi – evento che sospetta accada, ogniqualvolta non vi si recano per troppo tempo. Sul soffitto c'è un buco abbastanza grande da cui penetra la luce del sole il mattino e quella della luna la notte, per cui non rimangono spesso al buio. Se di notte l'illuminazione non è sufficiente, a turno portano delle candele: è a causa di ciò che agli angoli del container si trovano piatti – rotti – di ceramica, contenenti scheletri di cera.
«Novità, ragazzi?» domanda Reiner, mentre si accomoda sul divano. Annie è in piedi accanto al mobile, con le braccia incrociate all'altezza del seno, tuttavia non accenna a sedersi.
Accanto all'amico c'è un posto vuoto ma Bertolt, prima di occuparlo, lancia la felpa sul tavolino basso davanti al divano e lo zaino per terra, così da rimanere con una maglietta a maniche corte. Abbassa appena lo sguardo per rendersi conto in quali condizioni versa e, mentre percepisce le guance bruciare, si accorge che il tessuto della stoffa è ricoperto da aloni umidi.
Spera che nessuno gli faccia notare la puzza, ma, nel vedere l'espressione di disgusto di Annie, intuisce che essa si sente fin troppo. La sua solita fortuna.
«Sì...» borbotta con voce fiacca, poi mediante il dorso della mano si asciuga il sudore sulla fronte.
«Reiner, si sente così tanto la puzza?» chiede sottovoce all'amico, nel frattempo che si accomoda.
«Un po', sì. Dovremmo cambiare posto, durante la stagione estiva. Daremo anche meno nell'occhio» mormora Reiner, sovrappensiero.
«Sarebbe anche ora, cazzo. Si crepa dal caldo» è Porco a dirlo, che versa nelle sue stesse condizioni, sebbene abbia l'accortezza di sventolarsi con un improvvisato ventaglio di carta, «e dalla puzza.»
«Tu non dovresti essere a scuola?» lo rimbecca Reiner, che incrocia le braccia al petto. Quando assume quella posa, a Bertolt ricorda sua madre Karina e fatica a prenderlo sul serio.
Sapendo, inoltre, che Porco non vede di buon occhio Reiner, immagina quanto poco vengano presi in considerazione i rimproveri dell'amico dall'altro ragazzo.
«Pomeriggio libero» dice quello, come se fosse una spiegazione esaustiva, dopodiché si sdraia sulla poltrona, e fa ciondolare le gambe dal lato sinistro di essa.
«Fingerò di crederti. Pieck dov'è, invece?»
Quella domanda provoca una smorfia infastidita da parte di Porco, che si porta il pollice tra i denti per mordicchiarne una pellicina. Rimane zitto un paio di secondi, poi si ferma.
«È il suo turno di terapia, oggi» rivela e torna a rosicarla.
Reiner sembra comprendere cosa voglia dire quella frase, perché annuisce e si volta nella direzione di Bertolt.
«Eren?»
«È a casa. Ha la febbre» specifica e prende a sventolarsi con la mano. C'è così tanto caldo tra quelle quattro pareti di metallo, che teme di sciogliersi.
Dopo che pronuncia quella frase, Annie punta gli occhi addosso. Adesso gli presta attenzione anche lei.
«D'accordo. Abbiamo ancora tempo. Quando sarà il ballo?» chiede Reiner, le cui pupille vengono rivolte alla parete di fronte, dove si trova un pezzo di carta rosicato agli angoli.
Il pezzo di carta – ovvero un calendario regalato a Bertolt dalla farmacia – è appeso mediante una quantità sovrabbondante di scotch: è sicuro che Porco ne abbia finito un intero rotolo, per appiccicarlo saldamente.
«Fine settembre, massimo inizio ottobre» li informa Annie.
«D'accordo, ragazzi. Sarà quello il giorno» annuncia Reiner, il cui tono ora è piatto come quello di una voce pre-registrata, «Porco, tu e Pieck aspetterete qui. Io, Annie e Bertholdt baderemo al resto.»
«Oi, aspetta un momento. Perché io devo aspettarvi qui?!» sbotta Porco, già rosso in viso a causa della rabbia.
