Capitolo 26: EVASIONE PSICHICA

Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri. Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l'immaginazione, fonte di creatività.
Henri Laborit

La strada era buia e desolata. I lampioni emanavano una fioca luce dai riflessi giallastri e nonostante cercassero di illuminare la via questa rimaneva oscura.
Trattenni un sospiro e ingoiai la bile acida. Avevo uno strano presentimento ma rifiutai di dargli ascolto.
Non era il momento per farsi prendere dalle paranoie: Jace aveva bisogno di noi.
«Le guardie si trovano su ogni lato della prigione» ci informò Sebastian «Mentre io e Thomas li metteremo K.O. voi entrerete dal giardinetto scavalcando la recinzione»
Thomas chiese:« È tutto chiaro?»
Annuimmo tutti. 
«Andiamo»

Il carcere era silenzioso come le piazze di domenica sera e nemmeno una mosca sembrava voler violare quell'immutabile quiete. Di certo nessuno di noi aveva intenzione di farlo.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sull'energia che emanava il corpo di Jace: destra.
«Di qua»
Sentimmo il rumore di corpi che si scontrano e in un secondo l'allarme echeggiò nel corridoio vuoto.
«Merda» borbottò Penelope.
Ci ritrovammo circondate da un'orda di poliziotti che ci puntavano contro una decina di pistole.
«Ferme dove siete» gridò uno di loro «Mani in alto o spariamo»
Feci esplodere un paio di pistole: qualcuno provò a colpirci ma Penny era partita alla carica.
Con un pugno colpì la testa di un ragazzo che andò a sbattere contro la parete. Afferrò la sua nuca e la spinse contro quella di un altro poliziotto.
Con un calcio fece mollare al un paio di loro la pistola dopodiché li colpì allo stomaco.
Un agente la afferrò per le braccia e la bloccò. 
Stavo per intervenire ma lei mi precedette.
Spinse la testa all'indietro e gli colpì il naso che iniziò a rigurgitare sangue.
Con le gambe si diede la spinta per colpire altri due e con una gomitata mise al tappeto il poliziotto che la teneva ferma.
Dovevo agire.
Arelis mi guardò e annuì.
Non avevo bisogno di scorciatoie: spezzai la mano ad un agente mentre colpii con il ginocchio il basso ventre di un altro facendolo piegare su se stesso dal dolore.
Aiutai Arelis a sbarazzarsi di altri di loro ma sembrava che più ne colpivamo più ne uscivano di nuovi.
Notai un corridoio e decisi che la cosa migliore da fare era cercare Jace e uscire di lì il prima possibile.
«Di là ragazze!»
Corremmo a perdifiato lungo un labirinto di porte e corridoi.
Eravamo nascoste ma riuscivamo comunque a sentire le voci dei poliziotti che ci cercavano come fanno i topi con il formaggio.
Sentii ansimare e vidi Penny tenersi una mano al petto: era stata colpita.
«Andate» disse boccheggiando in cerca di aria «Vi aspetto qui»
«Sei ferita»
«Non ti lasceremo da sola»
«Dovete. Me la caverò»
Guardai Arelis indecisa sul da fare.
«Tu devi restare qui»
La ragazza spalancò gli occhi.
«Assolutamente no, è fuori discussione»
«Guardala Arelis, è ferita! Non può sfuggire a loro da sola»
Pausa. La ragazza annuì.
«Cercate di uscire. Ci vediamo fuori»
«Fa attenzione Cèline»
«Sono loro a dover avere paura»

