Change 3


"Se noi fossimo dei satelliti

io orbiterei con te:

quando mi eclisso io

risplendi tu

quando risplendo io

ti eclissi tu."
-Rette parallele.

Il giorno dopo, la sveglia iniziò a suonare alle sette e trenta precise. Brontolai più volte in negazione, non avevo per niente voglia di alzarmi, poi mi ricordai di Best Shop. Avevo un lavoro.

Corsi veloce giù dal letto e andai verso la doccia, mi lavai frettolosamente e in un batter d'occhio ero fuori al negozio, miracolosamente in anticipo, ma nonostante questo le serrande erano già semi-aperte, abbassai la schiena ed entrai, ritrovandomi Amelia sorridente.

«Mattiniera. Vieni a prenderti il caffè.» mi invitò gentilmente accanto a lei, parlammo del più e del meno, mi diede qualche consiglio per lavorare meglio e delle piccole istruzioni su cosa avremmo dovuto fare nei prossimi giorni, finché non arrivò il resto del gruppo.

«Chissà come sarà questo negozio una volta aperto» Mafalda si guardò introno con occhi sognanti. Notai che anche oggi aveva i capelli legati, era un peccato perché il suo nero era come se fosse fatto di cera lucente e aveva davvero una bella qualità. Quasi glieli invidiavo.

«Allora» finalmente, anche Daniel arrivò al negozio, si guardò intorno come se stesse cercando qualcuno, poi mi vide e sorrise lievemente.

Aveva un maglione nero e un pantalone verde con i tasconi, mi ricordavano i pantaloni da pesca.

«Tu» disse, indicandomi. «Lavori anche oggi con me. Gioele?» si voltò verso il rossiccio che stava ancora bevendo il caffè.

«Lavora con Lidia e Mafalda, Cesare saprà già che fare. Io e Stella continuiamo i casalinghi.»

Comunicò a tutti cosa fare prima di dirigersi al mio fianco.

«Buongiorno» disse, prendendo una tazza di caffè.

«Sei in ritardo» osservai. Ma subito un boato di risate scoppiò. Mafalda, Lidia e Gioele si mantenevano la pancia dal troppo ridere.

«Scoprirai presto perché ridono» disse Daniel ridacchiando.

Li osservai spaesata.

«Intuisco che forse non sei un tipo puntuale.»

Lui annuì e si diresse in fondo al negozio, aspettando lo seguissi.

Era un tipo strano, ma strano in senso buono.

Lavoravamo già da tre ore e non ero per niente stanca. Scoprii che in realtà mi piaceva allestire un negozio, indipendentemente dal tipo di articoli che vendeva.

Mentre Daniel aveva iniziato ad aprire alcune scatole, mi domandò: «Colore preferito?»

Lo guardai un po' sorpresa, poi scrollai le spalle e risposi. Contenta di iniziare un dialogo dopo ore di lavoro assiduo.

«Blu.»

Lui annuì, comprensivo.

«Anche il mio.»

E non so come, ci ritrovammo di nuovo uno accanto all'altro.

Stava per domandarmi qualche altra cosa, quando vidi Amelia sbucare dal corridoio.

«Scusatemi ragazzi, ma abbiamo bisogno di una mano nell'altro negozio. Vi va di andarci? Stiamo facendo alcuni spostamenti anche di là, per uniformare i due negozi» ci disse, dispiaciuta. Per me non c'erano problemi ma, forse, non era diretto a me quel "mi dispiace" perché vidi con la coda dell'occhio Daniel irrigidirsi.

«Se proprio dobbiamo» rispose quasi a denti stretti.

Amelia lo guardò preoccupata e gli si avvicinò, dandogli le chiavi dell'auto.

«Prendi la macchina aziendale, dopo però, passa di qua e accompagna gli altri a casa. Ci vediamo oggi» dettò velocemente, prima di rintanarsi nel ufficio.

Uscimmo velocemente dal negozio e appena entrata in auto mi sembrò sentire Daniel imprecare.

Poi mi guardò di scatto, inchiodandomi al sedile con un solo sguardo.

«Che ccc-c'è?» Balbettai intimorita.

«Allacciati la cintura. Questa macchina corre che è una meraviglia» mi disse a bassa voce. Sentii la pelle d'oca sulle braccia e allacciai la cintura.

