Oneirataxia [Parte 1]


Incapace di distinguere tra sogno e realtà


West Side, Chicago.

Reiner si piegò in due, mentre il suo petto veniva percorso da risa grasse e roche. Aveva le lacrime agli angoli degli occhi e implorava Marcel di smetterla – l'amico aveva incastrato delle bacchette di legno tra il labbro superiore e la gengiva, imitando un tricheco –, ma quest'ultimo continuava a farfugliare parole incomprensibili. A Bertolt rilassava sentire la risata di Reiner, perché quando l'amico rideva significava che, nonostante le loro vite fossero problematiche, tutto andava bene.

Riteneva che quella risata alimentasse la propria forza: gli bastava sentirla, affinché credesse possibile affrontare la vita con un sorriso. Se avesse avuto una fotocamera o un cellulare a portata di mano, ogni volta avrebbe immortalato i momenti in cui tutti e tre sentivano gli addominali e la mascella indolenzita a causa delle troppe risa.

La felicità duratura, tuttavia, è qualcosa di cui possono godere poche persone. La morte di sua madre, quando lui aveva otto anni, era stato un primo assaggio di quella consapevolezza. Conoscere Marcel, Reiner ed Annie gli aveva fatto dimenticare la paura di assistere alla morte di un caro.

Poi un flagello inaspettato si abbatté sulla sua vita: la risata di Reiner si spense e la sua fobia della Morte tornò a tormentarlo.

«A cosa stai pensando?»

Ritornare alla realtà è difficoltoso nell'ultimo periodo. Sono maggiori le volte in cui si distrae, che quelle in cui ascolta davvero ciò che il suo interlocutore ha da dire. Sbadiglia senza coprirsi la bocca, poi si pinza la radice del naso tra indice e pollice. Ha un pizzicore diffuso su tutta la testa, ma che è intenso soprattutto nella zona all'altezza della nuca. Attribuisce questi sintomi all'insonnia, poiché, da un paio di settimane a questa parte, rimane sveglio a fissare il soffitto.

«Al prossimo turno. Non ricordo la data...»

Da quant'è che mente sui suoi reali pensieri a Reiner?

L'amico è troppo gentile da non farglielo notare, eppure sanno entrambi che ha pronunciato l'ennesima bugia. È un comportamento che pesa a tutti e due, ma non può fare a meno di agire così, soprattutto da quando il viso di Reiner è adombrato da quell'alone. Controlla con cura qualsiasi parola pronuncia in sua presenza, quando la piega delle labbra di Reiner diventa ritta – come la linea dell'orizzonte – e le iridi d'ambra diventano vacue, quasi il proprietario non avesse più linfa vitale all'interno del proprio corpo.

Qualcosa è cambiato dal giorno in cui Marcel è morto, lo sa bene: è come se fossero morte due persone, invece che una sola. Lo stomaco gli si rivolta, quando nelle sue orecchie riecheggiano le note di I took a Pill In Ibiza, la suoneria che aveva all'epoca.

"But you don't wanna be high like me
Never really knowing why like me
You don't ever wanna step off that roller coaster and be all alone."

«Pronto?»

«Bertolt. Sono Pieck.»

«Pieck? Cos'è...»

«Marcel e Reiner hanno avuto un incidente. Si trovano all'ospedale, quello sulla Maryland Ave. Io e Annie stiamo già andando lì, sbrigati.»

«Credo sia giovedì alle sette, come al solito. No?» dice Reiner ingenuamente, che lo riporta alla realtà.

La frase pronunciata dall'amico gli fa venire la pelle d'oca, tanto che è costretto ad arrestare il passo e voltarsi per guardarlo in faccia. Un altro vuoto di memoria.

«Cos'ho detto?» balbetta l'altro, allarmato dalla sua reazione improvvisa.

Attraverso lo sguardo quello lo sollecita ad esprimersi, anche se pare intimorito dalla risposta che potrebbe dargli. Bertolt vorrebbe tenere la verità per sé, ma sotto pressione non regge a lungo, perciò gli rivela subito quale sia il problema:

«Reiner... Noi non abbiamo più i turni insieme da oltre un anno» ammette.

Il lampo di consapevolezza dura una frazione di secondo nelle iridi di Reiner, le quali, poi, perdono la luminosità che dimostrerebbe un normale essere umano. Il corpo dell'amico compie piccoli gesti che alla sua attenzione non sfuggono: l'altro ragazzo mette gonfia, solleva il mento e arcua le labbra in un broncio.