Mentre Arelis e Penelope distraevano i poliziotti io iniziai a correre svelta verso la cella di Jace.
Lo trovai in meno di un minuto.
«Caspita ragazzi» disse lui «Ne avete fatto di casino»
Decisi di ignorarlo e mi concentrai per trovare un modo per rompere le sbarre.
«Come pensi di farmi uscire da qui?»
«Zitto. Sto pensando»
Dovevo usare per forza la mia capacità.
La cosa che più mi spaventava? Una parte di me era contenta.
«Allontanati dalle sbarre»
«Uh-uh. Un po' di azione. Mi piace» esclamò allegro.
Lo guardai storto e mi concentrai immaginando di afferrare con la mente le sbarre e sbriciolarle in piccoli pezzi.
All'improvviso queste si spaccarono sotto gli occhi increduli di Jace e gli graffiarono il viso.
«Io- Cioè tu- Wow»
«Non c'è tempo. Penny è ferita»
La sua espressione cambiò in un battito di ciglia.
«Arelis sta bene?»
Annuii poco convincente. Lo speravo.

La testa vorticava tra un corridoio e l'altro e le forze cominciavano a mancarmi. 
Avevo voglia di stendermi e chiudere gli occhi per dormire a lungo.
Sentivo le energie di tutti i presenti nel carcere come se avessi un sovraccarico di informazioni.
Percepivo le aure dei poliziotti, di Arelis sfinita, di Penelope dolorante e di Jace che aveva il fiatone.
Per quanto riguarda Thomas e Sebastian, potevo sentire che entrambi erano piuttosto nervosi.
Percepivo l'elettricità navigare nella struttura, infinita e potente.
Caddi a terra in preda a delle convulsioni.
Avevo usato troppa energia.
«Cèline! Cèline, stai bene?»
Non riuscivo a pronunciare nemmeno una singola parola.
Sentii il pavimento mancarmi sotto la schiena. Stavo precipitando?
Tenni gli occhi chiusi temendo ciò che avrei potuto vedere.
Ormai nulla aveva più importanza.
Grida e spari, inutili rumori di sottofondo.
Volevo godermi quella sensazione di cadere nel vuoto.
Era sbagliato perché avrei dovuto occuparmi di Jace e portarlo al sicuro sano e salvo, ma non mi importava. Non mi importava di nulla.

«Cosa è accaduto?»
«Non lo so. Stavamo correndo quando è crollata»
«Ha utilizzato la sua capacità?»
«Si. Ha rotto le sbarre con i suoi poteri»
«Cazzo»
«Dobbiamo andare»
«Tu come stai?»
«Starò meglio»
«Arelis?»
«Un po' ammaccata ma sto bene»
Rumore di spari.
«Correte!»
Poi il nulla.

C'era qualcuno dinanzi a me.
Era completamente ricoperto di bianco e qualcosa gli usciva dalla schiena.
Erano ali? Era un angelo?
«Sei in pericolo più di quanto pensi»
La sua voce era metallo freddo a puro contatto con il fuoco cocente.
«Nessuno è chi ti dice di essere. Tutti mentono, nessuno escluso»
Provai a parlare ma le parole erano come bloccate nella mia gola.
«Fidati dei pochi, diffida dei molti» ripeté enigmatico «Sciogli il tuo cuore di ghiaccio alle persone ardenti»
Fu come vedere un'opera d'arte per la prima volta, salvo che questa era un'opera di terrore.
La figura aveva il viso e il corpo ricoperto di sangue ancora fresco e denso ed era tenuta al soffitto da una catena legata al collo. Non c'erano ali: quelle cose dietro la schiena erano spade conficcate nella schiena che gli trapassavano il torace.
Urlai in preda al panico: era Thomas.
Era mio fratello. Mio fratello.
Ed era.. morto.
Non era possibile. Non era possibile. Non era possibile.
Vidi me stessa piangere disperatamente sotto di lui mentre sussurrava qualcosa.
Volevo che qualcuno lo salvasse, che io lo salvassi, invece me ne stavo lì a piangere come una bambina viziata.
Sentii la presenza di qualcuno dietro di me ma non riuscii a voltarmi.
Sentii sussurrare al mio orecchio: «Fidati dei pochi, diffida dei molti»
Poi aprii gli occhi e vidi Thomas dormire accanto a me.
«Sebastian» ringhiai.



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