Subito la macchina sfrecciò via dal parcheggio deserto del negozio.

«Dov'è precisamente quest'altro negozio?» domandai.

«Non molto lontano. C'ho lavorato per anni e, forse, ci dovrò ritornare. Amelia sta ancora pensando al da farsi...» serrò le mani sul volante e corse a tutto gas, mangiando in poco tempo svariati chilometri.

«Non sembri contento di andarci» gli dissi, scrutandolo.

«Mmh. Perspicace» chiuse così il discorso, ma per fortuna poco dopo parcheggiò di fronte ad un altro negozio che stava nei pressi di una rotonda.

Daniel non disse nulla, scese dall'auto incamminandosi all'interno, mentre io, intimorita come una capra fuori dal gregge, entrai all'interno.

Notai subito la confusione che c'era. Una signora riccia dai capelli lunghi indossava dei guanti sporchi e dettava ordini a destra e manca.

C'erano altre due ragazze, sicuramente più grandi di me, che spostavano i prodotti dal pavimento e li mettevano in un carrello parcheggiato davanti alle creme viso.

Alle casse c'era una piccola coda ed un uomo, sulla quarantina, faceva lentamente dei conti.

In un batter d'occhio tutti gli sguardi furono su di me.

Ingoiai il groppo in gola e mi portai una ciocca di capelli lunghi dietro l'orecchio.

«Salve a tutti. Io sono Stella, vengo dall'altro negozio» mi presentai, ricevendo un sorriso frettoloso da tutti. C'era un gran da fare.

Daniel sbucò da una porta di legno e mi guardò.

«Vieni qui, per cortesia.» Non lo disse in modo rude, ma dal modo in cui lo disse, mi fece credere che avesse realmente bisogno di me, e non solo lavorativamente. Era come una sorta di supplica silenziosa.

Feci come mi aveva detto e, appena gli fui accanto, iniziò: «Dobbiamo spostare il deo ambiente. Lo odio. Odio questo negozio» ammise, sedendosi sul pavimento freddo e iniziando a spostare le etichette di prezzo e i prodotti. Lo aiutai velocemente senza farmi dire altro.

Eravamo sincronizzati sui movimenti, sui respiri, su tutto.

«Daniel, non mi piacciono qua. Forse stavano meglio prima.»

La signora dai capelli ricci con i guanti iniziò a parlare dietro alle nostre spalle ma, contro ogni mia aspettativa, lui si alzò di scatto.

«Forse non hai capito che è solo colpa tua se stiamo facendo anche questo. Non dovevi iniziare a spostare un bel niente» rispose a tono, iniziando così una discussione che andò per le lunghe.

Mi domandai se era normale urlare e discutere davanti ai clienti.

Infine, esaurito dalla discussione, lo vidi imprecare per la seconda volta in quella giornata. Mi meravigliai, lo conoscevo da soli due giorni eppure, sentivo che non era da lui essere così... frustrato e arrabbiato.

«Come sempre, non capisci nulla» chiuse la discussione, dirigendosi velocemente verso la fine del negozio, che ancora non avevo visto.

«Tu non mi parli così, Daniel. Mi hai capito?» urlò dietro le sue spalle la riccia, inacidita.

Guardavo ancora la direzione che aveva appena intrapreso Daniel, prima di alzarmi e decidermi di seguirlo.

Scoprii che in fondo il negozio era buio e il magazzino pieno di merce.

Forse mi ero sbagliata, forse aveva preso un'altra direzione.

Stavo per andarmene quando lo vidi, con i pugni stretti su una scatola e la testa fra essi. Sospirò, sommerso.

Mi avvicinai cauta, quasi come potessi spezzarlo, lo squadrai, anche al buio sapeva essere bello.

«Come stai?» chiesi. Lui sembrò sorpreso prima della mia presenza e poi della mia domanda. Sembrava che nessuno glielo chiedesse da una vita.

«Nervoso» ammise, voltandosi verso di me. Aveva gli occhi come il petrolio, completamente neri.

«Parlami dei tuoi problemi» soffiai, mentre giravo intorno a delle ceste appoggiate a caso.

Non sapevo perché glielo stavo chiedendo, ma mi interessava davvero sapere che cosa lo preoccupava.

