Capitolo 31: AMORE E ODIO

Chi accetta il rango cui la natura l'ha destinato non si trasforma nella mera assenza di ciò che non è. Anche la cosa più modesta ha, nella sua collocazione, un valore inestimabile.
~Nicolás Gómez Dávila

Durante i precedenti viaggi avevo speso il tempo dormendo e fingendo di dormire, fingendo di dormire e dormendo per davvero.
Questa volta però le voci nella mia testa non volevano tacere così cercai di contrastarle ricordando la mia amata Polonia.
Frammenti di ricordi fecero la lotta per risalire in superficie nella mia mente.
Vivevo a Torun, una bellissima città medioevale che sembrava uscita da una fiaba: per tutte le sue meraviglie era persino considerata patrimonio dell'UNESCO.
Rammentai gli schizzi che facevo da bambina del Municipio della Città Vecchia, oppure tutte le visite delle chiese immense che mi facevano sentire piccola e insignificante.
Una volta avevo persino visitato la casa di Nicolò Copernico, ricca di bizzarri macchinari di cui mio padre ebbe la pazienza di spiegarmeli uno ad uno.
Amavo la Torre Pendente e le Rovine del Castello dei cavalieri Teutonici, simbolo di potere e di antica storia.
C'erano molte leggende che giravano intorno la città di Torun: mio padre ne raccontava una ogni sera per farmi addormentare.
C'era un episodio che avevo particolarmente a cuore.
Era ora di andare a dormire ed io non volevo proprio abbracciare Morfeo, così mio padre decise di raccontarmi ben due leggende metropolitane.
Mi raccontò del basilisco che viveva nelle cantine di un edificio della città vecchia: proteggeva un tesoro, e pietrificare con il suo sguardo chiunque gli si avvicinasse.
Un giorno un sarto decise di tentare la sorte e con uno specchio riflesse l'immagine del basilisco stesso.
Ad oggi mi ricordava che a volte siamo noi stessi a distruggerci. Non importa quanto le persone là fuori siano pericolose, continueremmo a crogiolarci nel nostro dolore fino alla morte.
Io ahimè ero l'esempio perfetto e me ne vergognavo.
La seconda leggenda era quella che mi colpì di più all'epoca.
Accanto al Santuario della Madonna delle Grazie vi era la statua di un'orso: si diceva che tra roccia e cemento vi fosse un timido giovane in attesa di una donna dal cuore d'oro che lo avrebbe liberato.
Da piccola mi piaceva tanto credere nell'amore. Adesso lo odiavo.
Non uso mai la parola "odio", troppo importante come le promesse.
Promettiamo sempre, anche quando non siamo sicuri di riuscire a mantenere la promessa.
Diciamo ti odiare molte cose quando l'unica cosa che non riusciamo ad accettare siamo noi stessi.
Non sopporto il Sole, il calore, il contatto fisico, chi si preoccupa per me, chi mente.
Odio me stessa e odio l'amore, stupida convinzione umana.
L'amore non esiste.
Esiste il desiderio di essere accettato dagli altri.
Esistere la ricerca di una persona di cui fidarsi ciecamente.
Esiste la caccia per un posto sicuro che prima o poi ti divorerà.
Queste cose esistono.
E l'amore non è fra queste.

Stavo finalmente per addormentarmi quando Arelis si avvicinò con prudenza.
Sentii la sua presenza accanto alla mia figura e spalancai gli occhi di colpo.
«Tutto bene?» la interrogai esitante.
«Per quanto le cose possano andare male, si» replicò «Ma credo di dover parlare con te»
Mi raddrizzai dubbiosa e all'allerta.
«Dimmi tutto»
Sospirò e si prese qualche secondo per formulare un discorso logico.
Era ansiosa: la sua aura emanava energia intermittente.
«Credo tu debba sapere tutto questo, anche se forse non è compito mio»
«Di cosa stai parlando?»
«Della mia capacità e di quella di Jace»
«Oh»
Tirai mentalmente un respiro di sollievo: avevo temuto il peggio.
Ciò che voleva dirmi era comunque una cosa importante quindi prestai la massima attenzione di cui ero capace.
«Jace beh, lui non percepisce il mondo esterno»
«In che senso?»
«Non avverte il freddo o il caldo e...»
«E cosa?»
Voltò lo sguardo altrove.
«E il dolore»
«Ah»
Jace non riusciva a sentire il dolore: ammetto che un po' lo invidiavo.
Arelis però continuava ad essere nervosa.
«C'è qualcos'altro non è vero?»
«Si, cioè no. Nel senso-» si maledì da sola «Non sentendo il dolore non può percepire se una cosa è mortale o meno. Per lui una pallottola al cuore non è nulla. Potrebbe morire anche se non sente nulla»
Tacqui assorbendo le sue parole.
«Perché me lo stai dicendo?»
«Tutti noi sappiamo di te e della tua capacità, quindi mi sembra corretto parlarti anche delle nostre. Jace non vuole che si conosca la sua capacità ma io volevo che tu lo sapessi per avere un occhio di riguardo»
«Come con Diana?» risposi non riuscendo a trattenermi.
«Cèline...» iniziò, ma non continuò la frase.
Sapeva anche lei che avevo ragione e non riuscì a dirmi il contrario, così cambiai argomento.
«E invece qual è la tua capacità?»
«Io e Diana fummo scelte per una categoria simile»
«Ovvero?»
«Lei doveva prevedere le morti. Io invece dovevo percepire le presenze morte»
«E ci sono riusciti?»
Annuì sconfortata.
«Cosa senti adesso?»
Si guardò intorno come se qualcuno la stesse osservando.
«Riesco a sentirli» rivelò con un filo di voce «Sono davvero tanti e urlano continuamente»
Rimasi in silenzio assaporando sulla lingua il presentimento che mi diceva che quel viaggio sarebbe stato il più difficile.

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