Change 9
"piccola ragazza dagli occhi grandi
la vita t'ha preso tante volte a schiaffi
e
adesso se ti fanno una carezza
tu non la riconosci."
-38h on tumblr
La mattina dopo eravamo, come sempre, fuori al negozio con i nostri bicchieri di caffè fumanti fra le mani.
Amelia se n'era andata da poco, quindi avevamo un po' di tempo da perdere.
Daniel, ovviamente, non si dimenticava mai di far tardi.
Il cielo era cupo e pieno zeppo di nuvole scure, mi alzai il cappuccio della felpa di Daniel e iniziai a bere il mio caffè mentre tutti gli altri mi parlavano intorno.
Poi, accadde tutto velocemente. Vedemmo un'auto grigia, la stessa di qualche giorno prima, sapevo già chi era la guidatrice, aveva degli occhi scuri, gli zigomi marcati e i capelli sempre ben piastrati, diritti come spaghetti.
Irene e Daniel.
Sussultai e in men che non si dica corsi in bagno come una furia.
Appena chiusi la porta mi tolsi la felpa di Daniel con il cuore in subbuglio e mi sentii un verme.
Dannato Daniel, era stato lui a dirmi di tenermi la felpa addosso anche oggi.
Dannata felpa.
Dannata Irene.
Dannato tutto.
Gettai via la felpa accanto alla porta e uscii fuori, non sorprendendomi per niente quando né lui e né lei mi salutarono.
Infatti, andai spedita nel reparto più vicino e iniziai a lavorare.
Non avrei mai ammesso di sentirmi ferita al riguardo, su questo aspetto ero troppo orgogliosa.
Non avrei mai ammesso a nessuno, nemmeno al mio mondo interno, che gli avevo dato lo stupido potere di ferirmi.
Poco dopo, dietro di me, sentii degli stivali, mi voltai e vidi Irene guardarsi intorno silenziosa e incuriosita.
Mi alzai dalla mia vecchia posizione e mi presentai, come da buona educazione.
«Ciao, sono Stella» le dissi sorprendendola. Diede un'occhiata diffidente alla mia mano, quasi come stessi nascondendo un coltello affilato in essa, e poi me la strinse debolmente.
«Irene, piacere.»
«Tutto bene?» chiesi sorridendo, di me non si poteva certo dire che non fossi amichevole.
«Sì, stavo guardando il negozio, non è diverso dall'altro.»
Si alzò il dolce vita e si coprì il mento, attenta a non toccarsi le labbra coperte da un lucidalabbra.
«Mhm. Tu lavori?» continuai a sistemare il reparto nel frattempo.
«Faccio la baby sitter. Oh, sei fidanzata» mi disse, indicando la collana con il cuore spezzato che avevo al collo.
Ce l'avevo ancora, ormai me ne ero perfino dimenticata.
Quel cuore simboleggiava la divisione dei cuori di due innamorati. Io e Christian l'avevamo comprato tanti anni fa e, alla fine, ad indossarlo ero solo io.
Era difficile da spiegare, quindi mentii e confermai.
«Anche io, con Daniel.»
Quasi risi.
«Ormai sono anni, quasi due in realtà. Chissà quando mi chiederà di sposarlo» fece, gli occhi sognanti, avvicinandosi interessata a me.
Io mi voltai e nascosi la testa fra gli shampoo per non farle vedere che ridevo.
Perché stavo ridendo? mi sembrava cosi comica la realtà?
Non sapevo il motivo, ma non riuscivo ad immaginarmeli assieme o forse non volevo.
«Tu da quanto?»
«Sei anni» risposi secca, volendo togliere l'argomento di mezzo.
Parlammo per un altro po' di tempo mentre continuavo a lavorare, poi mi invitò a fumare una sigaretta con le ed annuii.
Mentre eravamo fuori, la sentivo parlare tanto dei suoi ex e del suo lavoro. Non era male, alla fine, come ragazza. Però eravamo completamente diverse.
«Eccolo, vedi?» gli indicai Gioele che stava iniziando a scendere nel deposito.
«Sì, è Gioele. Quindi?» rispose, chiudendo un po' le palpebre per riuscire a vedere meglio la sua figura da lontano.
«Questo ormai è il rituale della mattina. Prima che venga Amelia in ufficio, scendiamo e ci fumiamo una canna. Vuoi?»
La guardai sorridente ma lei scosse la testa e si allontanò di poco.
«Per carità. No, no, no...» rispose spaventata. Alzai un sopracciglio confusa.
«Non mi piace la droga. Una volta provai a farmi due tiri e solo il Signore sa cosa ci fosse là dentro. Mi sentii male, così male che non sono uscita di casa per tre mesi e, anche quando andavo a lavorare, avevo l'ansia a mille.»