«Vieni con me agli allenamenti? In questi giorni dovremmo passare anche da Eren. Per vedere come sta, sai.»

Reiner ha cambiato argomento, cancellando il precedente dalla propria mente come se fosse stato gesso su di una lavagna. Un brivido di timore attraversa la spina dorsale di Bertolt, mentre osserva le pupille opache dell'altro. Vorrebbe chiedergli cosa stia succedendo, tuttavia sa che non è né il momento né il luogo adatto per farlo. Ha paura che rendere l'altro partecipe della sua follia, potrebbe ridurlo in microscopici brandelli – e Bertolt non è mai stato bravo nel comporre puzzle.

Decide, quindi, di macchiarsi d'omertà e fingersi cieco di fronte quei segnali che preannunciano un male maggiore.

«Mi vedo con Armin, tra poco, quindi non posso rimanere agli allenamenti... Per quanto riguarda Eren, invece... andrebbe bene domani sera?»

«D'accordo» risponde atono l'amico.

La calma dimostra Reiner adesso non lo rassicura nemmeno un po', dopo ciò che è appena successo. Se possibile, aumenta la pila di fobie che, da due anni a questa parte, sta accatastando nel proprio cuore. Proseguono in silenzio, finché non giungono all'angolo della strada dove l'amico ha parcheggiato la propria motocicletta. Bertolt non ne capisce molto di motoveicoli – sono sempre stati Marcel, Porco e Reiner gli appassionati –, però ha imparato a distinguere quella di Reiner dalle altre, quando quest'ultimo ha dipinto una "R" rossa sulla carrozzeria.

Dopo che l'altro ragazzo sale sulla motocicletta, Bertolt gli porge il casco che gli ha retto fin ora, poi nasconde le mani nelle tasche della felpa. Rispetto alla settimana prima, le temperature sono diminuite e non rischia di sciogliersi nelle sue stesse vesti. Dato che Reiner nonostante sia già salito sulla sella, domanda:

«Va tutto bene...?»

«Eh? Sì, sto benissimo» risponde piccato, «sei tu quello che non sta ancora salendo.»

Bertolt sospira e, poiché ha le mani nascoste all'interno delle tasche, si conficca le unghie nel palmo per sfogare la frustrazione.

«Reiner...» lo richiama e, senza volerlo, il tono è esasperato «ci eravamo messi d'accordo sul fatto che tu saresti andato da solo in moto, perché sei in ritardo, mentre io a piedi, dato che devo vedermi con Armin tra mezz'ora» gli rammenta.

Dato che Reiner ha il volto coperto dal casco, Bertolt non può osservare il mutare della sua espressione – che gli sarebbe utile, al momento, per valutare l'entità del turbamento che ha sconvolto l'altro. Basandosi sul silenzio che segue dopo la sua rivelazione, crede che l'amico non l'abbia presa molto bene – e ora ha paura a lasciarlo da solo coi propri demoni.

«Oh, sì, giusto. Devo muovermi, altrimenti il coach mi sgriderà.»

Il modo con cui Reiner pronuncia quelle parole gli ricorda le voci pre-registrate – quelle elettroniche e prive di emozioni, che rispondono quando qualcuno non risponde ad una chiamata.

«Fa' attenzione. Non andare troppo veloce.»

È il monito con cui saluta Reiner, mentre questo fa ruggire il motore e si allontana, zigzagando tra i veicoli lungo la strada. Come non detto.

Si sente egoista nel pensarlo, ma, dopo che l'amico si è allontanato, tira un sospiro di sollievo – sebbene sia momentaneo. Quando la figura dell'altro si avvolge di quel manto di incertezza, Bertolt non prova più la sicurezza che, una volta, era capace di infondergli Reiner. Senza rimuginarci troppo, s'incammina nella stessa direzione presa dalla motocicletta e affretta il passo.

Mentre procede lungo la strada, tiene il capo abbassato ed evita di incrociare lo sguardo con gli altri passanti. Lo fa sentire inadeguato guardare le persone in faccia, soprattutto quando queste gli rivolgono lunghe occhiate di disprezzo – come se loro intravedano nel suo animo il peccato che lo ha contaminato. Come al solito, devia dalla strada principale per infilarsi in una delle tante traverse. È un inutile escamotage affinché possa camminare di più, ma muoversi lo aiuta a riflettere – inoltre, grazie alle sue gambe lunghe impiega poco tempo a raggiungere la meta, dunque non si preoccupa di allungare il tragitto.

«Il tempo è poco.»

