CAPITOLO 1

Il calmo fruscio dell'acqua iniziò a scorrere nella doccia, il bagno si riempì del vapore acqueo avvolgente causato dalla temperatura, quasi ustionante, su cui avevo impostato il getto.

Con gesti meccanici, mi srotolai le bende che avevo messo alle mani per allenarmi con il mio sacco da boxe, in partenza di un bianco immacolato, ma ora ricoperte da quel poco di sangue sgorgato dalle mie nocche graffiate e tumefatte.

Non una smorfia si formò sul mio viso, abituata a quei fastidi conseguenti ai miei allenamenti giornalieri. Le gettai in lavatrice che feci poi partire insieme agli altri vestiti sudati.

Prima di infilarmi nel box della doccia, incastrai gli occhi chiari in quelli della mia figura riflessa allo specchio. Quello sguardo duro e sicuro mi accompagnava dai primi anni dell'adolescenza, periodo durante il quale mi promisi di non farmi più mettere i piedi in testa da nessuno e per alcuna ragione al mondo.

Un po' aveva funzionato: l'azzurro ghiaccio delle mie iridi da dolce e amichevole era diventato penetrante e intimidatorio, due stiletti affilati da cui chiunque intorno a me badava stare alla larga. Di conseguenza divenni più riservata e suscettibile a qualunque forma verbale o fisica che potesse anche solo sembrare una provocazione o un commento negativo nei miei confronti.

Purtroppo per questa ragione passai quegli anni in totale solitudine. Imparai piano piano a farci l'abitudine ed ero più che felice che le cose fossero andate così.

Come mi dicevo sempre da allora, meglio da soli che mal accompagnati.

Mi insaponai velocemente i capelli corti e corvini, passando poi al corpo, strofinando la spugna con forza. Nel giro di cinque minuti mi asciugai e indossai le prime cose che mi capitarono sotto mano.

"Muriel!" Mi chiamò mia madre appena entrai in cucina per afferrare una mela al volo.

"Vuoi una fetta di torta?" Si girò tenendo in mano il dolce appena sfornato. "E' al cioccolato, la tua preferita!"

Non aspettai due secondi di più che mi fiondai su quella prelibatezza fumante posta sul piano cucina.

"Grazie, mamma, era proprio ciò che ci voleva." Dissi schioccandole un bacio sulla guancia. 

Mia madre era la persona migliore che io avessi mai conosciuto. 

Mi aveva cresciuto da sola: mio padre morì in un incidente stradale quando avevo solo due anni, di conseguenza non avevo alcun ricordo di lui. Le poche e uniche volte in cui potevo dire di averne sentito la mancanza era quando faticavamo ad arrivare a fine mese con le spese. 

Ma era sempre stata una persona solare, standomi vicino per qualunque cosa, e non avevo mai potuto desiderare di meglio.

Così vivevamo da sole in una piccola casa nei pressi di una delle spiagge di Sydney. Non eravamo proprio in centro città ed era piuttosto tranquillo: perfetto per i miei impegni quotidiani, come studiare e allenarmi. Non sopportavo il caos della città.

Dopo aver finito la fetta di torta afferrai una delle mie chitarre, quella acustica, poggiata al piccolo sofà nel soggiorno luminoso ed uscii quasi di corsa a piedi scalzi; la sabbia a quell'ora della sera era tiepida e piacevole, il leggero vento estivo portava con sè l'odore della salsedine che amavo tanto e d'istinto presi un respiro a pieni polmoni, inebriandomi di quel profumo che sapeva di casa.

Quando arrivai in prossimità della riva mi sedetti e controllai l'ora: erano le 19.52, mancavano esattamente sedici minuti al tramonto. Quindi imbracciai la chitarra e iniziai a pizzicare le corde, intonandole sulla melodia di Wish You Were Here dei Pink Floyd, sussurrando le parole malinconiche del testo volgendo lo sguardo alle onde tinte di un arancione caldo.

Con la coda dell'occhio, captai un movimento alla mia destra che mi fece distogliere lo sguardo dal sole, sempre più prossimo a tuffarsi nel mare; a una ventina di metri da me un tizio era intento a dipingere su una tela poggiata a un cavalletto di legno.

A quella vista un moto di stizza mi scosse; mai nessuno era venuto in quell'angolo di spiaggia, per l'esattezza il mio, e doveva rimanere così per molto tempo ancora. Non avrei sopportato la presenza costante di qualcuno intento a farsi un bagno o prendere il sole a pochi metri da casa mia.

