Почемучка

Attenzione: il seguente capitolo contiene episodi di violenza, morte e fagocitazione di carne umana (no cannibalismo). Se questi contenuti urtano la vostra sensibilità, passate oltre.


Una persona che parla troppo


Il giorno prima del ballo, pomeriggio. La baracca.

«Ricapitoliamo.»

Bertolt sospira, quando Reiner, adesso in piedi dinanzi a lui, Porco e Pieck, pronuncia quella parola. Loro tre sono seduti sul divano lacero: Porco con le gambe divaricate, Pieck accucciata al suo fianco, e lui è nell'angolo opposto al loro, ben attento a non toccarli, neanche avesse una pelle velenosa. Nessuno degli altri tre si è accorto di quella riluttanza a sfiorarli, però è convinto che sia meglio così: non ha la pazienza per rispondere a domande scortesi.

«Io, Annie e Bertolt...» la voce di Reiner viene sovrastata da uno scalpitio proveniente dall'esterno.

Tutti e quattro si voltano verso le ante da cui – di solito – entrano e Bertolt sente lo stomaco contorcersi, quando da dietro esse fa capolino Annie, i cui capelli sono raccolti in una crocchia trafelata. La ragazza ansima e ha le guance paonazze, oltre ai ciuffi incollati al viso dal sudore. Presume che sia così perché ha corso per raggiungerli.

«Sei in ritardo. Ancora» la riprende Reiner, che la scruta da capo a piedi, poi abbozza una smorfia di disappunto.

«Sta' zitto» replica lei, sollevandosi il cappuccio sulla testa e procedendo verso la poltrona, senza incontrare gli sguardi di tutti loro.

A Bertolt sembra che lo faccia di proposito. Vorrebbe chiederle il motivo, ma, quando la osserva camminare con la testa bassa e le spalle ricurve, come se su di esse vi fosse un peso insostenibile, soffoca quella domanda sul nascere.

È dal famoso episodio al laboratorio che parlano meno del solito. È come se il monito del fantasma fosse in procinto di realizzarsi e l'unico che biasima è sé stesso, poiché sa di non aver insistito abbastanza con lei.

«Tranquilla, non salutarci. Siamo solo cani, no?»

L'attenzione di tutti viene catturata da Porco e dalla frecciatina che ha rivolto ad Annie. Il ragazzo ha la mascella serrata e ha affondato le unghie nella stoffa del divano, mentre la ragazza gli ha puntato gli occhi contro. Le labbra e le sopracciglia di lei, nonostante tutto, sono distese.

«Ciao, faccia da maiale» risponde Annie, placida, e infila le mani nelle tasche della felpa indaco.

«Tu, brutta...» prima che possa completare la frase, Pieck preme il palmo della propria mano sulle labbra dell'amico.

«Smettetela. Entrambi.»

Il monito di Reiner dovrebbe suonare minaccioso, soprattutto se ad ornarlo vi è la vena pulsante e livida che gli spicca sul collo. Sa bene, tuttavia, che né Annie né Porco nutrono alcuna stima nei confronti di Reiner. Se tagliano sul nascere quella discussione, è perché rivedono l'uno negli occhi dell'altra il fantasma di Marcel che li rabbonisce.

«Ehi, Bertl, aspetta» sussurra Pieck, mentre allunga una mano verso di lui.

Dapprima non comprende perché lo abbia richiamato, finché non percepisce dei pizzicotti all'altezza della spalla: quando studia con attenzione i movimenti della ragazza, però, nota che lei lo sta ripulendo dai capelli che gli ricoprono il maglioncino.

«Ne perdi parecchi» commenta lei e si rigira un capello tra indice e pollice, curiosa.

«È il periodo» si giustifica, ma sa bene che non c'entra l'autunno con la sua perdita di capelli, né con il torpore che prova per colpa della stanchezza.

Quelli sono i sintomi dell'ansia e dello stress che si ripercuotono sul suo corpo, che a loro volta sono causati dal suo senso di colpa.

Da quando si è verificato quello spiacevole episodio al laboratorio, infatti, appena le palpebre calano sui suoi occhi, vi vede stampata l'immagine della donna – o uomo, è difficile dirlo – che lui ed Annie hanno picchiato. Poco gli serve ripetersi – convincersi – che è stata autodifesa: ha una vita sulla coscienza e questo peso è una tortura peggiore dell'essere fustigati.

Per ovviare al problema del sonno, ha cominciato a prendere le pillole di Zaleplon che gli ha procurato Reiner. Ha già finito una stecca da dieci compresse, ma fino ad oggi l'unico effetto che ha ottenuto è un perenne stato di sonnolenza, che nemmeno il caffè riesce a scacciar via.

Difatti, eccolo che sbadiglia – ancora – e si porta una mano davanti la bocca. Pare il ruggito di un leone, poiché stavolta tutti si voltano verso di lui, e prova soggezione nell'essere sotto l'attenzione degli altri.

«Fate attenzione, per favore» li rimprovera Reiner, «non possiamo permetterci errori.»

Sa quanto Reiner tenga al rispetto rigoroso del piano, tuttavia Bertolt ritiene inutili gli insulsi dettagli con cui li vorrebbe imbottire.

Il destino è imprevedibile e calcolare ogni incognita esistente è impossibile per una persona. Forse solo un Dio sarebbe in grado di farlo.

«Dunque...»

L'indice di Reiner punta su una delle minuscole stradine che s'intrecciano nella cartina improvvisata. La carta ingiallita scricchiola sotto al tocco pesante del ragazzo.

«Fa' attenzione, Reiner» lo avverte Pieck, «se la tocchi, la grafite viene via.»

È stata proprio lei a disegnare la mappa in un'oretta scarsa, subito dopo pranzo. Lui, Reiner e Porco sono rimasti ad osservarla ammutoliti, mentre pian piano vedevano espandersi sulla carta una ragnatela di viuzze e vicoli di cui loro, pur vivendo a Chicago dacché hanno memoria, ne ignoravano l'esistenza.

Non è stata solo l'accuratezza dei dettagli ad averli rapiti, quanto la sua capacità nell'individuare snodi strategici e scorciatoie che agevoleranno loro la fuga. Senza di lei, sarebbero più inutili di quanto già non siano.

«Ho modificato il piano per aumentare le percentuali di successo» annuncia Reiner, il cui sguardi è fisso sulla mappa.

Porco soffia come un gatto e si accuccia nel suo angolo. Non comprende il motivo di quell'atteggiamento, finché Reiner non continua:

«Pieck guiderà il furgone dei Galliard.»

«Fai sul serio?!»