Lui si lasciò andare contro una pila di scatole e rise fra sé.

Pensai che si stesse prendendo gioco di me, ma contro ogni mia aspettativa, iniziò davvero a parlare di se stesso.

La sua voce profonda accompagnò il suo racconto, mi parlò principalmente del fatto che si sentiva incompreso. Vuoto. Che tutto intorno a lui lo rendeva nervoso. Aveva una rabbia repressa. Nessuno badava a come stesse, riuscivano solo a usarlo il più possibile. Partendo dalla famiglia: dai genitori che non gli avevano concesso di avere un futuro, che gli aveva tappato le ali, arrivando a parlare dei fratelli e il rapporto disastroso con il padre. Perfino la sua ragazza sembrava non capirlo.

Quando mi disse di avere una fidanzata, ne fui triste. Eppure non ne sapevo il motivo.

Ma non potevo nascondere di esserlo.

Cacciò via tutti i pensieri che gli pressavano sulla testa, li cacciò e li gettò su di me.

Si svuotò di tutta la frustrazione che aveva.

«Non mi hanno lasciato prendere neanche il diploma, anche se lo volevo. Dicevano che io dovevo lavorare. Ed eccomi qua. Sono qua da anni e non ho mai fatto nulla nella mia vita. Ho sempre lasciato stare, reprimendo tutto. Anche la mia voglia di viaggiare.»

Pensai che non era facile reprimere una tale voglia, io stessa non c'ero riuscita. Amavo viaggiare, amavo stressarmi per le valigie piene e sorprendermi di non aver dimenticato nulla durante il viaggio.

Avevo quindici anni quando avevo fatto il mio primo viaggio da sola, mi ero fatta una valigia piena di me ed ero andata al mare, a otto ore di distanza da casa.

Non mi ero mai fermata davanti a nessuna opportunità.

Quando c'erano le selezioni per Londra, lo scoprii in una mattina.

Mi catapultai giù dal letto, avevo preso la bici e ci avevo corso per quaranta minuti. La Professoressa che mi fece le selezioni disse che non credeva in me, che per lei era inutile che inviassi la domanda per via dei miei voti scolastici. Ci provai comunque.

Dopo qualche giorno, un martedì mattina soleggiato, mi chiamarono.

Fu la prima volta che piansi davanti a mia madre, che, per tutta la durata della chiamata, mi guardava interrogativa e ansiosa.

«Mamma, mi hanno preso. Vado a Londra.»

Mi asciugai le lacrime come una cretina, non ci speravo.

Finalmente era successo qualcosa di bello, a noi che di bello non succedeva mai nulla. A noi che avevamo l'auto rotta da tre mesi perché non avevamo soldi per aggiustarla. E dovevamo fare la spesa ogni giorno e salire le buste piene per cinquantacinque scalini contando solo sulle nostre sole forze.

Era impossibile crederci. Perfino mio padre rise quando glielo dissi.

«Non è vero, mi stai prendendo in giro» mi disse, e invece no, papà. Avevo vinto un mese a Londra gratis.

Alla fine lo guardai, Daniel mi sembrò così solo e incompreso. Proprio lui che aveva il sorriso sempre pronto in viso.

Mi avvicinai piano e gli diedi un abbraccio.

Mi sembrò l'unica cosa giusta da fare.

«Devi pensare un po' a te stesso, per una volta.»

Per un attimo mi strinse, sentii il suo respiro caldo sul mio collo, poi, contro ogni mio atomo, mi allontanai.

«Pronto?» gli chiesi, afferrandogli il polso ricoperto dallo strato di cuoio, evidentemente quel polsino lo indossava ogni giorno.

«Sì» sussurrò, convinto.

E insieme rientrammo a lavorare.



Angolo Autrice.
Saaalve a tutti, anzi potrei dire a tutte. Ho la sensazione che ci siano pochi uomini che leggano romanzi. Se magari ce ne fosse qualcuno, che alzi il dito.
Vi volevo sottolineare che, tutto ciò che leggete, è una storia vera in tutto e per tutto. Cambiano solo i nomi.
Inoltre, non rigonfio nulla. Descrivo solo i fatti come sono accaduti e stop.
Vi lascio a voi l'idea dei personaggi.
Buona giornata. ❤

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