Quella frase lo distrae dai propri pensieri. Dapprima crede sia Reiner, dato che il timbro della voce è profondo, però, quando solleva la testa e si accorge di essere da solo, si allarma sull'origine della voce. Volta il capo in tutte le direzioni, nel frattempo che le pupille schizzano come biglie impazzite all'interno delle orbite, tuttavia non vi è nessuno sul marciapiede da accusare. Forse lo ha solo immaginato, oppure qualcuno gli ha tirato un brutto scherzo.

«Sono qui» lo aiuta l'estraneo, che alza la voce. Bertolt lo individua sul ciglio della strada opposto a dove si trova.

Giurerebbe di non averlo notato prima, quando si è guardato intorno, però si autoconvince di essersi agitato troppo per accorgersene. A causa della distanza che li separa non riconosce chi sia, perciò si focalizza sugli abiti per tentare di riconoscerlo – il solo dettaglio significante è la spropositata altezza del suo interlocutore, ma essa non gli ricorda nulla. Mentre si concentra sulla sagoma della persona – che pare quasi trasparente, ma attribuisce ciò alla sua cattiva vista –, si accorge che quella ha la camicia bianca macchiata di cremisi.

Immediatamente associa quella figura all'uomo nello specchio dell'altra mattina – ed è inevitabile che la paura gli faccia tremare le ginocchia, che diventano instabili. Cos'è quella cosa? Perché lo segue?

«Che cosa vuoi?!» grida e l'eco rimbomba nella stradina vuota.

Ciò che ottiene è un dissenso del capo, a cui non sa attribuire alcun significato. Poco dopo, però, ne segue una frase che accresce i suoi timori.

«Li perderai ancora, di questo passo...» pare che quell'affermazione la ululi il vento, invece che una voce umana.

Nonostante sia spaventato, Bertolt ha appoggiato un piede sull'asfalto, è pronto a poggiare l'altro per raggiungerlo – ma un camion gli sfreccia davanti prima che possa muovere un altro passo, occupandogli la visuale. Il boato del motore è così forte, che per qualche istante sente solo un ronzio nei timpani e, preso alla sprovvista, si lascia cadere sul marciapiede. Respira grandi boccate d'aria, tuttavia l'ossigeno sembra scappare da lui.

Dopo, senza darsi il tempo di riprendersi, scatta in piedi ricerca lo strano individuo. Nella sua visuale, però, intravede soltanto volantini stropicciati che si fanno sospingere dal vento. Un passante, incurante di ciò che gli sia capitato attorno, gli lancia un'occhiataccia, tossisce e affretta il passo. Da dov'è uscito fuori, se poco prima non c'era nessuno lungo la strada?

Bertolt si siede sul marciapiede, mentre il cuore ancora galoppa – e quasi minaccia di esplodere, quando qualcuno gli picchietta la spalla. Girandosi, nota che è l'indice di Ymir a molestargli il braccio. È tanto scosso che non dice nulla – persino un angolo della bocca gli trema a causa del nervosismo.

Sebbene tenga lo sguardo fisso davanti a sé, nel punto in cui è sparito lo spettro, con la coda dell'occhio nota che lei volta il capo nella sua stessa direzione.

«Hai visto un fantasma, bambolina?» chiede ironica la ragazza, la quale gli si accovaccia accanto.

È tentato di ammetterlo, ma ingoia quell'affermazione prima che venga additato come folle. È già considerato un tipo strano, non ha bisogno che circolino altre pessime voci sul suo contro.

«No... Non mi sono accorto di un camion» mente, ma la voce è flebile, quindi è sicuro che Ymir fiuterà l'inganno.

Al contrario di quanto crede, la ragazza non pronuncia alcuna battuta sarcastica, né lo smaschera, e le pupille di lei scivolano sul luogo in cui prima vi era il fantasma

Ymir è una pessima compagnia e sa anche lei di esserlo, ma ciò non toglie che lui la prediliga a molte altre persone. La ragazza non sarà in cima alla lista delle sue "amicizie strette", eppure è l'unica, a parte Reiner, ad essere capace di calmarlo. È come se fosse un'abilità innata che solo pochi eletti possiedono. La differenza tra i due, è che lei lo distrae riempiendogli le orecchie di sciocchezze, ma non gli dispiace affatto questo modo caotico di agire. Estraniarsi dai suoi problemi produce un effetto terapeutico, pertanto coglie al volo ogni occasione per farlo – anche se questo significa bazzicare in giro con Ymir. Finché non infrangono la legge – dato che ci pensa da solo a farlo – a lui va bene stare con lei.