«Perché tu e Pieck non frequentate la nostra scuola. Sarebbe sospettoso se qualcuno sparisse la stessa sera in cui voi, che vi siete sempre tenuti a debita distanza, vi presentaste al ballo. Ci servite qui alla discarica, per tenere lontani eventuali curiosi» spiega con calma Reiner, senza che degni di un'occhiata Porco. Pare che il suo sguardo si sia incollato alle date del calendario.
Porco non ribatte, ma mostra i denti, come un cane rabbioso che ha appena ricevuto una bastonata. Di certo non è facile rimanere con le mani in mano, per uno come lui.
«Che facciamo con Mikasa ed Armin?»
Sia lui che gli altri due rivolgono l'attenzione su Reiner, che adesso si ritrova tre paia d'occhi puntati addosso. Nonostante ciò, rimane tranquillo dinanzi la domanda – legittima – formulata da Annie.
«Li neutralizziamo. Per questo tu e Bertolt verrete con me.»
«In tre contro Mikasa ed Eren? Buona fortuna. Non vi verrò a trovare in ospedale, dopo che vi avranno pestati.»
La stilettata velenosa di Porco colpisce e affonda Reiner, che serra la mascella e corruccia le sopracciglia.
«Pieck ha ancora difficoltà a camminare. Non possiamo lasciarla da sola» ribatte l'amico, sul cui collo è cominciata a pulsare una vena.
«Allora chiediamo a...» insiste Porco, che, però, viene interrotto.
«No! Yelena ha detto di no. Altrimenti non credi che l'avrei già fatto io?!»
Mentre ha sbottato, Reiner ha sbattuto il pugno chiuso sul tavolino di legno e lui, per colpa dello spavento, è balzato verso la parte opposta a dove si trova l'amico. Deve premersi una mano sul petto per placare il cuore impazzito. Porco scuote la testa e impreca sottovoce, le mani alzate in segno di resa.
Annie non commenta e distoglie lo sguardo, mentre Reiner, quando getta un'occhiata verso di lui, deglutisce e forse comprende che è il momento di troncare la conversazione, prima che degeneri.
«Questo è quanto. Sapete che chi non obbedisce agli ordini, viene considerato un traditore.»
Trova che il termine traditore suoni buffo, se pronunciato dalla bocca di Reiner, perché il primo a tradire Eren è stato proprio lui.
Note dell'Autrice
La parola di oggi è:
Toska (russo): è una "sensazione di profonda ansia spirituale ed emotiva che non ha cause d'origine" e che "indica una sofferenza dell'anima, uno stato di vaga inquietudine, un senso di nostalgia o di struggimento amoroso".
Salve a tutti! Se siete giunti fin qui, vi meritate un premio per la perseveranza! Ad ogni modo! Sì, questo è il primo capitolo, anche se è ancora una sorta di "presentazione", per farvi capire com'è, più o meno, la situazione in cui sono incastrati i nostri poveri protagonisti. Se ancora non avete capito nulla, tranquilli: il piano è proprio questo. Capirete tutto quando saremo alla fine di questo – tortuoso – viaggio! Dato che sono buona, però, vi spiego alcuni punti, perché possono essere capiti solo da chi conosce Chicago o chi è americano in generale:
Il "ghetto": non parliamo di campi di concentramento, bensì della zona Sud di Chicago, che, a causa dell'alto tasso di residenti "stranieri" e della criminalità, viene chiamata così. Se volete sapere di più su questa zona, guardatevi Shameless US, ve lo consiglio! (O informatevi su un buon libro/saggio)
Il calendario della farmacia: ok non so se regalano i calendari in farmacia in America, ma da me si usa e mi faceva ridere l'immagine, quindi ho deciso di inserirlo (del resto è una fanfiction e non un libro per un motivo).
Per il resto: fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va! Non è il miglior capitolo che abbia scritto, lo riconosco, ma mi farebbe piacere ricevere lo stesso la vostra opinione! E colgo l'occasione per ringraziare le sei persone che già l'hanno inserita tra le seguite!
Vi mando un Colossale abbraccio,
Luschek
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