Certo che era un tipo strano, pensai.
Daniel fumava e mi dava l'impressione di essere un ragazzo che cercava una complice, nella vita.
Era come se gli vedessi accanto qualcuno come lui, che fosse fatto della sua stessa pasta, così da reggere sotto qualsiasi temperatura.
«Va bene, allora io rientro a lavoro, è stato un piacere.»
Dopo mezz'ora, vidi sbucare Daniel, correndo da me. Segno che Irene se n'era andata.
Ero in ufficio per delle commissioni quando spalancò la porta con una faccia da cucciolo bastonato.
«Oddio Sunny, scusami, scusa...»
Si avvicinò con l'intento di chiudermi fra le sue braccia ma io mi diedi uno slancio con la sedia e lo scansai, veloce come un'aquila in picchiata.
«Che vuoi?» sbottai infastidita.
«Scusami, non volevo uscire ieri ma mi è venuta a prendere lo stesso, perché altrimenti questa mattina non avevo il passaggio per venire a lavoro e...» Disse d'un fiato.
«Non capisco perché mi dici queste cose che non m'importano» risposi tagliente come una lama.
«Scusami lo stesso» mi disse, avvicinandosi pericolosamente.
Arrivò con il viso ad un palmo dal mio, facendomi indietreggiare fino al muro dietrostante.
«Ma ccc-che fai?» farfugliai, facendo svolazzare le palpebre.
«Non indietreggiare» mi ordinò, ma provai lo stesso a scappare, mi sentivo un animale in trappola.
«Non preoccuparti. 'Sta ferma. Facciamo un gioco» proprose, incuriosendomi.
«Tu sei testarda e anche io. Facciamo che, quando meno te lo aspetti, io mi avvicino a te e alle tue labbra. Ma non ti bacerò e tu non dovrai indietreggiare, altrimenti, perdi.» Ma che gioco era? Forse non ero io l'unica pazza.
«Daniel, tu stai male» dissi, sfuggendo via e lasciandolo da solo nell'ufficio.
Ma che voleva da me?
«Non hai le palle per farlo.»
Mi corse dietro, odiavo quando mi dava della codarda.
Incrociai le braccia al petto.
«Ma quanto rompi?!»
«Acida. Ci stai?»
Lo guardai in cagnesco e continuai a camminare spedita.
Alla fine lasciò stare e continuammo a lavorare tutta la giornata.
Mi svelò che aveva provato a parlare a Irene di me, consigliandomi come "amica" perché, a detta sua, ero maledettamente simpatica. Solo che lei si era infuriata a morte. Non voleva saperne nulla di me, era gelosa e basta.
«È inutile che gli parlo, non mi ascolta» disse sommesso, raccontandomi alcune cose di lei che mi lasciarono spiazzata.
Era una ragazza sicuramente inacidita che a volte perdeva la ragione ma, di certo, non era un problema mio.
Ne avevo uno più grande, di problema.
Ed era il controllo di domani.
***
Feci in modo che il mio giorno libero coincidesse con la visita di domani.
Oltre io, mia madre, Christian e Daniel, nessuno sapeva nulla.
Quando mi misi a letto, la notte prima del controllo, tremavo come una foglia.
Presi il telefono che vibrava sopra al comodino e vidi una chiamata di Christian, risposi abbastanza confusa.
«Hai finito di lavorare? Se ti va, vuoi uscire?» mi chiese dall'altra parte.
«Chris. Sto a casa, onestamente non penso sia una buona idea vederci e sentirci.»
«Ma allora sei proprio un'idiota. Va bene, come vuoi, non ti sorprendere se alla fine io non ci sarò. Ciao.»
Staccò il telefono senza darmi tempo di ribattere.
A volte, era proprio permaloso. Avrei dovuto rinfacciargli tutte le volte che si era preso una pausa o mi aveva lasciata, eppure non lo feci.
Non ero come lui, era inutile rinfacciare il passato. Io ero una di quelle che il passato se lo seppelliva sotto ai piedi.
Invece, Christian portava il conto di tutte le cose che poteva rinfacciarmi, effettivamente non aveva niente di concreto da spiattellarmi addosso, ma tutte ipotesi.
Lasciai perdere sfinita e finita da tutto.
Ero stanca perché avevo lavorato tanto in questa mia prima settimana e stanca perché non riuscivo più a trainarmi dietro la relazione con Chris.
Inoltre, dovevo provare a capire me e il miscuglio di sensazioni che provavo, perché mentre da una parte ero contenta di essermi allontanata da Chris, dall'altra ne ero tremendamente dispiaciuta.