L'urlo di Porco riecheggia con veemenza all'interno del container, perciò sia lui che Pieck si coprono le orecchie coi palmi. Annie si limita a strizzare le palpebre, infastidita, mentre Reiner rimane immobile e dà a tutti loro le spalle.

Porco si alza in piedi con uno scatto e fronteggia Reiner, sebbene quest'ultimo lo superi di dieci centimetri buoni. Spalanca le narici, come fanno i tori prima che si precipitino contro l'avversario, e serra i pugni. Bertolt teme che uno di quelli di abbatterà sul volto del migliore amico, da un momento all'altro.

«Qual è il problema?» domanda Reiner e si volta con lentezza, cosicché possa guardare Porco in faccia

Invidia i nervi saldi dell'altro, che, dinanzi lo sguardo inferocito di Porco, non batte ciglio. Lui suderebbe freddo e tremerebbe come una foglia esposta al vento, se fosse nella stessa situazione.

«Preferisci mettere a rischio Pieck? Non te ne frega niente di lei?! Oppure ti devo fare notare che, ancora, lei non cammina bene? Come farebbe a correre, se...»

Parlano come se lei non ci fosse, ma Pieck non li interrompe. Sembra incuriosita dalla piega che prenderà il discorso e lui lo è altrettanto. Restano cheti, mentre divampa l'incendio dinanzi loro. Nessuno di loro due, però, sembra preoccupato dell'ustione che potrebbero contrarre.

«Che cazzo ti dice il cervello? Perché non metti me alla guida? Io posso correre, posso aiutarvi, idiota! Posso aiutarvi a pestare quei tre e...»

«Porco» lo interrompe Reiner, «questa è la mia decisione definitiva. Smettila.»

Bertolt ha intravisto esitazione nel lieve tremolio che ha attraversato le labbra di Reiner. Le azioni dell'amico possono sembrare azzardate, ma hanno una logica dietro, sebbene essa sia controllata dal timore. In questo caso, Reiner si fa scrupoli perché non vuole che Porco metta a repentaglio la sua vita. Preferisce sacrificare Pieck, che in termini di utilità è un membro più valido di Porco, piuttosto che il suo unico riscatto verso Marcel. È proprio un'azione che farebbe quest'ultimo.

È una considerazione insignificante, eppure è capace di riportare alla memoria alcuni dettagli sull'amico morto, che la sua mente ha tentato di insabbiare: il modo di parlare, il timbro della voce, i gesti, le decisioni prese. Il Reiner che Bertolt non riconosce, non è altro che una mera imitazione che le sinapsi del suo Reiner hanno attuato per proteggerlo dalla sofferenza.

Inerme, assiste alla scena che ha dinanzi con una rinnovata consapevolezza: Reiner ha davvero perso il senno. E lui se ne è accorto soltanto adesso.

«È inutile che cerchi di imitare Marcel! Non sarai mai come lui, altrimenti non l'avresti fatto morire quella fottuta sera! Sembri solo la sua copia scadente quando fai così» urla Porco, ad un palmo dal viso di Reiner.

Il vaso è traboccato di frustrazione. Adesso è l'amico che sbarra gli occhi e aggrotta le sopracciglia. Porco non aspetta che quello si difenda, esce dal container e sbatte l'anta metallica, producendo un clangore così forte da portare i restanti quattro a coprirsi le orecchie con le mani – di nuovo.

Per quanto velocemente possa, Pieck imbraccia le stampelle e barcolla verso l'uscita per seguirlo. Nessuno la ferma, né la invita a rimanere.

Bertolt sospira, mentre vede l'altra sparire dietro la porta, dopodiché si sofferma sul viso di Reiner. Nota che le iridi dell'amico si rivestono di un velo lucido, ma non versa alcuna lacrima.

È a corto di parole utili, perciò si volge verso Annie alla ricerca di uno sguardo di conforto, ma la trova immobile come una statua. Gli occhi di lei sono vacui, proiettati in chissà quale pensiero della sua mente, e lui sospetta che la ragazza non abbia nemmeno seguito la discussione.

Nominare Marcel le suscita spesso quella reazione. Pare catapultarla nel passato, dove la felicità era un'opzione ancora valida, secondo loro. Non la biasima affatto: è normale per loro spezzarsi in quel modo, anche se le circostanze impongono loro di fingersi integri.

Reiner si accomoda sul divano, accanto a lui, e si prende la testa tra le mani. Come se fosse un riflesso incondizionato, Bertolt gli lascia una carezza sulla schiena. A differenza sua, Annie rimane immobile, le labbra strette e le mani intrecciate sul grembo, come una vedova che ha appena scoperto della morte del marito.

D'istinto Bertolt allunga una mano verso quella di lei, per riscuoterla dal torpore in cui è caduta, e, quando la sfiora, Annie balza sul posto, come scottata. Si fissano a lungo negli occhi spalancati e le labbra dischiuse, ma Bertolt cede per primo al contatto visivo. È stata un'idea stupida.

«Non so come comportarmi con lui» rivela Reiner, implorando un consiglio mediante il tono della voce.

«Non sai come comportarti con lui?» lo rimbecca Annie, riscossasi dalla sua stasi.

«Smettila di trattarlo come un rincoglionito. Sai bene che ha ragione: Pieck ci rallenterebbe.»

«Ma qui alla discarica...»

«Chi vuoi che venga alla discarica? Domani sera non ci saranno nemmeno i dipendenti. Pieck starà bene. Non è fragile e indifesa come pensate voi idioti.»

Bertolt e Reiner si voltano l'uno verso l'altro e sbattono le ciglia in sincronia. Sembra che abbiano riacquisito la complicità che li contraddistingueva, quando Marcel era ancora in vita.

«Innanzitutto dagli questo compito, poi parla con Pieck. Lei lo conosce meglio di tutti» continua Annie, mentre si alza e si avvia verso l'esterno della baracca.

«Se vuoi essere come Marcel, devi imparare a farti rispettare. Nelle condizioni in cui sei adesso, non ci riusciresti.» 

Pieck ha il fiatone e le ginocchia sono pervase da fitte lancinanti, troppo acute persino per lei da sopportare. Quando raggiunge Porco, si lascia cadere accanto a lui su una panca da cui hanno staccato lo schienale. Produce un rumore sordo e, a causa delle gambe divenute insensibili, non riesce ad assumere una postura corretta.

Sospira, infastidita da quell'intoppo, e il ragazzo se ne accorge, poiché le afferra entrambe le spalle e la aiuta a sistemarsi meglio sulla panchina. Data l'assenza dello schienale e l'impossibilità da parte di lei di tenere dritta la schiena, Pieck opta per sdraiarsi sulla panca e poggiare il capo sulle cosce di Porco.