Sono passati venti minuti da quando l'ha incontrata e, poiché hanno percorso a piedi il tragitto fino alla scuola, percepisce le piante dei piedi indolenzite. Non vede l'ora di sedersi – e il desiderio aumenta, quando le sue pupille scorgono il cancello della scuola.

«Ecco che cosa manca!»

Esclama ad un tratto Ymir, gli occhi spalancati e un sorriso ferino sulle labbra, mentre batte un pugno sul palmo della mano aperta. Bertolt solleva un sopracciglio, incuriosito.

«Non c'è il gorilla!» grida e questo fa voltare alcuni ragazzi che, come loro, si avviano verso il cancello, «Dove l'hai lasciato il tuo fidanzato, Bertl?»

Il ragazzo arrossisce fino alla punta delle orecchie e incassa la testa nelle spalle per mascherarlo. Vorrebbe scavarsi una fossa lì, nel bel mezzo del cortile, pur di non ricevere quel tipo di umiliazione in pubblico. Qualcuno, infatti, li osserva come se fossero dei pagliacci che provano la loro esibizione. Ha dei ripensamenti sulla compagnia di lei, eppure averla accanto è stato efficace, perché il tizio strano non si è ripresentato.

«Ha gli allenamenti» spiega e avanza, mentre continua ad osservarla.

Il fatto che Ymir sbarra gli occhi lo preoccupa, prima che farlo divertire data la bizzarra inversione dei ruoli. Bertolt alza un sopracciglio confuso e il suo silenzio è abbastanza eloquente da esigere una delucidazione.

«Cazzo, Bertl! Il tuo ragazzo è qui da qualche parte, che si fa la doccia nudo, e tu sei così calmo? Forza, andiamo a vederlo» dice lei e lo strattona dalla manica.

«Non è il mio... Ferma!»

Ma è inutile ribattere e gridarle dietro, tant'è testarda, perché Ymir lo ha mollato lì e corre verso la palestra.

«Fidanzato?» chiede una voce accanto a lui.

Bertolt sobbalza e si sposta qualche passo più in là, deglutendo l'urlo di paura che, in realtà, avrebbe dovuto lanciare quando ha rischiato di essere investito. Quando guarda in faccia il suo interlocutore, nota che le lentiggini di Marco sono così tante, da renderlo facilmente rintracciabile in mezzo alla folla.

«È uno stupido scherzo» precisa, mentre tende l'orecchio e coglie i gridolini che si sono levati dal campo di atletica. Ymir ha completato il suo obiettivo.

Marco deve averli sentiti anche, perché ridacchia divertito.

«Non ci sarebbe nulla di male. Sareste una bella coppia» ammette il compagno, quando si calma.

Mentre pronuncia quelle parole, lo sguardo di lui è perso nel vuoto e ciò gli fa intuire che in verità lo pensi di sé e qualcun altro. Sospetta su chi stia fantasticando, però tace: meno è simpatico agli altri, meno sarà coinvolto in situazioni spiacevoli in futuro. Nonostante pensi questo, smorza la tensione giocherellando coi vestiti della felpa e borbotta un imbarazzatissimo:

«Grazie.»

«Stavi andando da lui?» lo incalza di nuovo Marco, che accompagna la domanda con un'occhiata languida.

Gli balena in mente una frase che dice spesso Yelena, a questo proposito: i ficcanaso prima o poi fanno una pessima fine.

Le attenzioni non gli dispiacciono, tuttavia, se provengono da persone che in futuro potrebbe ferire, allora esse sono rese fastidiose dal senso di colpa. Marco è un bravo ragazzo, ma non è dalla sua parte, quindi non può dargli troppa confidenza. Deve preservare uno dei due e Bertolt sceglie egoisticamente di preservare sé stesso.

«No. Armin mi aspetta in biblioteca» rivela.

«Oh! Anch'io sto andando da Armin! Studi con noi, oggi?»

È confuso, poiché ha creduto che Armin non avrebbe coinvolto terze persone durante la loro sessione di studio, ma deve ingoiare il rospo amaro per non alimentare sospetti.

Annuisce, dopodiché si avviano insieme verso la biblioteca, Marco che cerca di attaccare bottome e Bertolt che risponde a monosillabi, mentre tiene il naso rivolto verso il cielo plumbeo del pomeriggio. Le nuvole sono enormi, rigonfie di pioggia e sembrano mescolarsi tra loro e disfarsi come se nulla fosse. Come se fare parte di qualcosa e dopo abbandonarlo non facesse male.

