Capitolo 4: IL CAOS DEL NULLA
Ci si abbraccia per ritrovarsi interi.
~Alda Merini
Da piccola adoravo fissare le stelle, tanti piccoli punti di luce immersi nel buio, ombre del passato e stracci del futuro.
Le osservavo di nascosto, nel cuore della notte e immersa nell'oscurità, nascondendomi dagli occhi indiscreti dei vicini e della mia famiglia.
Quei momenti di quiete erano personali, privati, e ne ero così gelosa da infuriarmi persino del volo degli stormi notturni che disturbavano il cielo, una nota stonata in uno spartito immacolato.
Non avevo sveglie, ne promemoria, solo la mia mente.
Ad un certo orario, molto spesso verso le 04:44, il mondo dei sogni mi abbandonava bruscamente e, come ipnotizzata, mi ritrovavo improvvisamente seduta davanti all'albero di arance, in giardino, con lo sguardo rivolto alle stelle.
Nessuno sapeva di questa mia routine notturna, finché una sera non notai mio papà che mi osservava incuriosito, il suo viso solcato da rughe leggere illuminato dalla tenue luce della luna.
Appena l'avevo visto, mi ero alzata e, arrabbiata come solo i bambini sanno essere, mi ero avvicinata alla finestra per gridargli che quello era il mio appuntamento con quei punti brillanti, e che lui doveva trovarsi un altro orario per fargli visita.
Ricordo ancora oggi la sensazione di un improvviso calore sulle guance, e la voce gelosa che voleva prepotentemente sfuggire al mio controllo.
Ricordo anche che quando mi avvicinai alla finestra non vidi nessuno.
Ero sola, e per quanto fossi arrabbiata in quel momento, avrei tanto voluto trovare mio papà lì.
Avremmo litigato, forse, ma poi lui mi avrebbe preso tra le sue braccia e ci saremmo accostati al mio albero.
Avremmo parlato, oppure saremmo stati in silenzio, ma avrei condiviso una piccola parte del mio mondo.
E mentre assaporavo la delusione riaffiorare dal passato, mia dolce vecchia amica, ero in piedi davanti ad un ragazzo che poco prima mi aveva messa al tappeto su un ring.
Ciao sorellina.
Io però ero figlia unica.
Fissai dritto negli occhi il ragazzo di fronte a me, perforandolo con lo sguardo.
Credeva di poter giocare con me. Si sbagliava.
«Io sono figlia unica» tagliai corto, il mio tono di voce era perfettamente controllato.
Ricordo di aver letto da qualche parte che a volte le persone sono spaventocalme: così tanto furiose da nascondere la loro ira con la calma, tanto potente quanto pericolosa.
Se una persona è arrabbiata, lo noti subito, sai cosa ti aspetta.
Ma quando una persona nasconde le sue emozioni sovrastandole con una calcolata tranquillità, non sai mai cosa ti riserva.
Ecco, io ero un perfetto esempio di spaventocalmo.
E a quanto pare il mio presunto fratello ne era a conoscenza.
Quando parlò la sua voce era tesa come se stesse parlando ad un malato di mente, come se potessi saltargli addosso da un momento all'altro lasciandolo stecchito: in effetti non aveva completamente torto.
«Ti sbagli invece. Sono tuo fratello e posso dimostrartelo».
Mi voltai, scendendo dal ring e voltando le spalle al ragazzo:
«Senti, non so chi tu sia o per chi tu mi abbia preso, ma non ti conosco. Forse hai solo sbagliato persona».
Solo allora mi resi conto che, stranamente, io e il ragazzo eravamo rimasti soli.
Mi avviai per gli spogliatoi: dovevo trovare assolutamente un appartamento, e dovevo allontanarmi ancora di più da San Francisco.
La metropolitana non era più adatta, magari il treno?
Era arrivato il momento di recuperare i rapporti con determinate persone.
Feci per aprire la porta dello spogliatoio quando qualcuno mi fece voltare non molto delicatamente.
Indietreggiai furiosa, ponendo più distanza tra noi:
«Ancora? Allora proprio non riesci a capire! Vattene immed-».
Poche volte le persone riuscivano a zittirmi e per quanto mi costasse ammetterlo, quel ragazzo ci riuscì con troppa facilità.
Nella sua mano, pendeva qualcosa di lucente, molto piccolo.
La prima cosa a cui pensai, per quanto sembrasse fuori luogo, furono le stelle, offuscate dall'inquinamento di San Francisco.
Cosa avrei dato per vederle di nuovo!
La Polonia mi mancava davvero tanto.