Si sente una bambola, quando gli altri la aiutano a spostarsi in questo modo. È stanca, terribilmente stanca di ricordare a tutti loro che lei può agire benissimo da sola. Le serve solo un po' più tempo per farlo, ma quest'informazione è dura da digerire per gli altri.

«E quell'idiota vuole farti guidare» borbotta tra sé e sé Porco.

Prima di ribattere, si concede qualche minuto di riposo. Le fitte alle ginocchia si sono attenuate, però le formicolano gli arti inferiori a partire dalla punta dell'alluce fino alla vita. Le ci vorrà minimo un quarto d'ora, prima di potersi rimettere in piedi.

«Neanche la terapia ti sta facendo effetto» continua lui ed è in quel momento che Pieck lo interrompe, sussurrando:

«Non voglio la tua pietà, Pokko.»

Non c'è traccia di rimprovero nella sua voce, anzi. Il suo modo di parlare rimane delicato anche dinanzi gli scapestrati come lui. Sa che l'amico la invidia per questa sua compostezza immane.

«Non è pietà» ribatte Porco.

Anche se chiudesse gli occhi, Pieck riuscirebbe a distinguere con nettezza le dita del ragazzo che le sistemano le ciocche di capelli arruffati. Quella premura accentua la calma che lei prova e, senza che Porco glielo riveli, sa che servono anche a lui per rilassarsi.

«Sono fatti. Oppure vuoi dirmi che riesci a correre senza alcuno sforzo?»

La rudezza dell'amico non la offende. A pensarci su, non sa cosa possa toccarla a tal punto da farla scattare. A differenza dell'amico, Pieck non si è mai legata nulla al dito e non le piace inveire contro chi le fa un torto. Pieck sorride mentre vi riflette: la loro accoppiata è un ossimoro vivente, eppure funziona benissimo.

«È vero, non posso. Ti ricordo, però, che la mia bocca funziona molto bene: posso prendere le mie parti da sola.»

Raggiungono l'equilibrio in poche battute. Porco è sempre quello che innesca la miccia, mentre Pieck è quella che vi getta l'acqua sopra per spegnerla ed evita che la bomba esplodi.

«Non si è mai scusato. E non mi ha mai ringraziato. Avrei dovuto...»

L'indice della ragazza preme con irruenza sulle labbra di Porco e lo zittisce con efficienza. Lui la guarda stordito, come se gli avesse tirato un cazzotto sulle gengive.

«Non augurargli la morte. Non è stata colpa sua. Non guidava lui.»

Quando quello mostra i canini, come fa un cane che è desidera mordere, l'angolo sinistra della sua bocca s'inclina verso il basso. Le dispiace che Porco non sappia darsi pace su quanto accaduto, perché a furia di rivangare il passato rischia di rimanervi intrappolato dentro.

Porco è impetuoso come un incendio e la sua paura più grande è che, a causa di tutto quel dolore, lui si trasformi in un fiammifero spento. Gli poggia la mano sulla guancia e non reprime il sospiro che le preme in fondo al petto per uscire. È stanca di affrontare di nuovo quella discussione, ma lo farà finché avrà fiato in corpo per convincere l'amico a mettervi una pietra sopra.

«Abbiamo perso tutti Marcel. Io e Bertholdt. Annie e Reiner, che hanno sofferto almeno quanto te.»

Rapida ma delicata, posa di nuovo le dita sulle labbra di lui, cosicché non venga interrotta.

«Come pensi che si sia sentito Reiner, quando si è risvegliato e ha saputo non solo che Marcel fosse morto, ma di essersi perso anche il suo funerale?»

Si morde le labbra, sapendo quanto farà male all'altro sentirla aggiungere il resto.

«Lui non ha potuto dirgli addio. Da un giorno all'altro si è ritrovato una tomba su cui dover piangere, senza potersene fare una ragione.»

Le dita restano sulla sua bocca e lui la smette con i tentativi di aprirla.

«Averlo estratto dal furgone quella sera non è stato un favore, per lui. Al contrario, è stato come se lo avessi condannato. Sai meglio di me che, se avesse potuto, avrebbe scambiato volentieri la sua vita con quella di Marcel.»

Adesso sposta la mano e gli accarezza una guancia, socchiudendo le palpebre con lentezza. La piega dritta che hanno preso le labbra di Porco non si scosta di un millimetro. Sembra affranto, piuttosto che arrabbiato. Pieck sfarfalla un paio di volte le ciglia per la sorpresa, poiché è la prima volta che dopo quella discussione gli mostra tale emozione.

«Pokko?»

Non le viene data alcuna risposta e le dita ruvide dell'altro le scostano la mano, racchiudendola nella sua.

«È difficile» biascica lui e a Pieck sembra d'intravedere, oltre il guscio compatto dell'amico, il cuore che vi tiene sempre nascosto dentro.

Molti pensano che la sua costante ira sia sintomo di insensibilità, invece, lei che ha la vista più acuta degli altri, ha subito compreso che essa è una reazione di difesa.

In lontananza odono il crepitio che producono i passi sulle cartacce e, dopo che da dietro una pila di stracci, rottami e giocattoli rotti sbuca fuori Reiner, Pieck intuisce che è il momento di mettersi da parte.

Sia lei che Porco scrutano l'intruso e con la coda dell'occhio, la ragazza si accorge che l'espressione dell'amico si è inasprita.

«Me ne vado?» domanda Pieck, mentre si siede sulle gambe dell'altro e gli cinge le spalle con un braccio, per appoggiarvisi e permettersi di tenere il busto sollevato.

Reiner scuote il capo e incrocia le braccia al petto, come se ciò bastasse per difenderlo dall'occhiata torva che gli viene rivolta dall'altro ragazzo.

«No, Pieck. Rimani. Devo parlare ad entrambi.»

Quando ricomincia a parlare, Reiner tiene lo sguardo fisso sul terreno – lo stesso che pesta e calpesta con la punta della sua scarpa sinistra.

«Ho deciso che Porco guiderà il camion e tu, Pieck, resterai alla discarica, a patto che ci aggiorni ogni mezz'ora sulla situazione qui. Non voglio che ti succeda niente. Intesi?»

Porco deglutisce e si volta verso Pieck, sollevando un sopracciglio. Non si è mai mostrato confuso dinanzi a Reiner, perciò considera una novità quella reazione.

«Va bene?» insiste Reiner, che stavolta lancia a Porco un'occhiata rapida.

«Sì» risponde Porco, atono, e Pieck accenna un sorriso.