Qualcosa dentro di sé – o qualcuno all'orecchio? – gli suggerisce che la partita contro il destino è cominciata. 

«Non capisco, Bertolt. Perché hai voluto il mio aiuto, se questi problemi li sai svolgere?»

Armin non ha scollato gli occhi dal foglio, mentre ha pronunciato quelle parole. Le dita piccole e sottili sono ancorate alla carta, salde, eppure mantengono la gentilezza sufficiente a non stropicciarla.

Bertolt si graffia il dorso del polso col tappo della penna, poiché non sa come aggirare quella domanda così precisa. Se rimane troppo in silenzio, però, desterà sospetti. Menti, menti, menti.

Non gli ci vuole molto per montare su la farsa: poggia la penna sul quaderno e si massaggia la nuca, simulando un imbarazzo che in realtà non prova.

«È stato solo grazie alla tua spiegazione. A casa non li ho saputi fare...» sussurra, incerto.

Mentre parla, lancia un'occhiata al posto vuoto che, una decina di minuti prima, è stato occupato da Marco. A differenza degli altri giorni, Armin ha atteso a lungo, dopo che ha revisionato i suoi compiti, prima di dare un verdetto. Ha aspettato di proposito che Marco se ne andasse?

Aveva detto a Reiner che sarebbe stata una pessima idea – tentare di – raggirare Armin. Non si sarebbe mai aspettato una mossa del genere, però questo motiva le sue ragioni. Il ragazzo che ha di fronte è pericoloso.

Se non fosse certo di non essere mai stato seguito da Armin, oppure di aver parlato insieme a Reiner ed Annie in luoghi in cui questo fosse presente, gli avrebbe piantato la biro in fronte per cessare definitivamente quell'infinito interrogatorio. A cosa voglia arrivare, poi, con quella conclusione, non lo sa. Si trattiene dal cambiare espressione, quando si rende conto di ciò che ha pensato. Riuscirebbe ad uccidere Armin, se la situazione lo richiedesse?

È disposto a rapire Eren, cosicché non ci siano ripercussioni sui suoi amici e su suo padre. Fino a dove può arrivare, per salvare ciò che gli è caro? Quanta umanità può sacrificare, prima di trasformarsi in qualcosa di disumano?

«Oh, grazie. Non pensavo di essere stato così esaustivo» dice Armin, che abbassa il foglio per osservarlo in viso.

«Lo sei stato» insiste Bertolt, riscossosi dai suoi pensieri. Non sa da dove tragga il coraggio, ma sostiene lo sguardo dell'altro.

Armin sembra contento, perché sul suo volto nasce l'accenno di un sorriso e lui si chiede se possa, un ragazzo così affabile, rivelarsi un pericolo, tanto da esigere la sua stessa presenza durante la missione. Scrolla le spalle nel pensarci: in realtà Reiner vuole sia lui che Annie per placcare Mikasa. Le insidie che potrebbe arrecare Armin sono di un altro tipo. Parlare, scoprire, riferire.

«Armin» lo richiama, sebbene la voce si abbassi di volume sulle ultime lettere.

«Sì?»

Dopo che risponde, il ragazzo gli allunga i fogli che ha in mano. Bertolt li prende e li infila nel quaderno aperto sul tavolo. Li ha stropicciati, ma non gliene importa poi molto. Tanto tra qualche anno, dovrà lasciarla la scuola.

«Posso farti una domanda?»

«Dovrai farmene un'altra, allora, perché una l'hai già fatta» scherza Armin, ma Bertolt non riesce a ridere, dato ciò che sta per domandargli.

Attende qualche secondo, durante il quale l'altro ordina in base alla sfumatura del colore alcuni post-it all'interno di un libro, poi mormora:

«Se fossi... costretto a fare del male ad un'altra persona, perché non hai altra scelta... Ciò ti renderebbe meno cattivo?»

Armin solleva un attimo lo sguardo, su cui spicca l'innaturale sfumatura di azzurro delle sue iridi. Pare quasi di ammirare il cielo a mezzogiorno, tanto è intenso. Dopo la prima reazione di sorpresa, quello ritorna al suo metodico lavoro.

«Speravo mi facessi una domanda di matematica, non una di filosofia.»

C'è una pausa lunga – la lancetta dei minuti si muove di ben cinque tacche, mentre Bertolt aspetta –, ma alla fine la risposta arriva.