Riuscii finalmente a decifrare l'oggetto che teneva davanti a sé con mano ferma: era una catenina, dove una piastrina consumata dal tempo portava incise un nome e una data.
Lo riconobbi senza neanche dovermi avvicinare.
Fu come se il mondo mi crollò addosso, come se improvvisamente riprendessi coscienza di me e delle mie azioni.
Come se uno specchio fosse stato scoperto davanti a me, così vicino da bruciarmi la pelle.
«Céline, ricordi l'albero d'arance che tanto amavi da bambina?
Passavi ore e ore a leggere le favole, ad aiutare le formiche a trasportare le briciole della tua merenda nel loro formicaio, o a disegnare qualsiasi cosa passasse dentro quella testolina mora.
O le stelle, che incontravi sempre prima dell'alba e di cui ne eri spaventosamente protettiva.
L'albero d'arance è sempre stato lì, cornice dei tuoi primi anni di vita, come un nonno che accudisce il proprio nipote con amore» .
Il ragazzo mi guardava intensamente, e potevo notare la tensione brillare nei suoi occhi, esattamente come le stelle di cui stava parlando.
Ricambiai il suo sguardo:
«Tu stai mentendo. Sei un bugiardo»
Patetica.
Ero davvero patetica.
«No Céline, non sto mentendo! Sono davvero tuo fratello e non so come fartelo capire!»
Diede un possente pugno al muro al fianco della mia testa, ferendosi la mano.
Mi raddrizzai, serrando le labbra e incrociando le braccia.
Potevo leggere sul suo viso la frustrazione e la rabbia che sprizzavano da tutti i pori, ma sicuramente non poteva permettersi di comportarsi in quel modo con me.
«Tu prova solo a sfiorarmi di nuovo, e io ti uccido» .
Mi guardò dritto negli occhi, sbattendo velocemente le palpebre e sorridendo soddisfatto:
«Che caratterino. Mi chiedo come abbiano fatto i nostri genitori a tenerti a bada».
Mi allontanai da lui, entrando nello spogliatoio e cambiandomi velocemente, mentre il ragazzo aspettava fuori la porta.
Mi mossi verso l'uscita mentre il ragazzo, pronto per andare via, continuava a parlarmi di cose inutili.
«Voglio delle spiegazioni» dissi interrompendolo «Non mi fido ancora di te, ma credo che ti darò il beneficio del dubbio» .
«So che non ti fidi e ti capisco, ma ti prometto che avrai tutte le risposte che desideri. Non qui però» disse vigile.
Si fermò, guardandosi attorno: «Qualcuno ti ha seguito?»
Lo fissai diffidente, mentre continuava a scrutare le persone.
«No, ho visto solo te, a meno che-»
«Dobbiamo andare via di qui».
«Io non vengo via con te» dichiarai, e la mia voce risultò più fredda del previsto.
«No?»
Incrociai le braccia: «Ho detto no».
Si chinò verso di me:
«Fa come vuoi. Fatti uccidere. Consegnati a Lui direttamente. Disonora i nostri genitori. Io invece continuerò a sperare che tu venga con me.»
Continuai a guardarlo, indecisa.
Davvero valeva la pena rischiare?
«Ti prego Céline vieni con me. Ti ho già perso una volta, non voglio perderti di nuovo».
Mi morsi il labbro, esitante: «Sai di cosa sono capace?»
Strabuzzò gli occhi, sorpreso: «Come?»
«Ho detto, sai di cosa sono capace?»
Annuii, scompigliando il ciuffo scuro inumidito dall'aria fredda.
«Bene».
Voltò lo sguardo, osservando qualcosa alle mie spalle.
«Quindi?»
Tornò a posare lo sguardo su di me, e disse: «Cosa c'è?»
Inspirai profondamente e lo fulminai con lo sguardo.
«Andiamo?»
«Quindi tu-»
«Andiamo o no?»
Mi sorrise, ed iniziò a camminare, orgoglioso.
Che cosa avevo fatto?
L'appartamento era molto grande e spazioso, circondato da eleganti mobili in marmo e illuminato dal tenue calore dei lampioni sulla strada, che si infiltravano nella stanza come rampicanti luminosi.
Seppur ammirassi tutta quella modernità, c'era qualcosa in quella casa che mi rendeva nostalgica, il fantasma antico di una bella donna.
L'appartamento era tutto bianco e nero, come la vita: vivi o muori. I colori erano per femminucce e per gli ingenui sognatori che credevano all'oroscopo o ai biscotti della fortuna*.
«Ti piace?» mi domandò il ragazzo.
Si tolse il giacchetto e si avvicinò al davanzale vicino alla cucina, dal quale estrasse un pacchetto di sigarette e uno strano accendino.