Sembra che stia cambiando qualcosa ed è lieta di ciò, perché non è un vento contrario quello che tira.

Il giorno dopo, la sera del ballo. Ore 22.45.


Il cellulare sul cruscotto s'illumina e squilla tre volte. Porco sa che quello è il segnale.

Sebbene fuori sia buio pesto, si abbassa la visiera del cappello sulla fronte, cosicché sia difficile scrutarlo in volto da fuori il veicolo. Controlla lo specchietto retrovisore, inserisce la retromarcia, lascia lentamente la frizione e parte: come gli insegnò Marcel qualche anno prima.

Impiega un minuto esatto per raggiungere il parcheggio sul retro, quello abbastanza vicino da essere immediatamente accessibile in caso di bisogno e, inoltre, abbastanza lontano per non destare sospetti. Dalla zona in cui si trova, Porco non può vedere il via vai di persone infiocchettate che entra ed esce dalla palestra, ma, a giudicare dalla musica che rimbomba nella strada e dalle urla che si dipanano nell'aria, è una bella festa.

Non va in discoteca da un bel po', ora che ci pensa. Non si biasima, però, poiché ha un brutto ricordo dell'ultima volta che è andato a ballare: è stata la stessa notte in cui Marcel e Reiner si sono schiantati contro un guardrail.

Il rombo di un'auto accanto al furgoncino lo fa sobbalzare sul posto. Se si lascia annegare dal fiume di ricordi che gli sorge tutte le volte che pensa al fratello, rischia di mandare in fumo la missione e non può permetterselo. Deve essere il migliore, come lo era il maggiore, e niente deve distrarlo.

Porco strizza gli occhi e mette a fuoco il veicolo: è una Toyota Camry dalla carrozzeria luccicante, che lo sorpassa di fretta. Per evitare che lo riconoscano, affonda le spalle nel sedile e lascia scivolare giù il bacino. È una posizione scomodissima, ma necessaria.

Scocca un'occhiata al display della radio, per decidere se debba spostarsi o meno, e nota che il trio di sfigati è in ritardo di quindici minuti. L'ultima volta che qualcuno è stato in ritardo, è stato in occasione di...

«Non c'è nessuno. Muovetevi!»

È la voce di Annie che sovrasta il brusio del motore acceso.

«Lo stiamo facendo...!» replica Bertolt e la frase viene interrotta da un singhiozzo.

«Dai, Bertl, siamo quasi arrivati!»

Porco si sporge dal finestrino e vede che Reiner, Annie e Bertolt si avvicinano con il loro obiettivo, che hanno legato come un salame e avvolto in un telo nero. Quello non era nel piano.

È allora che si affaccia dal finestrino e con le mani mima alla ragazza, la quale non trasporta il corpo, cosa sia successo.

Annie non gli risponde. Ha lo sguardo fisso su Reiner e Bertolt e, quando questi sono prossimi al camion, la ragazza si precipita ad aprire le ante posteriori. L'unico suono che Porco ode è il tonfo del corpo che viene gettato sul fondo del cassone, seguito dai balzi di Reiner e Bertolt che fanno vacillare il furgone. Nel dubbio lui mette in moto, mentre Annie, dopo che chiude le ante, corre verso il sedile del passeggero, si allaccia la cintura e batte una mano sul cruscotto.

«Sbrigati. Dobbiamo scappare» ansima lei, madida di sudore e, ora che Porco lo guarda meglio, con la felpa chiazzata di sangue. Accoglie quell'ordine con una bestemmia e preme il pedale dell'acceleratore, facendo fischiare le ruote sull'asfalto.

A metà tragitto, dopo che si è sorbito il pianto di Bertolt e frasi farfugliate di cui non ha colto il senso, tira un pugno sul cruscotto. Percepisce il volto in fiamme e le nocche sono sbiancate, tanto stringe il volante. Vorrebbe staccarlo e picchiare la ragazza che gli siede accanto, se ciò servisse a capire cosa sia andato storto.

«Avete portato Eren già imbalsamato. Bertolt sta piangendo da quando siamo partiti. Tu sembra che ti sia fatta un bagno nel sangue e hai le nocche sbucciate. Dimmi che cazzo sta succedendo, oppure vi mollo qui, adesso, e chiamo la polizia.»

Svoltato l'angolo, la discarica si staglia dinanzi a loro, al termine dell'asfalto. Tira un sospiro di sollievo, soprattutto perché Annie è così pallida in viso che pare stia per vomitare – e non vuole regali indesiderati sui propri sedili.

«Vuoi davvero sapere qual è il problema?!» grida la ragazza e si volta verso di lui.

Porco non può staccare l'attenzione dalla strada e ricambiare il gesto, ma annuisce con veemenza.

«Sì, cazzo, che voglio saperlo!» esclama lui, mentre accosta al marciapiede.

«Bene» Annie si prende una breve pausa, poi rivela:

«Quello nel retro non è Eren.» 


Un'ora prima, negli spogliatoi.

«Sbrigatevi» aveva ordinato Reiner, in piedi dinanzi le porte dello spogliatoio maschile, mentre Bertolt lanciava il borsone nero a terra ed Annie estraeva da esso una bara di ferro.

L'amica aveva porto l'oggetto a Reiner, che l'aveva incastrato nella maniglia di emergenza: in quel modo avrebbero potuto prepararsi indisturbati.

Bertolt si accovacciò accanto al borsone, premette i palmi sulle mattonelle gelide e prese un respiro profondo. Percepiva l'appiccicume del sudore ovunque, sotto le ascelle, sul collo, sulla fronte e il cuore galoppava impazzito.

Stavano per farlo davvero. Stavano per buttare Eren nelle fauci del leone, con la stessa nonchalance con cui si getta una cartaccia nel pattume. Sentì gli occhi pizzicare e tirò su col naso.

«Bertolt,» lo riprese Annie, mentre si piazzava accanto a lui, «dopo» disse solo e lui capì cosa intendesse lei. Non doveva lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

Reiner si mise di fronte a loro due e si accovacciò, poi li informò sottovoce:

«Secondo le fonti di Yelena, il siero non ha ancora agito su Eren. Di conseguenza, noi siamo in vantaggio, perché Annie può trasformarsi. Adesso vado a chiamarlo. Se Armin e Mikasa dovessero essere con lui, vi manderò un messaggio. Cercherò di mantenerli calmi finché non arriveremo alla discarica, ma voi tenetevi pronti ad ogni evenienza. Capito?»

Bertolt ed Annie annuirono, sebbene lui fosse ancora riluttante. Deglutì e fece vagare lo sguardo all'interno dello spogliatoio. Si soffermò su ognuna delle panche beige e delle file di armadietti grigi, finché non colse un baluginio nella penombra in fondo alla stanza, vicino alla porta che dava accesso ai bagni.

