Root 14

  "C'ho la testa che esplode le vene alle tempie
svuoto il bicchiere ma l'orgoglio non si riempie
e mi ritrovo sudato nella stanza di sempre, 

combatto ma la sua mancanza si sente"

-Gemitaz

Quando ero piccola, mi estraniavo dal mondo intero mentre lo guardavo scorrere dal mio balcone del terzo piano. tra la terra e me c'erano cinquantacinque scalini e mai nessuno notava me che brancolavo nel buio mentre studiavo la vita da lontano.

Mia nonna veniva spesso a chiamarmi e ricordo ancora che non riusciva mai a spiegarsi perché passavo ore intere lì fuori.

Nel petto sentivo sempre un misto di solitudine che veniva spazzata via quando ero lì avvolta nell'ombra, nascosta dagli occhi dei passanti. Avevo sempre un foglio per disegnare e facevo determinati schizzi per ore intere. Mi restava solo quello da fare dato che avevo solo due amicizie: le mie cugine. Oltre loro non avevo nessuno, perché i genitori tendevano a far allontanare i propri figli da me.

Ora, con qualche anno in più, capivo che lo facevano per la mia malattia. Perché avevano paura che potesse morire una persona che era legata al proprio figlio.

Ma ciò non cambiava il fatto che ero sola. E più andavo avanti, più me ne rendevo conto. Sono cresciuta in un'epoca in cui aver avuto un cancro dava come risultato l'essere emarginata dalla società.

Avevo perso anni di studio per combattere il mio malore e la gente sapeva solo notare la dislessia che spesso mi portavo dietro per i traumi subiti e le poche ore scolastiche.

Un giorno venne a trovarmi un'amica di mia madre. Lei dovette avvisarla che stavo facendo il secondo ciclo di chemio- che solitamente e' sempre più pesante del primo- e che ero poco presentabile. Appena mi vide, ricordo solo che scappò via. Un gesto che mi fu subito chiaro. Un gesto che mi sono portata dentro per anni, che mi aveva traumatizzato così tanto da non parlare più per mesi, chiudendo a chiave tutte le porte che conducessero a me.

Perché è questo che fa la gente, non capisce quanto possa essere distruttivo vedersi cadere i capelli, le unghie e i denti. Devi anche subire la loro reazione oltre che la tua. Per questo quando arrivai alla fine delle medie, come una furia, chiesi a mia madre di sciogliere ogni legame con il mio passato. Di togliermi addirittura il sostegno scolastico, perché non volevo che nessun altro sapesse ciò che avevo intenzione di seppellire.

Mi fecero fare un esame, che non superai. Ero in terza media e non sapevo neanche leggere, per non parlare della grammatica.

Ma mia madre mi ascoltò. Mai come quella volta, mi ascoltò.

Fu lì che iniziai a spogliarmi delle mie catene.

Avevo tredici anni ed ero sola, senza l'appoggio di nessuno se non di me stessa e di mia madre, sempre un po' diffidente ma pronta a restarmi accanto comunque. Ma sapevo di fare la cosa giusta per me facendo quel passo.

Avevo capito che se mi fossi trovata dei massi enormi sulla strada, mi sarei dovuta improvvisare alpinista pur di superarli e andare avanti.

Christian era stato essenziale. Grazie a lui, avevo capito tante cose. Soprattutto i miei errori odierni. Mi incitava a non sbagliare e mi sottolineava dove, invece, lo facevo.

A Christian dovevo tanto. L'avevo conosciuto nell'estate precedente al primo anno di superiore. Non aveva ascoltato le voci che giravano su di me, non si era fermato al mio lessico sgrammaticato, non si era mai arreso nonostante lo spingessi via. Non sapevo com'era avere un vero amico, figurati un compagno di vita. Non ero abituata alle attenzioni positive e alle carezze sui graffi. Ogni volta che capitava di legarmi a qualcuno, subito dopo, questa persona non perdeva l'occasione di strapparmi via i cerotti dalle ferite ancora aperte.

Ma Christian no, non si era mai fermato. Mi afferrava la mano davanti a tutti senza vergogna. Mi aveva baciato le cicatrici che avevo in grembo e mi aveva aiutata a non nascondermi quando mi mostravo per quello che ero. Perché non riuscivo ad amarmi e non capivo perché lui lo facesse.

Era vero, però, che già prima di lui sapevo come rimanere a galla. Ma dopo di lui, sapevo addirittura come nuotare.

Però l'oceano è enorme e ci siamo persi tra le alte maree.

Mai mi sarei immaginata di arrivare qui, sullo stesso balcone ma con il cuore e la mente completamente diversa dalla me di allora.

Il posto era lo stesso, solo che io e il tempo eravamo cambiati repentinamente.

Non c'era neanche più mia nonna a dirmi di rientrare. Non c'era più lei ad augurarmi la buonanotte.

Lei che andandosene mi aveva fatto conoscere per la prima volta quanto male facevano le lacrime salate sulle labbra screpolate. Dovevo darle la colpa di avermi fatto conoscere un dolore cieco e sordo.