«Non credo che mi renderebbe cattivo, direi piuttosto... disperato, ecco. Inoltre, categorizzare le azioni di qualcuno negli estremi di male e bene è fuorviante. Ci sono troppe sfumature in mezzo... Noi vediamo il mondo a colori, perché tutte le sfumature si mescolano. Se esse fossero separate, li vedremmo distinti in modo netto. Quasi innaturale, oserei dire. Per di più, non posso darti una risposta precisa, se non contestualizziamo una situazione del genere. Perché sarei costretto? A causa di un ricatto? Di un'entità superiore? Ci sono troppi fattori da valutare.»

Armin ha finito di incollare i post-it sulle pagine e pare soddisfatto del proprio lavoro. Quando solleva le pupille, Bertolt viene inchiodato alla parete che ha dietro le spalle da esse.

«Perché mi hai fatto questa domanda?» domanda con genuinità.

Perché vorrebbe trovare una soluzione. Perché si sente un vigliacco, un lupo mascherato da pecora che si mesca nel gregge. Perché vorrebbe alzare il capo, ma non ci riesce.

«Ho letto un articolo sull'argomento» mente.

«Capisco» mormora Armin sovrappensiero, come se la risposta non gli interessasse sul serio, «Vai a casa, adesso?»

Ha cominciato a riporre l'astuccio e i quaderni nello zaino, nel frattempo che Armin gli ha fornito la propria opinione. Bertolt è indeciso se dirgli la verità o meno, però propende per un'altra menzogna.

«Io e Reiner andiamo a casa sua.»

È la seconda volta che Armin, mentre si dedica alle sue faccende, si ferma e lo fissa di sottecchi, come se abbia detto qualcosa di sbagliato. Si sente a disagio e, se avesse un po' di coraggio in più, gli chiederebbe perché lo faccia, ma non lo fa, quindi inclina il capo di lato e solleva le sopracciglia.

Armin annuisce, poi comincia a raccogliere le sue cose.

«Tu, invece?» domanda Bertolt, per intavolare una conversazione.

Quello riflette un po', prima di dire:

«Vado da Eren e Mikasa.»

«Oh,» rimasto a corto di idee, si gratta la nuca, stavolta a causa della tensione, e aggiunge «Salutameli, allora. Comunque sia... ora vado. Ciao, Armin.»

Alzatosi, Bertolt indossa lo zaino e si congeda dall'altro con un cenno del capo. Armin ricambia ondeggiando la mando.

Mentre si avvia verso l'uscita della biblioteca, comprende che qualcosa che non va. Lo avverte nell'aria, negli sguardi degli altri e perfino sotto pelle. Un particolare importante gli sta sfuggendo e immaginare di doverne parlare con Reiner – o con chiunque stia vestendo la sua faccia – gli fa scendere l'umore sotto i piedi, ma sa benissimo che deve farlo. Il fallimento non è un'opzione. Deglutisce e accelera il passo, poiché man mano che svolta gli angoli dei corridoi, ha l'impressione che i muri si avvicinino troppo – con la mera intenzione di schiacciarlo come il verme che è.

In men che non si dica, Bertolt si ritrova a correre, noncurante dei pochi studenti che si voltano e gli lanciano occhiate torve. Non può farne a meno, però: si sente soffocare all'interno dell'edificio ed è convinto che uscire fuori lo aiuterà. I polmoni bruciano per lo sforzo – corre così velocemente, che qualcuno gli grida dietro se sia inseguito –, reclamano l'ossigeno necessario al normale funzionamento del corpo, ma non si lascia abbattere da questi fastidi, poiché la meta – la porta d'uscita – è lì davanti ai suoi occhi.

Quasi scivola, quando spinge con impeto la maniglia d'emergenza, tuttavia, dopo che ha barcollato per qualche passo, riacquista l'equilibrio e spalanca le braccia, mentre inspira quanta più aria può.

Per il momento si convince di essere salvo.

Nel frattempo, in palestra.

È rimasto da solo all'interno degli spogliatoi. I muscoli ti tutto il corpo sfrigolano a causa dell'allenamento appena svolto, mentre i nervi sono roventi, come se avesse fatto un bagno nella lava. L'unico rumore percettibile è quello del suo respiro regolare – reso pesante, adesso, dalla stanchezza accumulata nel pomeriggio. Affinché possa recuperare le energie, si sdraia sulla panca su cui è seduto.

La posizione dello spogliatoio, rispetto alla palestra e al cortile, lo rende un luogo poco adocchiabile. Inoltre è fresco, le porte sono nascoste all'occhio dai cespugli, perciò è un ottimo luogo dove oziare senza essere disturbati. O per attuare il piano, lontano da sguardi indiscreti.