«Se le cose dovessero mettersi male, ricordatevi quello che ha detto Yelena: non possiamo lasciare testimoni» concluse Reiner.

Annie annuì, mentre lui rimase immobile, come se fosse diventato di marmo all'improvviso.

«Bertolt?»

Non rispose al richiamo di Reiner, né batté ciglio quando l'amico gli sventolò una mano davanti al viso: i suoi occhi erano incollati a quelli color pece di Marco, che era appena emerso dall'ombra.

Le spalle del compagno di classe tremavano vistosamente e con lo smoking che aveva addosso, a Bertolt ricordava un pinguino che era stato assalito dal freddo. Perché pensava ad un'idiozia del genere? Per attenuare il senso di colpa di ciò che stava per verificarsi?

«A quanto pare la stanza è affollata» commentò Annie, dopo che sollevò lo sguardo oltre la figura di Reiner. Le parole parevano incerte, come se fosse consapevole che quella fosse una frase fuori luogo, ma l'avesse pronunciata per mantenere una parvenza di distacco.

Quando si voltò anche Reiner, Bertolt abbassò le palpebre. Non voleva assistere a quella scena.

«Wow, ragazzi, non mi aspettavo uno scherzo di così pessimo gusto da parte vostra...»

La voce di Marco era sempre stata fin troppo stridula, ma quando era impregnata di paura, essa risultava sgradevole come il gracchiare di un corvo.

Udì Reiner sospirare rumorosamente, come se annaspasse, e da quel momento intuì che erano rimasti solo lui ed Annie. Bertolt graffiò il pavimento, noncurante dei brividi che gli procurò l'impatto delle unghie contro il marmo freddo.

«Ragazzi? State bene? Siete impalliditi» domandò Marco. Nonostante ciò che aveva sentito, si premurava verso di loro. Quanto poteva essere buono, lui? E quanto potevano essere malvagi, loro?

«Marco.»

La voce roca di Reiner rimbombò nello spogliatoio. Sentì Annie strascicare i passi accanto all'amico e Marco battere la punta delle scarpe sul pavimento, con cadenza regolare, come se battesse il tempo. Si stava innervosendo.

«Sei da solo?» chiese Reiner di rimando. La vita di Marco dipendeva da quella risposta.

«Eh?... Sì, sì lo sono. Dovrebbe arrivare Jean tra mezz'ora circa. Ci eravamo accordati per vederci qui, ma sono venuto in anticipo...»

Riconobbe il tono con cui Marco pronunciò il nome di Jean. Era lo stesso che usava Bertolt quando parlava di Annie, o quello che usava suo padre quando parlava di sua madre: era la voce di una persona innamorata.

Era sempre stato l'amore la disgrazia dell'essere umano, in particolare la loro, e, se avesse potuto, avrebbe desiderato strapparsi il cuore dal petto pur di non provare più niente.

Tirò un pugno al pavimento e contemporaneamente singhiozzò, quando sentì il grido di Marco squarciare il silenzio creatosi, a cui seguirono i tonfi di pelle che impatta contro altra pelle.

«Ragazzi, vi prego...! Vi prego...!» mormorava Marco tra un rantolo e l'altro.

Alzò le palpebre quando percepì un tonfo dinanzi a sé e, a discapito di quanto si aspettasse, si ritrovò faccia a faccia con le narici grondanti di sangue del malcapitato.

Reiner teneva i polsi di Marco premuti contro la schiena dal suo ginocchio e dalle sue mani. La cravatta dell'amico era slacciata e sullo zigomo sinistro spiccava un livido, segno che l'altro aveva tentato di resistere. Nonostante le botte ricevute, Marco continuava a scalciare e lamentarsi, producendo un trambusto tale che sarebbe stato sentito nonostante la musica a tutto volume.

Li avrebbero sentiti. Li avrebbero scoperti. Avrebbero ucciso le loro famiglie.

S'infilò le dita tra i capelli e li tirò, per spronarsi ad agire, ma non sollevò un dito verso Marco. Sapeva che avrebbe dovuto zittirlo, eppure il suo corpo si rifiutava di fare del male all'altro.

Annaspava, mentre pensava alle conseguenze che avrebbe portato la sua inettitudine: immaginava suo padre sgozzato, oppure appeso a testa in giù, o crocifisso sulla parete della cucina.

Sapeva che sarebbe successo. Lo aveva visto fare agli uomini di Magath alle pedine che fallivano.

«Bertolt, aiutami...»

Fu la supplica di Marco a riportarlo alla realtà. Non ebbe il tempo di processare quelle parole, che vide una scarpa da ginnastica abbattersi sul volto dell'altro, più volte. Un incisivo schizzò dalla bocca del ragazzo e ad esso seguì un altro fiotto di sangue.

«Annie, che cosa hai fatto...?!»

Dal poco fiato che aveva in corpo, parve squittire come un topo, piuttosto che parlare come un essere umano.

«L'ho... l'ho ucciso» sussurrò Annie, poi si allontanò da Bertolt e Reiner e aderì le spalle alla parete.

Aveva gli occhi sbarrati e le labbra livide, eppure rimase rigida come una statua. Non disse altro e Bertolt intuì che la ragazza aveva raggiunto il limite.

Reiner non batté ciglio dinanzi quella scena. Aveva le sopracciglia aggrottate e sbuffò, quando il capo di Marco ricadde molle sul pavimento. Senza lasciarlo andare, premette due dita sulla giugulare della loro vittima e aspettò qualche secondo, prima di annunciare:

«È ancora vivo, purtroppo.»

L'altro ne parlava come se fosse un problema e, anche se non voleva ammetterlo, Bertolt concordava con lui. La sopravvivenza di Marco era una minaccia per tutti loro.

«Procediamo. Se Jean arriva e ci scopre, siamo spacciati. Passami la corda, poi pulisci le macchie di sangue» ordinò Reiner.

Bertolt replicò all'ordine con un singhiozzo. Aprì il borsone, ne estrasse una corda spessa, che porse all'amico, poi dei guanti di lattice, un flacone e una spazzola. Riversò il contenuto della bottiglia sul pavimento e prese a sfregare le chiazze di sangue con veemenza, lì dove erano troppo visibili, sebbene la giacca del tuxedo gli limitasse i movimenti. Era stata un'idea idiota quella di vestirsi eleganti, per mimetizzarsi. Ed era stato ancora più stupido assecondare quel folle piano. Se si fosse opposto, a quest'ora...