Se ne accese una e se la portò alle labbra, aspirando il fumo con gusto.
Mi avvicinai alla finestra in cerca di aria pulita, arricciando infastidita le labbra: «Tu fumi?»
In cambio ricevetti una nuvola di fumo acre in faccia.
Sventolai in fretta le mani davanti al viso cercando di ordinare le domande nella mia testa, quando un tonfo improvviso proveniente dal corridoio non irruppe nella stanza.
Immediatamente scattai in piedi, tendendo i muscoli che bruciavano dentro di me e muovendo qualche passo verso il corridoio quando il ragazzo mi afferrò la spalla e mi tirò indietro, verso di sé.
Lo guardai negli occhi con aria interrogativa mentre lui si posava un dito sulle labbra.
In silenzio, si avvicinò ad un cassetto in un mobile opposto alla porta, piccolo e insignificante, dalla quale vi estrasse una pistola.
Piccola, lucida ed elegante, tanto bella quanto pericolosa.
La impugnò fermamente come se facesse quello da tutta la vita e si posizionò davanti a me, coprendomi quasi interamente con il suo corpo.
Fissai la sua nuca scura mentre lui si preparava a sparare e senza farmi notare mi spostai leggermente, ponendomi al suo fianco.
Sentimmo un rumore di passi felpati, poi il ragazzo mirò la pistola e sparò.
Ciò che successe dopo, accadde tutto troppo velocemente: in un lampo, gli tirai il braccio verso il basso facendogli mancare il bersaglio e frantumando un delicato vaso di vetro nel quale dei ranuncoli e girasoli pregavano di essere annaffiati.
Si voltò furioso verso di me, gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia e per la sorpresa, quando finalmente si accorse che non eravamo affatto soli.
La sua bocca si spalancò e prima che potesse elaborare qualcosa di sensato da dire, fu bruscamente interrotto.
«Io non ti capisco Thomas, proprio non riesco a capirti! Sparisci per giorni, non rispondi alle chiamate o ai messaggi, e quando ritorni da chissà dove ti trovo con un'altra ragazza! E come se non bastasse cerchi anche di uccidermi! Dimmi Thomas, da quanto tempo nascondi una fottuta pistola in casa?!»
Thomas, gemello: quello era io nome del mio ipotetico fratello.
Stava raccogliendo i cocci del vaso distrutto cercando di evitare di guardare la ragazza, che ora mi fissava come se potesse incenerirmi sul posto: solo allora mi accorsi di essere di troppo.
«Bene ragazzi, è stato un piacere ma credo che sia arrivato il momento di togliere il disturbo, quindi-» .
«Tu non vai da nessuna parte» disse quella, spingendomi con forza ma non riuscendo a farmi indietreggiare neanche di un passo.
Alzai altezzosamente il sopracciglio, guardando Thomas che nel frattempo si era acceso una sigaretta e che ci guardava come se non vedesse l'ora di guardarci tirare i capelli l'una dell'altra.
Come indovinando i miei pensieri, sul suo volto comparve un leggero ghigno che scomparve subito un secondo dopo.
Si avvicinò alla ragazza con fare sicuro, allungando una mano per poggiarla sulla sua spalla, ma riuscì a toccare solo l'aria circostante.
«Dai Penny non fare così, non è come sembra» supplicò con finto tono da cane bastonato.
La ragazza si avvicinò e gli diede un sottile pugno allo stomaco, furiosa e in cerca di reazioni da parte di Thomas che al contrario, sembrava esageratamente calmo.
Ignorando le urla della ragazza mi inoltrai nel candido corridoio, entrando nella penultima stanza sulla destra.
Un letto immacolato in mezzo a un paio di comodini in legno bianco, un armadio pieno di vestiti che Thomas non usava più, una scrivania sulla quale vari libri e fogli stropicciati giacevano abbandonati, e uno spazioso davanzale circondato da morbide tende di seta cobalto: quella se lo avessi voluto, sarebbe potuta diventare la mia stanza, la mia casa.
Ma avevo delle priorità, ed essere felice o avere un posto fisso in cui svegliarmi nel corso degli anni non erano nella lista.
Estrassi dallo zaino dei vestiti puliti e andai in bagno, che era la stanza affianco alla mia, e mi fiondai immediatamente nella doccia.
Avevo appena finito di mangiare un panino quando Thomas, rinchiuso ore nella sua stanza, decise finalmente di farsi vivo.
«Com'è andata con la tua ragazza?» gli domandai, mentre iniziava a mettere a cuocere della carne sui fornelli.