Come se non fosse bastato, riportando l'attenzione al mare, mi accorsi di essermi persa il momento atteso da tutta la giornata. Tutto quello che rimaneva del tramonto erano il cielo e l'acqua ancora sfumati da quei bei colori dorati.

La frustrazione prese il sopravvento tanto che mi alzai con un unico obiettivo in testa: avrei fatto scappare dal mio angolo di paradiso quel tipo.

Più mi avvicinavo più mi accorgevo che si trattava di un ragazzo, probabilmente della mia età. Sedeva su uno sgabello anch'esso in legno, il vento serale gli scompigliava con delicatezza i capelli color del grano; una ciocca continuava a finirgli sulla fronte, nonostante tentasse di spostarla e fissarla distrattamente da un'altra parte ogni volta.

Aveva lo sguardo concentrato, gli occhi scuri che guizzavano dalla tela all'orizzonte con rapidità. Con la mano destra macchiava il pennello e riportava i colori sulla tela con movimenti apparentemente casuali.

Mi fermai a circa un metro e mezzo da lui con le braccia incrociate e la chitarra a tracolla. Lui però non sembrò accorgersi di me.

Stanca di quel silenzio imbarazzante, mi schiarii rumorosamente la gola, ma, invece di fermarsi, con la mano libera fece un gesto nella mia direzione, come se stesse scacciando una mosca.

"Sssh, mi deconcentri."

Non posso credere alle mie orecchie.

Strinsi le mani chiudendole in due pugni stretti e rimasi per altri due secondi impalata a fissarlo, indecisa sul da farsi. Non volevo sembrare maleducata, ma non mi lasciava altra scelta.

"Scusa, che stai facendo?" Gli chiesi con un tono che, volutamente, non doveva essere sembrato amichevole alle sue orecchie.

Finalmente si decise a scostare gli occhi dal suo lavoro per rivolgermi un'occhiata divertita, ma solo per un attimo, poi tornò come prima.

"Non è evidente?"

"Intendo dire che stai facendo qui, su questa spiaggia" ribattei secca.

Smise di dipingere. Senza pensarci diedi un'occhiata alla tela: pennellate sull'arancio e sull'azzurro chiaro creavano il paesaggio, che qualche minuto prima stavo ammirando anche io, in uno stile che ricordava quello Impressionista.

"Non sapevo fosse proprietà privata." Mi guardò con dispiacere, evidentemente imbarazzato.

Tecnicamente non lo è...cosa mi invento adesso?

Messa con le spalle al muro e non sapendo bene che rispondere, alzai gli occhi al cielo, sconfitta.

"Non importa." Sibilai girando i tacchi per andarmene, ma la sua voce mi bloccò.

"Scusami, non volevo disturbarti prima. Mi piaceva come suonavi e ho cercato di starti vicino abbastanza per poterti ascoltare." Disse con tono calmo.

La sua sincerità mi destabilizzò per un secondo. Tutto mi aspettavo tranne una confessione del genere.

Nel mentre si alzò per mettere a posto la sua attrezzatura, mostrando di avere una corporatura slanciata e di essere alto almeno una decina di centimetri in più di me. Mi sentii bassa, nonostante il mio metro e settanta abbondante, e la sensazione mi innervosì ulteriormente.

"Abiti qui vicino?" Mi chiese ancora, probabilmente per rompere il silenzio imbarazzante che si era creato.

Annuii. "Non volevo essere scortese, di solito non gira nessuno da queste parti e..." confessai omettendo la parte personale, riguardante il momento di routine che dedicavo ai miei pensieri.

Di colpo mi balenò in testa un pensiero: guardai l'ora e, con riluttanza, scoprii di essere in ritardo per il mio turno serale al bar in cui lavoravo.

"Ed è stato un vero piacere averti conosciuto..." 

"Arthur." Non esitò a dire. "E il piacere è tutto mio." Concluse con un sorriso dolce da cui spuntarono due adorabili fossette ai lati delle guance. 

Come se te l'avessi chiesto.

Lo squadrai, provando quasi pena: le persone come lui, sempre a regalare cortesia, a fare favori a chiunque senza che gli venisse chiesto o dato nulla in cambio, erano ciò che, per il mio bene, mi ero promessa di non essere più.

Gli concessi un sorriso tirato di rimando per poi girarmi definitivamente e tornare a casa.

___

Arrivai in tempo per puro miracolo all'Ivy Pub.