«Bertolt, hai finito?! Non abbiamo tempo!»

Tirò su col naso e si rivolse verso Reiner, che aveva già steso sul pavimento il telo nero. Senza dire nulla Bertolt gli si avvicinò, afferrò Marco dai piedi, mentre l'amico lo afferrava dalle spalle, e lo sollevarono per porlo sulla coperta. Mentre avvolgeva il ragazzo all'interno di esso, Reiner afferrò il cellulare e compose un numero. Si udì l'eco di tre squilli lunghi, dopodiché ripose il telefonino nella giacca e si rivolse verso Annie, che era immobile nella posizione di prima:

«Svegliati! Apri la porta, cazzo.» «»

Non avevano tempo per compiangere nessuno, neanche loro stessi. Gli sfuggì un altro singhiozzo, quando strinse il corpo di Marco per issarselo sulla spalla. Reiner lanciò nella borsa ciò che era sparso sul pavimento.

La porta venne dischiusa e tutti e tre uscirono dallo spogliatoio. Reiner gli stava davanti ed Annie lo precedeva lungo il corridoio.

Marco pesava come un macigno sulla propria spalla. Attribuiva l'origine di questa sensazione al senso di colpa che provava nei confronti del compagno di classe. Percepiva le budella contorcersi e annodarsi in modi che non credeva fosse possibile. Per mantenere la calma, inspirava fino a percepire i polmoni gonfi ed espirava fino a rimanere in apnea. Funzionò soltanto finché non udì un eco dietro di sé:

«Secondo te ci sarà Mark alla festa?»

Il suo cuore mancò un battito e fu come percepire una voragine all'altezza del petto. C'erano delle persone dietro di loro. Vide Reiner voltarsi verso di lui e mormorare qualcosa, ma non lo ascoltò. Iniziò a correre, superando l'amico, diretto all'uscita d'emergenza da cui erano entrati.

«Bertolt, aspettaci!» ululò Reiner alle sue spalle, mentre in sottofondo riecheggiava lo scalpitio di lui e di Annie.

Nonostante avesse sentito quell'implorazione, Bertolt non si fermò. Nonostante avesse la vista offuscata dalle lacrime e le narici ostruite dal muco, continuò a correre.

Quando giunse alla fine del corridoio, cozzò con tutto il suo corpo sulla maniglia di emergenza e la porta di metallo schioccò contro il muro. Dopo che Bertolt mosse un passo oltre la soglia, non vide altro che bianco. Dapprima credette che fossero i fari delle autovetture della polizia, perciò si arrestò.

«Ci hanno scoperto, è stato tutto inutile...» sussurrò.

Una fitta dolorosa gli attraversò il ginocchio destro, mentre era accecato da quella luce, quindi lo piegò e nel frattempo artigliò i fianchi di Marco con veemenza, cosicché non scivolasse sul cemento. Come se avesse avuto importanza stringere a sé quel corpo, mentre i poliziotti gli puntavano contro le canne delle loro pistole. Cosa avrebbe potuto farci? Usarlo da scudo e tentare di scendere a compromessi? Era davvero arrivato a questo punto?

«Bertolt, perché ti sei fermato?! Alzati!» lo rimproverò Reiner, che sfrecciò oltre lui, immergendosi nella luce dei fanali.

Bertolt sollevò il capo e fece per replicare, ma ingoiò qualsiasi cosa stava per dire, quando si accorse che batteva i denti come se avesse freddo. Li batteva con così tanta forza, che ebbe paura di averne scheggiato qualcuno. Fu allora che realizzò quale fosse l'origine della luce: i lampioni lungo la strada. Si era spaventato per nulla.

«Bertolt, muoviti. Se restiamo qui, rischiamo troppo.»

Era stata Annie ad ammonirlo. La ragazza aveva rallentato fino a fermarsi e lo osservava dall'alto verso il basso. Mentre scrutava lo sguardo nauseato che Annie gli aveva rivolto, a Bertolt parve di comprendere cosa significasse essere viscidi e insulsi.

Inginocchiato sul cemento, mentre stringeva la vittima che avrebbero mietuto da lì a poco, era lui a incarnare l'emblema di quell'espressione.

Era Bertolt Hoover, costretto a rinunciare alla propria umanità, ad essere insignificante come un insetto.

Quello non fu l'unico particolare di cui prese atto in quel momento. Studiando il volto dell'amica, Bertolt aveva notato che sulle guance di lei vi erano due rivoli lucidi.

Fu la prima volta che vide Annie piangere. Non gliel'aveva mai visto fare prima: neanche al funerale di Marcel.


«Siete tre fottutissimi deficienti! La prima cosa da fare è guardare se ci sono persone in giro, idiota! Da dove cazzo è spuntato, poi? Siete tre coglioni! Coglioni!» sbraita Porco ad un palmo dal viso di Reiner.

A causa della lontananza, gli insulti di Porco arrivano ovattati, sebbene Bertolt, Annie e Pieck, seduti attorno a Marco, li percepiscano con distinzione. Non sa cosa ne pensi Annie, ma Bertolt pensa di meritarseli dal primo all'ultimo – semmai avrà una fine la serie di appellativi che Porco sta rivolgendo loro.

Sono stati troppo avventati e quella è la loro punizione: un morto sulla coscienza e non un morto qualunque, ma una persona a cui loro, in fondo, tengono in qualche modo. Si chiede se sia umano vivere con un tale fardello sulla coscienza.

I criminali ci riescono, ma loro? Loro sono così cattivi da sostenere un tale peso e uscirne indenni?

«Dovremmo sbrigarci e far sparire il corpo» commenta Pieck, laconica.

Un brivido gli scuote le spalle, quando ascolta il tono gelido della ragazza. È consapevole che Marco, dopo ciò che ha sentito, non può restare in vita, eppure non riesce a metabolizzare quell'informazione.

«Per colpa vostra, adesso anche io e Pieck siamo con la merda fino al collo!» ulula Porco.

Nessuno replica, nemmeno Reiner, che rimane immobile. Dato che gli dà le spalle, Bertolt non può vedere la sua espressione, sebbene sia convinto che quello non sia più Reiner.

«Basta, sono stanca» sussurra Annie accanto a lui.

Percepisce il fruscio della stoffa e, quando si volta verso di lei, Bertolt si ritrova ad osservarla di nuovo dal basso. Le guance sono asciutte, a differenza della felpa e dei jeans, che Annie ha pregni di sangue. Pare che vi abbia fatto un bagno dentro e persino la punta delle dita di lei è rossastra.

«Venite qui!» grida la ragazza a Porco e Reiner, i quali le regalano un cipiglio perplesso. Di rimando, lei piega le labbra in un ringhio.