Un formicolio si estende a tutto il capo, quando formula quest'ultimo pensiero. Quale piano deve mettere in pratica? Non ne ha idea. Forse ha dimenticato qualcosa che Bertolt gli ha detto – in caso chiederà a quest'ultimo, quando lo rivedrà. Deve vedersi con Bertolt tra dieci minuti scarsi, fuori dalla palestra.

Si schiaffa una mano sulla fronte, quando se lo ricorda. Come ha fatto a dimenticarsene?

Sbuffa, perché non ricorda neanche il motivo per cui deve vedere l'amico – deve dormire a casa sua oggi, oppure devono solo fare un giro?

Si bussa sulla fronte con le nocche, mentre stringe i denti e si concentra, nel vano tentativo di ricordare. Tutto ciò che ottiene, però, è un'emicrania fastidiosa.

«Ehi, Reiner.»

Quando si sente richiamato, ingenuamente crede che sia Bertolt, dunque non è sorpreso di incontrare due iridi verdi come giada, nel momento in cui si tira a sedere a cavalcioni della panca. Nel momento in cui realizza che quegli occhi, però, appartengono ad un altro viso ben conosciuto, si morde la lingua.

Eren pare un cerbiatto spaventato, dal modo in cui ha gli occhi spalancati e il petto che si abbassa e alza frenetico. Dal sudore sulla fronte, deduce che abbia corso – perché avrebbe dovuto farlo, però? Non dovrebbe avere la febbre, poi? Perché si trova qui?

Solleva gli angoli della bocca in un sorriso preconfezionato e sventola una mano verso l'altro.

«Eren, ciao! Da quanto tempo. Tutto bene?» cinguetta.

Lo sguardo di Eren è un misto tra l'imbarazzato e il disgustato, come se si sia accorto della pessima messa in scena di Reiner.

«Sì» risponde l'amico – ha ancora il diritto di chiamarlo così?

È in procinto di domandargli perché si trova lì, quando nota che l'altro ha il moccio che pende dal naso, sebbene cerchi di pulirselo con la manica della felpa. Ha sia l'area intorno alle narici che all'arco di Cupido screpolata e arrossata. Prima che Eren si ripulisca con l'indumento, Reiner estrae dai pantaloni un pacco di fazzoletti. Deve esserselo dimenticato in lavatrice, perché è accartocciato su sé stesso e l'altro deve distruggerlo per aprirlo.

«Sempre meglio di niente, no?» ironizza e fa spallucce, quando una parte del fazzoletto rimane incollata sui polpastrelli di Eren, mentre l'altra si schianta al suolo. Non lo toccherà di certo, con tutti i fluidi corporei e non che ricoprono il pavimento dello spogliatoio.

«Già...» mormora l'altro, che si soffia come meglio può il naso.

Reiner si sposta un po' indietro e batte una mano sulla panca davanti a sé, cosicché Eren lo raggiunga. Il ragazzo solleva appena gli angoli della bocca, dopodiché si siede a cavalcioni della panca, posizionandosi proprio davanti a lui. Si fissano a lungo negli occhi, prima che Reiner spezzi il silenzio dicendo:

«Allora? Perché sei qui? Ti mancava Jean?»

Entrambi ridacchiano, anche se Eren scuote il capo e sussurra un "Certo, come no!" tra un grugnito e l'altro.

«Ha ha ha. A quella faccia da cavallo piacerebbe!»

«Suvvia, a me puoi dire la verità. La tensione sessuale tra voi due si taglia con un coltello, per quanto è spessa!» la risata profonda di Reiner riecheggia subito dopo nello spogliatoio.

Eren spalanca gli occhi, quando sente quella battuta, e punta una pistola formata da indice e pollice verso Reiner. Chissà cosa succederebbe se ne avesse una vera tra le mani.

«Non avvicinerai mai il mio cazzo a Jean! Che mi cada se succeda anche solo per sbaglio!»

Ha persino le lacrime agli occhi dalla quantità di risate che gli attraversano il petto, che, dopo qualche minuto, si smorzano pian piano. Eren lo accompagna pure in quella sinfonia di risa. Quando ritornano quieti, entrambi scrutano con intensità le facce l'uno dell'altro, come se fossero un quadro astratto di cui non colgono il significato.

«Scherzi a parte, Eren», prende parola Reiner, «Come mai qui a scuola? Non avevi la febbre?»

L'altro tira su col naso, anche se un gocciolone di muco gli scivola fin sopra il labbro superiore. Ciondola i piedi e l'asciuga, mentre non stacca lo sguardo da lui.