Non mi era mai successo qualcosa di simile, io avevo sempre amato Christian, ero sempre stata coerente con me stessa e in pace con i miei sentimenti.
Almeno, fino a quasi due anni fa.
Affogai le mie preoccupazioni al riguardo e mi strinsi nella felpa di Daniel.
Non so perché la tenevo ancora con me dopo quella mattina, eppure sembrava fosse l'unico indumento in grado di riscaldarmi un po'.
Sapevo sarebbe stato difficile addormentarmi, quindi tentai di rilassarmi con le cose abituali che usavo quando non riuscivo a dormire.
Tipo leggere qualche libro finché non mi si appesantivano le palpebre e finché le parole non diventavano incomprensibili nella mia testa o mettere il rumore della pioggia in sottofondo con le cuffie del cellulare.
Ma la notte trascorreva troppo lenta.
Ed io mi sentivo troppo sola.
Allora feci qualcosa che non pensavo mai di fare, mi sistemai meglio le cuffie nelle orecchie e andai nelle note di registrazione del mio cellulare, premetti sull'ultima registrazione effettuate e l'ascoltai. Fino allo sfinimento.
Era la voce di Daniel, quella che sentivo in sottofondo e, grazie alle cuffie, riuscivo a distinguere in modo più chiaro la sua voce e il suono della chitarra.
Ogni volta che terminava il brano, dovevo rimetterlo da capo perché non mi sembrava di aver sentito abbastanza. Mi sentivo vuota appena la sua voce scompariva dalla mia testa.
Continuai a rimettere la registrazione che avevo fatto di nascosto mentre lo sentivo cantare Iris. Passai un'ora intera a mangiarmi ogni sua parola e emozione che sentivo trasparire dalla canzone. La studiai attentamente, come quando si studia un quadro astratto che ti colpisce nell'anima e non ne conosci il motivo.
Non mi resi conto neanche quando mi addormentai ma la mattina dopo, fra le mie mani, c'era ancora il cellulare e le cuffie disperse sul cuscino.
Sospirai afflitta e mi vestii.
Ripresi il telefono dal letto e vidi un messaggio lampeggiare sullo schermo.
Daniel.
«Buongiorno. Spero tu abbia dormito bene. Oggi è il gran giorno, andrà tutto bene Sunny, vedrai. Indossa la mia felpa, così sarà come se io fossi lì con te.»
Il cuore, contro la mia volontà, iniziò a battermi forte nel petto, pronto ad uscirmi dalla cassa toracica e ad aprirmi in due.
Messaggiai con lui finché non entrai nello studio e, dovevo ammetterlo, l'ansia si era un po' dissolta grazie a lui.
Ma con il passare dei minuti, l'ansia che si era dissolta, rifece il suo ingresso. Feci finta di nulla, di essere forte, solo perché c'era mia madre con me.
Finsi che andava tutto bene, un po' come sempre.
Finalmente arrivò il mio turno, strinsi la felpa a me ed entrai seguita subito da mia madre.
«Allora, perché siamo qui, signorina? Cosa dobbiamo controllare e perché?»
Il Dottore aveva degli spessi occhiali sul viso, troppo grandi per lui. Indossava una camicia azzurra con dei pantaloni eleganti che calzavano a sigaretta ma immancabile era il camice bianco.
Non mi degnò nemmeno di uno sguardo mentre scrutava lo schermo del computer.
«Dobbiamo fare un'ecografia all'addome inferiore. Ho bisogno di vedere...»
Mia madre mi interruppe e iniziò a parlare al posto mio. Spiegando il motivo dei miei controlli.
Il Dottore annuì e poi avvicinò il computer.
«Alzi la maglia e abbassi un po' di più la vita del pantalone.»
In men che non si dica la sonda con il gel freddo si muoveva lenta, premendo decisa sul mio ventre.
«Tutto bene» confermò il Dottore.
Mia madre scattò in piedi.
«Non ha nulla?» chiese speranzosa.
«Pulita.»
Mi bastarono quelle parole per farmi sorridere a trentadue denti.
In un secondo l'ansia, la preoccupazione e tutte le paure, scomparvero quando incrociai gli occhi lucidi di chi mi aveva messo al mondo.
Mia madre, per festeggiare, mi portò a fare colazione fuori, solo in casi come questo mi ci portava. Per il resto, preferiva fare tutto a casa.
Durante il ritorno a casa, mandai Sms sempre con Daniel che, anche se era a lavoro, continuava a scrivermi.
Per tutta la giornata, il mio cuore era un blocco di pietra. Non riuscii ad evitare di rimanere delusa quando notai che Christian non si era fatto proprio sentire.
Neanche per chiedermi come fosse andata l'ecografia.
E nemmeno nei giorni seguenti me lo chiese.
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