«Dobbiamo muoverci» continua Annie, mentre i due ragazzi interrompono il contatto visivo e si avvicinano a dove si trovano lei, Bertolt e Pieck.

«Lo sappiamo bene, genio» borbotta Porco, mentre incrocia le braccia all'altezza del petto, «hai qualche suggerimento per farlo sparire senza lasciare alcuna traccia, per caso?»

«Ragazzi...» mormora Bertolt, ma la voce di Annie lo sovrasta, quando replica:

«No, ma, a differenza tua non sto abbaiando inutilmente.»

Porco mostra i denti e muove un passo verso la ragazza, quando un rantolo proveniente dal terreno attira l'attenzione di tutti loro. Il telo in cui è avvolto Marco comincia a rotolare su e giù di qualche centimetro, sollevando un po' di polvere. È in quel momento che Bertolt comprende di dover agire.

«Nessuno pronunci i nostri nomi» sibila Porco, mentre indica Pieck con un cenno della testa.

Reiner ed Annie non dicono nulla, mentre Bertolt annuisce. Le loro identità devono rimanere segrete, in caso qualcosa vada storto. Quando si leva un altro mugolio, Porco tira un calcio in mezzo al fagotto e si ode un lamento strozzato.

«Sta' zitto.»

«Smettila» ordina Reiner, poi tira il polso destro di Porco per farlo arretrare, «non infierire più del dovuto.»

«Non dovrei infierire? Siete voi che lo avete cacciato in questo casino» ribatte l'altro ragazzo e si divincola dalla presa. Dopo che pronuncia quelle parole, Reiner sbarra gli occhi, come se avesse capito solo adesso di aver firmato la condanna di Marco.

«Bertl?»

Bertolt sfarfalla le palpebre, sorpreso, quando Pieck lo richiama. La ragazza si è presa il mento tra due dita e scruta con insistenza l'involucro in cui è avvolto Marco.

«Pensi che potrebbero aiutarci i tuoi cuccioli?»

Il sudore comincia a scendere lento dalle sue tempie, mentre ascolta quella domanda. I cuccioli a cui Pieck si riferisce, sono i pitbull mastiff che suo padre alleva in un angolo della discarica.

«Vuoi... vuoi che loro...?» balbetta Bertolt, senza avere il coraggio di completare il quesito.

«Sì. Se lo mangiano, e spero che lo facciano, dovremmo seppellire meno pezzi e, di conseguenza, sarà più facile occultarli» replica Pieck, che getta un'occhiata a Marco, il quale ha ricominciato a rantolare.

«Aspettate un momento. Così non metteremo in pericolo Bertolt e... suo padre?»

È Reiner a porre quella domanda. I suoi occhi sondano i volti di loro quattro e stringe i pugni all'altezza dei fianchi. Pare più preoccupato l'amico che Bertolt, all'idea di disfarsi Marco tramite quel mezzo. Le alternative non sono molte, di conseguenza, anche se volesse, Bertolt non potrebbe essere in disaccordo.

«No. In una settimana circa non ci saranno più tracce di questo ragazzo, qui alla discarica. Il corpo dovrà essere seppellito lontano, però. Ma quello tocca a te, Reiner. Giusto?»

A Bertolt non sfugge il modo in cui Pieck stuzzica Reiner. Nonostante la ragazza non abbia commentato il loro fallimento, né abbia inveito contro di loro, ora gli pare chiaro quanto, in realtà, abbia colpito anche lei quell'inconveniente. Non la biasima: anche lui ne sarebbe stato infastidito e preoccupato, a ruoli invertiti.

«Va bene... facciamolo.»

Si chiede dove abbia tirato fuori tanta superbia da emettere quella sentenza di morte. Dal bozzolo in cui è avvolto Marco si levano dei singhiozzi, quando Reiner gli si avvicina e se lo carica sulla spalla. Porco gli fa strada, mentre lui e le ragazze retrocedono l'amico.

Accanto a Bertolt, Annie strascica i passi, quasi le sue scarpe pesassero troppo per essere spostate. Pieck ansima e picchietta con insistenza il terreno tramite le stampelle. Nonostante la penombra, Bertolt si accorge che la ragazza ha i capelli arruffati e incollati al volto a causa del sudore.

«Vuoi... che ti porti in braccio?» le propone, ma Pieck nega con un cenno del capo.

«Ce la faccio» gli risponde lei, ma sanno entrambi che è una menzogna.

Impiegano dieci minuti abbondanti per giungere fin lì. Prima che loro possano scorgere il recinto in lontananza, si levano degli ululati. Più che cani, a Bertolt ricordano dei lupi selvatici.

«Siamo arrivati...» avverte, quando si posiziona di fronte la rete alta pochi centimetri più di lui.

Alcuni dei cani abbaiano e scodinzolano appena li vedono, poi si avvicinano alla rete e vi premono contro il muso, alla ricerca di attenzioni; altri girano in cerchio senza staccare il contatto visivo. Tra questi ultimi, vi sono pitbull che presentano ampie ferite su cui non cresce più il pelo, oppure orecchie monche. Sono quelli che suo padre e il collega addestrano per le lotte clandestine nel South Side.

Alla sua destra, Pieck avanza, oltrepassandolo, e allunga la mano verso uno dei pitbull vicini alla rete, che le lecca le dita. Mentre la scruta, Bertolt scorge un movimento furtivo accanto alla ragazza e, prima che un altro dei cani le azzanni le falangi, le afferra un braccio per attirarla a sé. L'animale ringhia e urta quello che l'amica ha accarezzato, il quale ricambia mordendolo. In un battito di ciglia, i due cani rotolano a terra e solo allora Pieck domanda:

«Grazie. Da quant'è che non mangiano?»

Bertolt si morde il labbro inferiore, mentre riflette sulla risposta.

«Non lo so» conclude.

«Ottimo» replica lei, poi si allontana e si avvicina ad Annie, rimasta lontana rispetto a dove si trovano lui, Porco e Reiner. Quando le è vicina, Pieck lascia un tocco fugace sulla spalla dell'altra ragazza e questa trasalisce.

«Che puzza, cazzo» borbotta Porco e si copre naso e bocca con la mano, sovrastando il latrato dei cani, «pulite mai questo schifo?»

Scuote il capo, mentre rivolge la sua attenzione a Reiner, il quale ha adagiato Marco sul terreno dinanzi la recinzione.

«È vomitevole, sappilo» continua l'altro ragazzo, che si avvicina al fagotto in cui è racchiuso Marco.