Di fretta cercai con gli occhi un parcheggio dove poter lasciare la mia carriola: una Peugeot vecchia di vent'anni che, nonostante tutto quello che aveva passato, riusciva ancora a fare il suo dovere.

"Muriel! E' la terza volta che arrivi in ritardo questo mese." Sbottò Jack, il mio capo, appena varcai la soglia del locale sul retro con il fiatone.

Come non detto.

"Scusami, non succederà più. Promesso" risposi come da copione. Ma lui aveva già svoltato l'angolo per la sala principale.

Mettendo il turbo nei movimenti, indossai il grembiule che usavo come divisa, dal momento che stavo dietro al bancone a fare i cocktails, e iniziai ad allestire il piano di lavoro tirando fuori la maggior parte degli ingredienti che usavo più frequentemente.

Era un caldo sabato sera di metà Gennaio e sapevo che sarebbe stato pieno di clienti.

"Lili, per la miseria, vuoi farti proprio licenziare vero?" Sbottò Mathias, mio collega di lavoro e mio unico amico, pur mantenendo un tono basso il giusto per non farsi sentire da Jack.

"Giuro che non volevo. Il mio momento di riflessione è stato bruscamente interrotto." Ribattei con tono serio. Forse quelle parole non avrebbero avuto senso per molti, ma Mathias mi conosceva più che bene.

Si portò una mano alla bocca assumendo un'espressione teatralmente drammatica "Santo cielo... ed è ancora vivo?"

Lo guardai in cagnesco pur mantenendo un ghigno scherzoso. Lui era l'unico a cui permettevo di poter scherzare sui miei modi di fare schietti.

O forse sarebbe meglio dire da stronza di prima categoria.

Oltre a formare il duo perfetto sul lavoro, era la seconda persona al mondo, e ultima, a cui volevo più bene. La sua calma e la sua razionalità riuscivano a tenere testa ai miei modi di fare più duri e a calmarmi quando osavo un po' troppo.

Allo stesso tempo, io ero praticamente la sua guardia del corpo personale. Avevo un metodo molto semplice: se la prima occhiata e insulto non bastavano, sferravo i miei ganci migliori.

E fidatevi quando vi dico che erano tali da fare invidia a qualsiasi pugile.

Alle 22.30 aprimmo il locale e neanche mezz'ora dopo gremiva di persone, per la maggior parte della mia età e poco più vecchi.

Jack era un capo severo ma sapeva come intrattenere i clienti: lo vidi sfrecciare tra i pochi tavoli a prendere ordinazioni, compito che voleva eseguire lui stesso per far sentire a casa chi entrava nel bar.

In più il suo faccione sorridente e i suoi modi di fare intrattenibili attiravano l'attenzione.

Le due e mezza arrivarono velocemente per me e nel locale entravano solo i più giovani, gli stessi che avrebbero poi concluso la serata a qualche festa clandestina. Ne organizzavano parecchie nei dintorni, nonostante fosse capitato spesso che la polizia intervenisse.

Mi muovevo con destrezza dietro al bancone, soddisfacendo le richieste dei clienti, fino a quando venni distratta alla vista di un volto famigliare che intravidi oltre la vetrina: Arthur, insieme a quelli che intuii fossero suoi amici, chiacchierava allegramente tenendo in mano una birra.

Come se avesse percepito il mio sguardo bruciargli sulla pelle, alzò gli occhi per puntarli nei miei, facendomi subito abbassare il capo.

"Scusa, ci vuole ancora tanto per questo Sex On The Beach?"

Venni riportata alla realtà e mi accorsi di star shakerando quel cocktail da quasi cinque minuti.

"No, eccolo...mi scusi." Mi affrettai a finire di preparare ciò che l'uomo davanti a me, un po' scocciato, aveva ordinato.

"Grazie tante." Sputò quello assaggiando la bevanda per poi assumere un'espressione disgustata.

"Così non ci siamo. Questa roba fa schifo" riappoggiò il bicchiere al bancone "voglio indietro i miei soldi."

Ancora mezza stupita per prima, ci misi qualche secondo in più per metabolizzare le parole.

"Mi scusi, ma non è possibile, se vuole posso preparargliene un altro."

Mantieni la calma Muriel. Dove cavolo è Mathias quando serve?

"Non lo ripeterò un'altra volta: voglio i miei soldi indietro...oppure" Si avvicinò con un ghigno viscido stampato in faccia "puoi rimediare dopo con un lavoretto. Che ne dici eh, bambolina?" sussurrò languido toccandosi la patta dei jeans e allungando l'altra mano per sfiorarmi una guancia.