«Non è la mia ragazza».
Thomas aveva i capelli corvini spettinati che gli ricadevano davanti agli occhi, i muscoli delle spalle tesi evidenziati dalla canotta stretta e gli occhi nocciola concentrati sulla lama del coltello che stava utilizzando per tagliare della lattuga.
Attesi con una pazienza a me sconosciuta mentre mi perdevo nei miei pensieri con gli occhi ancora fissi su di lui.
I palmi delle mie mani avrebbero avuto qualche mezzaluna in più quella notte.
Nel frattempo Thomas prese posto a tavola e iniziò a mordicchiare una crosta di pane, evitando accuratamente il mio sguardo.
«Devi scusare Penelope, di solito è molto simpatica» dichiarò a un tratto «Le ho dovuto dire tutto, potrebbe esserci molto utile in futuro».
Lo guardai freddamente:« "Tutto" quanto?»
«Le basi» rispose Thomas.
«Le hai parlato di Lui?»
Si girò verso di me, cercando di decifrare la mia espressione. Evidentemente non ci riuscì, poiché replicò: «Si, gli ho detto chi è e cos'è successo, ma non cosa ti ha fatto».
Ingoiai la bile acida che mi era sa in gola e mi voltai anche io verso di lui, pronta per affrontare la verità.
È strano anzi, fastidioso, come l'essere umano abbia bisogno di continue attenzioni.
Ha bisogno di sentirsi dire che ha ragione, di sentirsi rassicurato, di avere continue certezze.
Da piccola facevo divertire molto i miei genitori: gli facevo una domanda e quando loro mi davano una spiegazione io mi arrabbiavo e davo di matto, obiettando che la risposta era un'altra.
E allora loro mi chiedevano: «Se ne sei così sicura, perché ce lo chiedi?»
Poi io mi arrabbiavo ancora di più e non parlavo con nessuno per lunghissime ore, finché la mamma non mi preparava la mia torta preferita e metteva i DVD dei film della Disney.
«Io non credo tu sia mio fratello».
«Ma lo sono».
«Però io continuo a non crederti» ripetei.
Sbuffò infastidito dondolandosi leggermente sulla sedia:
«Céline, perché stasera sei qui? Intendo, perché sei qui con me in casa mia? Cosa ti ha spinto a seguirmi?»
«Perché io vol-»
«No» disse alzandosi in piedi «Te lo dico io. Il fatto è che tu sai, non chiedermi come, che hai un fratello e sei anche disposta ad accettarlo. Perché infondo, per quanto cerchi di nasconderti, hai dei sentimenti profondi e la felicità che ti ho portato quando ti ho detto che avevi un fratello è stata così improvvisa che cerchi di nasconderla con la freddezza e l'indifferenza. Ma non sei obbligata Céline, a fare sempre la parte della tosta senza cuore pronta a morire seduta istante».
«Come credi che possa sentirmi eh? Tu, che sai sempre tutto, dovresti sapere più di tutti che-»
Vidi gli occhi di Thomas brillare e per l'ennesima volta mi interruppe. O mamma mia, ma una frase completa me l'avrebbe fatta dire?!
«Esatto! È proprio perché io so come ci si sente che ti dico questo! Stavano facendo la stessa cosa anche a me, Céline! È colpa mia se hai dovuto vivere tutto quello che ti è successo, perché sarebbe dovuto toccare a me! E sono così fottutamente frustato che non so come comportarmi nei tuoi confronti. Dovrei essere distaccato con te eppure mi sento una merda a causa tua!»
Rimasi in silenzio, alzandomi e avvicinandomi a Thomas mentre continuava a sbattere freneticamente la mano sul tavolo.
Lo guardai negli occhi, spaventata dalle sue parole, e con un fil di voce gli domandai: «Cosa intendi dire quando dici che anche a te hanno fatto la stessa cosa?»
Mi guardò e abbassò il suo tono di voce, calmandosi, dopodiché smise finalmente di torturare il tavolo e si gettò sulla sedia come se le gambe non avrebbero potuto reggere il suo peso ancora per molto.
«Toccava a me, ecco cosa voglio dire».
Cacciò dal frigo una bottiglia di birra che bevve come fosse acqua poi continuò, spietato:
«I nostri genitori erano venuti a sapere della Sua esistenza e di ciò che voleva fare. Avevano paura per me, perché sapevano che Lui voleva me».
«Perché proprio tu?» gli chiesi.