Porco si china, spinge l'involto e ne afferra un lembo per srotolare il ragazzo che vi è all'interno. Quando le lentiggini di Marco sono esposte alla luce dei lampioni, l'altro gli afferra le guance con una mano. Porco lo osserva dritto negli occhi e l'altro ricambia lo sguardo, sebbene tremi come una foglia.

«Ti hanno impacchettato per bene, eh?» domanda il compagno, che strappa via dalla bocca di Marco il nastro adesivo che Reiner gli ha appiccicato.

«Reiner! Bertolt! Annie! Perché?!»

Quel grido costringe Bertolt a serrare le palpebre. Una fitta di dolore gli stritola il cuore e d'istinto si porta una mano all'altezza del petto, lì dove, in teoria, dovrebbe esserci l'organo – sempre se gliene sia rimasto uno, data l'azione che sta per compiere. Il latrato dei cani si intensifica, quando Marco inizia a strillare, e percepisce lo schiocco di uno schiaffo vibrare nell'aria.

«Sta' zitto! Agiti i cani, così» lo rimprovera Porco e l'altro singhiozza più forte.

«Porco, basta! Non è un sacco da box!» urla Reiner e a quella frase segue un calpestio di passi pesanti.

«Che ti importa? Tanto tra poco diventerà cibo per cani. Piuttosto, voi due, aiutatemi. Non ce la faccio a sollevarlo da solo» continua il ragazzo.

Quando Bertolt riapre gli occhi, il viso di Marco è grondante di muco e lacrime. La guancia sinistra è arrossata e testimonia che Porco l'abbia colpito in quel punto. Reiner è accovacciato accanto a Marco e lo ha già afferrato dalle spalle. Manca soltanto lui ad aiutarli.

«Dobbiamo... dobbiamo farlo per forza?» domanda e la voce gli trema a causa dell'esitazione.

«Dipende, Bertl. Scegli lui o noi?» lo punzecchia Porco, il quale ha afferrato le caviglie della vittima.

Gli pizzicano gli occhi, eppure raggiunge i tre ragazzi e stringe Marco dai fianchi. Mentre lo issano, qualche lacrima cade sul viso del compagno, che ricomincia a gridare.

«Lasciatemi, vi prego! Ditemi che state scherzando! Reiner! Bertolt!»

Gli sfugge un rantolo e singhiozza, poi tutti e tre, coordinandosi, avanzano fino a che il capo di Marco non è oltre la rete. Dato che la recinzione è troppo alta per Porco, sono Bertolt e Reiner a spingere il corpo all'interno di essa. Mentre compiono quest'operazione, i pitbull si avvicinano e abbaiano. Alcuni si schiantano persino contro la rete, come a volerli intimare di sbrigarsi.

«No, ragazzi! No! Vi prego, io... Io devo ancora parlare con lui!» grida Marco, poco prima che il suo corpo produca un tonfo secco.

Dato che ha le mani e i piedi legati, tutto ciò che può fare il compagno è strisciare con un verme per fuggire. Vi è un attimo di esitazione, sia da parte di Bertolt, indeciso se guardare o meno, sia da parte dei cani, che si aggirano curiosi intorno al loro pasto.

Attraverso la coda dell'occhio, alla sua sinistra nota che Porco ha già spalancato la bocca per lamentarsi, ma viene zittito da un ringhio a cui segue un grido di Marco.

Qualcuno degli animali gli morde la gamba, altri si avventano alle vesti e le lacerano per raggiungere l'addome, altri gli azzannano il collo. È come osservare una carneficina. Il peggio è che lui è responsabile di quella carneficina.

Marco si contorce e canta una nenia macabra, che, sebbene perfori i timpani di Bertolt, questo si impone di ascoltare. Dovrebbe morire lui, non Marco, la cui unica colpa è stata di essere nel luogo sbagliato al momento sbagliato.

A Bertolt è sufficiente un battito di ciglia, affinché non veda più i randagi. Sente la testa girare a causa delle vertigini e, il minuto dopo, sotto di lui non c'è il ciarpame della discarica, ma delle tegole che scricchiolano sotto alle suole consunte. Marco non è vittima di un branco di cani affamati. Il ragazzo è stritolato da due mani grandi il doppio di lui e una bocca, grossa come una macchina, gli trancia via parte del viso. È un mostro dalle fattezze umanoidi quello che sta banchettando con Marco e Bertolt assiste immobile alla scena.

I contorni del Gigante sfumano e davanti ai suoi occhi ci sono di nuovo i pitbull, le cui zanne cozzano contro le ossa di Marco.

Quando ognuno dei cani ottiene il loro premio, della loro vittima non rimane che una carcassa che, rivolta verso di loro, li giudica tramite l'occhio privato dalle palpebre.

Chissà quante volte Jean è stato accarezzato da quelle iridi castane. Chissà quante volte lo ha sfiorato, Marco, tramite la mano che ora mastica uno dei cani. Chissà cosa proveranno i suoi genitori, quando capiranno che il suo letto, da questa notte in poi, rimarrà vuoto per sempre.

Bertolt ha distolto lo sguardo, altrimenti non avrebbe trattenuto il conato di vomito che gli preme sul fondo della gola. Si è voltato e ha incontrato gli occhi spalancati di Annie, la quale è stretta nell'abbraccio di Pieck. Non riesce a vederla in quello stato, né ad ascoltare la voce di Marco che man mano diventa flebile fino a svanire.

Il ragazzo si allontana a passi veloci, premendosi i palmi delle mani sulle orecchie, mentre i singhiozzi tornano a vibrargli in gola.

Il sangue di cui tutti e cinque hanno sporche le mani non si laverà facilmente con acqua e sapone.

Note dell'Autrice:

L'autrice si solleva da ogni responsabilità per eventuali danni morali! Dopo un capitolo del genere non dovrei fare sarcasmo, ma ehi, si allenta la tensione come si può – giusto? Diciamo che da questo momento inizia il vero e tortuoso viaggio dei nostri protagonisti verso... verso nulla di buono! Non sono particolarmente soddisfatta di questo capitolo, perché penso di essere stata insensibile... ma ad ogni modo, fatemi sapere voi cosa ne pensate e dove potrei migliorare! Ringrazio chiunque stia leggendo la storia, chi l'ha messa tra i preferiti e chi tra i seguiti, oltre a chi ha recensito (scusatemi se non rispondo subito alle recensioni, dimentico sempre di farlo)!

Prima di lasciarvi, ecco la parola del giorno:

Pochemuchka (russo): una persona che fa molte domande, parola spesso usata affettuosamente dai genitori nei confronti di bambini particolarmente curiosi.

Vi lascio un grosso abbraccio,

Luschek 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top