Con disgusto mi ritrassi sentendo la rabbia ribollirmi nelle vene, ma ancor prima di riuscire a spiccicare mezza sillaba del primo degli infiniti insulti venutimi in mente, sbucò Arthur al suo fianco.

"C'è qualche problema?" si rivolse all'uomo che scattò all'indietro, probabilmente intimorito dalla stazza del ragazzo.

Ben ti sta lurido bastardo.

"La stronzetta ha rubato i miei soldi. Li rivoglio."

"Ti ha detto che può preparartene un altro. Se non ti va puoi anche uscire da qui." Lo interruppe Arthur con un tono particolarmente autoritario e intimidatorio, molto diverso da quello che aveva usato poche ore prima per rivolgersi a me.

Quindi sa farsi rispettare.

"Senti tu, vedi di non venirmi a rompere i coglioni o..." si fermò appena due ragazzi, che avevo intravisto prima stare insieme ad Arthur, comparvero dietro le spalle dell'ubriacone con uno sguardo che non ammetteva repliche.

Erano poco più bassi di Arthur. Uno dei due però muscoloso almeno il doppio.

"O cosa?" Lo beffeggiò ancora. In tutto questo, io rimasi dietro il bancone indecisa sul da farsi: se chiamare Jack e rischiare comunque una ramanzina, poiché il cliente ha sempre ragione, o se prendere ed andarmene, dal momento che odiavo dare spettacolo in pubblico.

L'uomo con stizza fece un gesto scocciato con la mano "Oh e va bene, fammi questo dannato cocktail."

Senza farmelo ripetere due volte, iniziai a preparare il tutto e in meno di un minuto glielo porsi con celata riluttanza. Fosse stato per me, glielo avrei versato addosso.

Non aggiunse altro. Lo osservai uscire dal locale e accendersi una sigaretta.

Con la coda dell'occhio notai come Arthur era rimasto fermo al bancone. Anzi, come ci si fosse appoggiato comodamente rivolgendo le attenzioni a me, intenta a lavare le ultime stoviglie. Nel giro di dieci minuti avrei chiuso il locale.

"Ciao." Cercò di richiamare la mia attenzione.

Mi girai con nonchalance facendogli un cenno col capo per ricambiare il saluto. All'incirca.

" 'Grazie per avermi aiutata e per aver allontanato quello stronzo. Se vuoi posso offrirti qualcosa.' " Scimmiottò la mia voce usando un tono sarcasticamente alto e fastidioso.

Indurii lo sguardo. "Me la sarei cavata benissimo da sola. E no, non offro niente a nessuno."

Ma dove diavolo è Mathias.

"Okay, Lady Oscar, la prossima volta lascio fare tutto a te."

"Senti." Poggiai i palmi sul bancone e presi un grosso respiro. "E' stata una lunga, lunghissima serata. Grazie, va bene? Cosa vuoi da me?"

Muriel, calmati.

"Mmh..." mugolò fingendo palesemente di pensare. Facendomi perdere altro tempo.

"Che ne dici se mi rivelassi il tuo nome?" Sentenziò alla fine con un ghigno soddisfatto.

Sorrisi a mia volta, sapendo di non essermi presentata un po' di proposito, alla spiaggia. 

Il tempo di schiudere la bocca, pronta a rifilargli l'ennesima freddura, che fece il suo ingresso Mathias, sbucato all'improvviso da non seppi dove.

"MURIEEEL! Cosa fai ancora qui? Dobbiamo chiudere." Strabuzzò gli occhi, come faceva ogni volta che voleva sottolineare qualcosa che non andava.

La sua attenzione si spostò su Arthur. Poi di nuovo su di me; avessi potuto leggergli nel pensiero avrei letto stampato a caratteri cubitali 'ma chi è quel pezzo di figo?'.

Grazie per aver rovinato i miei piani.

"Bene, Muriel ." Sottolineò il biondo soddisfatto. "E' stato un piacere, di nuovo. Ci si vede in giro!"

Strinsi i pugni con stizza, guardandolo impotente uscire per ultimo dalla porta d'ingresso e raggiungere i suoi amici che lo stavano aspettando.

"Prima che tu possa dar voce a tutto ciò che ti sta passando per la mente, usciamo di qua, per favore." Stroncai le parole di Mathias sul nascere che so altrimenti mi avrebbero travolto come un fiume in piena.