Si grattò energicamente la nuca:
«Non lo so, non ne sono sicuro. Comunque, i nostri genitori decisero di nascondermi e farmi crescere lontano da loro, per proteggermi: volevano tenermi al sicuro e pensavano che dividerci sarebbe stata la scelta migliore, quella che avrebbe salvato tutti. E per un po' funzionò. Di Lui non credo si ricordarono che il nome, e dopo un po' sparì anche quello. La piastrina che ti ho mostrato me l'hanno lasciata come ricordo, quello di un doloroso addio».
Buttò giù un altro bicchiere di birra: a volte non vorresti sentire nemmeno le tue stesse parole.
«Quasi due anni dopo però, nostra madre rimase incinta. Di te. Erano così felici di avere un altro figlio dopo che avevano perso me. Così venisti accolta con piacere.
Avevano dimenticato o forse volevano dimenticare: non lo so. Ma tu eri lì e sembravi la via d'uscita per un nuovo inizio, una nuova vita. Così hanno deciso di trasferirsi in Polonia mentre il loro primogenito cresceva in un'altra famiglia a mezzo mondo di distanza da loro».
Quante cose mi avevano nascosto?
«Poi quando Lui è venuto a sapere della tua nascita, ha trovato in te la vendetta perfetta che cercava: avrebbe potuto continuare a sviluppare i suoi piani e contemporaneamente far soffrire le persone che lo avevano ingannato. Presero te al posto mio. Tutto ciò che hai passato era destinato a me, e se non fosse stato per-».
All'improvviso mi sentii inondata dalla rabbia repentina:
«Per cosa eh? Cosa avrebbero potuto fare se non metterti al sicuro? Abbandonarti a lui? Ucciderti? Cosa, Thomas, se non fosse stato per cosa? La loro priorità era salvarti e così hanno fatto! ».
Si avvicinò a me e mi prese il viso tra le mani:
«Hanno protetto anche te, ricordalo»
«E guarda che fine hanno fatto. Non è servito a niente, perché alla fine lui ha vinto».
Restò in silenzio, trascinando i suoi pollici sul mio viso come per raccogliere le mie lacrime.
Potevo sentire il suo dolore, ne percepivo la presenza e ne assaporavo l'odore sulla punta della lingua: si sentiva la causa di un male che non poteva comandare.
Non ero arrabbiata con lui ma ero egoista: il solo pensiero che tutta quella sofferenza non era destinata a me ma avrebbe dovuto colpire qualcun altro, mi fece provare un misto di rabbia e amara frustrazione.
Ma poi mi ricordai che mio fratello avrebbe dovuto soffrire e improvvisamente mi sentii impotente, come se al mio posto ci fosse stato lui e a me non rimaneva altro che tapparmi le orecchie e ignorare le sue grida strazianti, bloccate solamente da quattro mura.
Thomas continuava a stare in silenzio asciugando lacrime invisibili e a specchiarsi nei miei occhi, riflettendo su tutto ciò che aveva appena detto.
«Perché fai così? Non sto piangendo..» sussurrai, improvvisamente debole.
Sorrise malinconicamente, dicendo:
«Se non vedo le tue lacrime, non vuol dire che non stia piangendo».
Fu il colmo: in quel momento, un grande pezzo della mia roccia di ferro fu trascinato via dal mare in tempesta.
Mi gettai su di lui e lo strinsi forte a me, aggrappandomi al suo collo come se potesse abbandonarmi da un momento all'altro.
Thomas ricambiò con nostalgia l'abbraccio, tenendomi tra le sue braccia come se fossi la cosa più importante della sua vita.
Sentivo gli occhi pizzicare fastidiosamente, ma non m' importava: ero con Thomas.
Ero con mio fratello.
E per ora, era tutto quello di cui avevo bisogno.
🌑☁️🌑☁️🌑☁️🌑☁️🌑☁️🌑☁️🌑☁️
* frase presa dal libro "Tutto quello che siamo". Sorry ma ci stava troppo.
3371 parole.. Wow. Comuunque, sono sparita per un po', ma avevo mezzo capitolo pronto scritto a gennaio e non volevo pubblicarlo incompleto. Personalmente adoro questo capitolo perché cominciamo a conoscere meglio i personaggi e poi... Céline e Thomas awww.
Consiglio! Attenzione ai nomi, alle frasi, e a qualsiasi mini particolare! C'è sempre qualche indizio nascosto... Se lo vedi scrivimi in privato!
Lasciate una stellina, ci tengo tanto! e aspetto un vostro parere nei commenti. Il mistero si sta svelando... Vi lascio una foto di Thomas qui sotto:) Ciaoo.
Ah, non dimenticate di aggiungere questa storia nella biblioteca in modo da ricevere le notifiche degli aggiornamenti. Saluto i lettori silenziosi❤️🙃.
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