Lo stesso che, a distanza di dieci anni, ricordavo ancora sulla mia pelle.

Avrei voluto farmi dire da lei che cosa avrei dovuto fare con Daniel, come etichettare ciò che provavo nei suoi confronti.

Ma, dopotutto, mi aveva lasciata.

Ero muta. Non gli avrei mai chiesto di restare, eppure... pensavo che con lui non c'era bisogno di nessuna parola.

Che lui mi capisse.

Feci come quando facevo da bambina, guardai il cielo così intensamente che pian piano le stelle si svelarono sotto ai miei occhi vigili.

Più guardavo un punto e più improvvisamente riuscivo a vederle chiaramente, mentre prima erano nascoste agli occhi dei poco attenti.

Lessi ancora una volta la miriade di messaggi che Daniel mi aveva inviato quella mattina.

«Non posso fare a meno di pensarti. Ti scriverò tutte le canzoni di Ligabue, perché tutte mi conducono a te.»

«Che tempo di merda. Ti cito ancora Ligabue. ''E adesso che sei dovunque sei, chissà se ti arriva il mio pensiero chissà se ne ridi o se ti fa piacere, cosa c'entra quel tramonto inutile non ha l'aria di finire più e ci tiene a dare il suo spettacolo. Mentre qui manchi tu'' »

«Ho perso le parole... Vorrei che ti bastasse solo quello che ho.»

«Mi perdo nei tuoi occhi, perché alla fine è un gioco di specchi.»

Non risposi a nessuno dei messaggi perché sapevo che era con Irene e che, evidentemente, li aveva mandati quando non era in sua compagnia.

A distrarmi da quei messaggi era stato Gioele che, quella stessa mattina, mi aveva portato fuori mentre pioveva e, sotto alla pioggia frenetica, mi aveva scritto con una bomboletta a spray "Buongiorno Star".

Contenti, rimanemmo a guardare la scritta bianca che sfumava e spariva sotto alla pioggia fredda.

Era durata pochi minuti ma mi bastarono per sorridere.

Legai tanto anche con Gioele, avevo scoperto che anche lui, nel suo modo soffriva. Solo che non lo dava a vedere.

Eravamo seduti nel parcheggio del negozio, era sera e stavamo per tornare a casa quando mi passò la canna e mi posò la testa sulla spalla sinistra.

«Ho paura. Penso di essermi innamorato di un'altra donna ma sono fidanzato da otto anni. Non so che fare» svelò.

Mentre ne parlavamo, nascose di più la faccia sulla mia spalla, eclissando le lacrime salate che mi bagnavano alcuni lembi di pelle.

Mi sentii distrutta quanto lui e, forse, grazie allo stesso dolore diventammo amici.

Avevo iniziato a fare di tutto pur di non rispondere a quei messaggi perché avevo capito che di Daniel o si viveva o si moriva, ed io volevo evitare l'ultima.

Il giorno seguente, Ivan mi venne a prendere con la sua bmx e subito presi la mia Bianchi.

Facemmo una sosta in un supermercato per comprare delle fette biscottate e la Nutella poi, sempre pedalando a tutta forza, andammo vicino al luogo in cui io e Daniel, qualche giorno prima, eravamo sfiorati i cuori sotto ad un manto stellato che ricopriva le nostre due sagome.

Scoprii cosi come si faceva a scendere verso il fondo del ruscello asciutto dove vi erano miriade di graffiti e skate rotti.

Io e Ivan avevamo nascosto le bici dietro ad un albero e poi, maldestramente, eravamo scivolati giù ad una parete di cemento.

Ci accomodammo sopra a delle foglie cadute da un albero spoglio e iniziammo a mangiare le nostre fette biscottate alla Nutella.

Per la maggior parte del tempo rimanemmo in silenzio, lasciandoci cullare solo dalla serenità di un sole che lottava contro l'inverno.

Eppure non mi dava fastidio rimanere ore senza parlare finché ero in sua compagnia, avevo capito che riuscivamo a completarci anche con poco.

Ivan era come la notte, ciascuno aveva un suo modo di guardarlo. Nel farlo, potevi vedere solo un buio privo di luce, ma concentrandoti, riuscivi a svelare pian piano le stelle che aveva incastrate sotto pelle. Dovevi solo andare oltre il naufragio dei suoi occhi.

Avevo passato anni interi senza essere capita da nessuno. Avevo inghiottito ogni parola cruda che mi aveva ferito come schegge infuocate diritte al cuore. Mi sentivo macerie di me stessa ma, finalmente, l'attesa era valsa la pena.

Guardai il profilo spigoloso di Ivan e misi il silenzioso ai pensieri, volevo solo godermi il momento e lasciarmi riscaldare da un sole che non avrebbe mai potuto arrivare a riscaldarmi dentro.

Ma il pensiero di rivedere Daniel il giorno dopo mi mandava in tilt.

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