Il fatto che stessi parlando, più o meno, con qualcuno era già sorprendente. Che poi quel qualcuno fosse un ragazzo...Eureka.

Non che non piacessi ai, come li chiamavo io, pene-muniti. Difficilmente concedevo loro qualcosa, oltre al piacere carnale, e solo quando ne sentivo davvero il bisogno.

Mathias per questo mi definiva cacciatrice: alle volte uscivano per andare a ballare in qualche locale notturno. Di solito bastava neanche un'ora perché qualche ragazzo mezzo ubriaco e in preda agli ormoni abboccasse. 

Incredibile come dei semplici lembi di pelle nudi in più riuscissero ad attirarli come i fiori con le api in primavera.

No, non ero il tipo di ragazza da film romantici strappalacrime, che amava essere corteggiata con cioccolatini e finte parole di cortesia o che sognava di incontrare un cavaliere da avere al suo fianco per il resto della vita. Trovavo fosse una distrazione ai veri problemi della vita.

Preferivo rimanere con i piedi per terra, concentrata sulle cose che ritenevo più importanti.

Chiusi a chiave la porta del retro dell'Ivy Pub e iniziai a camminare verso la macchina. Mathias di fianco a me fremeva dalla voglia di sentire ciò che dovevo effettivamente ancora raccontargli.

Misi in moto il catorcio che si decise a partire dopo diversi singulti e raccontai brevemente ciò che era accaduto quella sera in spiaggia e al locale.

"Un evento più unico che raro." Sentenziò alla fine lui. "E non solo perché nonostante la tua figuraccia ha avuto comunque il coraggio di difenderti da quel coglione..."

"Potevo benissimo cavarmela da sola e questo lo sai anche tu." Lo interruppi. Iniziai a sentire il nervoso pizzicarmi da dentro: quello che stava facendo suonava tanto come un rimprovero.

Fece finta di non sentire. "E' anche riuscito a rivolgerti un sorriso alla fine. Cioè, un vero sorriso al posto del solito insulto."

La coscienza era lì, la sentivo premere disperata al mio petto per dirmi 'ascoltalo. Lo sai che ha ragione: vorrà pur dire qualcosa'. Ma non sopportavo di essere nel torto e non ero abbastanza coraggiosa da riuscire a seppellire il mio orgoglio per ammetterlo.

"Anche se non fosse effettivamente il solito disperato, dove vorresti arrivare?" Alzai un sopracciglio. Nel mentre sfrecciavo per le strade della città quasi del tutto vuote a causa dell'ora tarda dirigendoci a casa di Mathias. Finito lavoro era di routine dargli un passaggio.

"Lo hai sentito anche tu, Lili. E ti ricordo che ormai sa dove abiti e dove lavori." Mi guardava come se non avesse appena detto una cosa preoccupante.

'Ci si vede'. Si che l'ho sentito.

"Sembra tu stia descrivendo uno stalker. Non è per niente normale, te ne rendi conto vero?" gli feci notare mentre accostavo al marciapiede di fronte casa sua.

"Aaah Muriel. Riuscirai a fidarti mai abbastanza di qualcuno da permettergli di toccare il tuo lato più bello?" Si avvicinò a me per guardarmi meglio negli occhi.

"Io so che esiste." Mi sfiorò il petto con l'indice "Proprio qui."

Non mi trattenni e lo strattonai in un abbraccio. "Non ne ho bisogno. Io ho te, cosa si può voler di più dalla vita?"

La sua risata ci fece tremare mentre eravamo ancora allacciati l'una all'altro.

"Oh tesoro, tanto altro." Sussurrò, quasi mi stesse rivelando un segreto dal valore inestimabile.

Al contrario di me Matt era un inguaribile romantico. Il suo sogno era trovare l'uomo della sua vita con cui passare il resto dei propri giorni.

D'altronde studiava letteratura inglese, non poteva essere altrimenti.

Gli sorrisi. "Buonanotte Matt."

"Notte Lili." Ricambiò chiudendo piano la portiera scricchiolante.

Rimessa in moto l'auto, si fece spazio l'improvvisa sensazione di avere un enorme masso sulla schiena: come avevo rilassato i nervi, la stanchezza della giornata mi era piombata addosso senza pietà.

Tempo di infilarmi nel letto che caddi in un sonno senza sogni. Ebbi solo il tempo di pensare al tramonto mancato di quella sera venire lentamente sostituito da un paio di occhi color cioccolato.

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