«Cosa? No. Non ho la febbre. Solo il raffreddore» spiega ed estrae un altro fazzoletto consunto dal pacchetto.

Gli è ignaro il motivo, eppure Reiner percepisce la vena del collo gonfiarsi e stringe i pugni fino a far sbiancare le nocche, quando Eren pronuncia quella verità. Armin ha mentito. Ma su cosa?

«Oh, capisco. Mi sarò confuso» farfuglia, poi serra la mascella.

«Tranquillo, può capitare. Comunque, sono qui perché devo parlare con il coach. Avrei voluto sostenere le prove fisiche per entrare nella squadra, domani, ma...» le pupille di Eren volano lontano dal volto di Reiner, che lo vede mordersi la lingua, «devo fare... delle visite mediche e non posso essere presente. Vorrei che mi desse un'altra possibilità.»

Reiner non dice nulla, quando scruta le orecchie bordeaux di Eren. All'altro diventano rosse quando mente o è costretto a farlo. Prima Armin, adesso lui: c'è qualcosa sotto e non gli piace affatto.

Inoltre, adesso che quello ha tirato fuori l'argomento, si è ricordato che deve presidiare anche lui alle prove fisiche dell'indomani, dato che è diventato il capo della squadra. Si gratta il mento sbarbato, mentre riflette su quando gli sia stato detto. Trova strano che abbia dimenticato un evento del genere. Ha avuto un altro vuoto di memoria?

Stavolta le labbra si contraggono in un sorriso sincero, poi regala una pacca vigorosa sulla spalla di Eren, che geme di dolore. La delicatezza non è affatto una sua qualità.

«Torna a casa e non preoccuparti. Parlerò col coach e metterò una buona parola per te, d'accordo?»

Le iridi verdi dell'altro si accendono di una strana luce e, dopo parecchie settimane, dalla sua bocca trabocca la gratitudine con cui ha investito lui e Bertolt qualche mese prima. Quando Eren gli stringe le mani, si rende conto che esse tremano. Sa che quel contatto da parte del ragazzo, vista la diffidenza si approccia al mondo, significa troppo.

«Grazie mille, Reiner! Sei un vero amico!»

Deglutisce, prima di boccheggiare:

«Di nulla, Eren.»

Dopo che pronuncia quelle parole, un urlo fende l'aria e scandisce il nome di Eren. A giudicare dal timbro della voce è Mikasa e sembra adirata. Eren si volta di scatto, lascia andare le mani di Reiner e balza giù dalla panca, poi indica la finestra che si trova alle sue spalle.

«Mi aiuti a raggiungerla?»

Non comprende perché quello stia scappando dalla ragazza, però si affretta senza fare domande e si inginocchia sotto la finestra, mentre intreccia le mani. Il piede di Eren fa leva sui palmi di Reiner e con un po' di forza di questo, il ragazzo sguscia attraverso la via di fuga.

«Grazie, Reiner. Ci vediamo tra qualche giorno» dice l'eco della voce di Eren dall'altra parte del muro, poco prima che si oda un tonfo e che le scarpe del ragazzo svaniscano nella fessura.

Rimasto solo, Reiner si siede sulla panca di prima, sospira e si prende il capo fra le mani. Percepisce il petto soffocato dal senso di colpa e i palmi appiccicosi. Ora che lo nota, il mondo diventa una tela su cui spiccano dei microscopici puntini neri, che si allargano ad ogni battito di ciglia.

Arpiona la stoffa della maglietta all'altezza del petto, quasi volesse scavarselo per estrarsi il cuore, mentre la luce nella stanza affievolisce finché non rimane al buio – non riesce nemmeno a vedersi il palmo posto ad un millimetro dagli occhi.

«Maledetti traditori! Dovete morire!»

È come se Eren gli stesse gridando all'interno del timpano, col puro e semplice intento di renderlo sordo a vita.

«Reiner! Bertolt! Come avete potuto...»

Perché Eren non comprende? Loro hanno troppo da perdere. Hanno una famiglia aldilà dell'oceano, a casa lo aspetta sua madre. Inoltre, quel giorno, loro erano solo dei bambini...

Reiner si accorge di piangere, solo quando sente qualcosa di umido e caldo scorrergli sul volto, scivolare sulla bocca, attraversarla, e poi giungere fino al mento. Quasi fosse un riflesso involontario, si lecca le labbra e, riconoscendo il retrogusto ferreo e amaro di quel liquido, gli rizzano i peli sulle braccia.

Quelle che ha in faccia non sono lacrime salate, bensì sangue. 

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