Belive 30
''Sarà una corsa a piedi nudi varcando il confine. Voglio sentire le gambe in fiamme fino a morire.''
-Luche'
Un colpo.
Un altro.
Un altro ancora.
Apro gli occhi e ho subito l'istinto di richiuderli ma sento qualcosa dietro al mio collo e sulle mie guance. Richiudo gli occhi ma quello che percepisco come un colpetto sulle guance mi riporta a riaprirli ancora una volta.
Solo ora sento un piccolo chiacchiericcio e tanto movimento intorno a me mentre vedo tutto sfuocato e indistinto.
Quello che prima sentivo sul collo inizia a fare maggiore pressione facendomi volteggiare il capo a destra e sinistra finché non mi riprendo.
«È sveglia» sentenzia un uomo di mezza età.
Sveglia? dove sono? mi guardo intorno lentamente, non riuscendo ancora a muovermi come vorrei. Vedo solo un grigio lucente e tanti camici verdi. Poi porto lo sguardo in alto al bagliore della luce bianca su di me.
Finalmente acquisto lucidità e mi rendo conto che ero sotto anestesia e che è già tutto finito.
È tutto finito.
Questo pensiero mi scuote qualcosa nell'animo, qualcosa simile alla sensazione che si prova dopo l'esame di maturità.
Vengo spostata fuori dalla sala operatoria, dove è avvenuto tutto. Ed eccolo lì. Il mio Dottore.
Mi sorride caldamente e mette la mano sul mio stinco per rassicurarmi. È un sorriso davvero calmo quello che ha. «Ben tornata.» Quella mano mi ricorda improvvisamente di tutto il dolore che sente il mio corpo. Sento cosi freddo da sbattere i denti ripetutamente e mi accorgo delle leggere convulsioni. Alcune parti del mio corpo saltano involontariamente.. Provo a guardare il mio corpo sotto ad un lenzuolo bianco ma nonostante la coperta continuo a tremare come una foglia.
«Mi brucia la pancia» è la prima cosa che dico, e la sussurro lievemente, mi sembra difficile parlare e sento come se la mia lingua fosse fatta di piombo e la mia bocca prosciugata di saliva e di qualsiasi parola.
«Lo so. è la laparoscopia. Per queste operazioni non è possibile avere un'antidolorifico come la morfina. Mi dispiace» ma non sembra interessargli realmente.
«Fa freddo» solo ora mi rendo conto che la sua mano sullo stinco non è per confortarmi ma è per tenermi ferma evitandomi alcuni scatti.
«Mi dispiace. Non puoi muoverti tanto perché ti farà male dopo. E' il risveglio dall'anestesia che ti fa sentire freddo. Passerà presto. Resisti un altro po'» è lui stesso ora a riprendere a camminare quando non mi ero resa conto nemmeno che c'eravamo fermati in mezzo al corridoio, quello prima della sala operatoria.
«L'ovaio?» tento. So che farà male la risposta. Ma devo comunque saperlo.
«È salvo Stella. Potrai avere quanti bambini vorrai. Completamente salvo.» dice vittorioso. Provo a sorridere ma il sorriso mi muore sulle labbra facendomi assumere una smorfia di dolore.
«È l'orario di visita?» dico infine, sapendo di non riuscire più a dire nulla. Mi sento debole, senza forze come se fossi fatta di carta.
«Sì»
mi lascio sfuggire un lamento e restiamo zitti anche quando il letto a malapena entra nel ascensore troppo stretto. Dopo due piani le porte si aprono e proprio di fronte ad esse, la prima persona che vedo è mia madre. Subito dopo di lei, c'è mia sorella, mio padre e le mie cugine. Si radunano intorno al mio letto seguendomi in camera.
Gli infermieri mi alzano proprio come un sacco di patate e mi distendono sul letto della mia camera, e proprio in quel momento mi guardano tutti. Non solo Camille e Jessica, ma anche i loro familiari e i miei.
«Che spavento ci hai fatto prendere.»
«Come stai? stai meglio?»
Non riesco a distinguere bene le voci ma li guardo sorridendo forzatamente mentre una parte di me vorrebbe solo piangere dal dolore. Ma come sempre, resto in silenzio.
«Perché fa cosi? che ha?» Dice mia sorella a mio padre preoccupata.
«Sarà l'anestesia» Sento dire sottovoce.
Mia cugina appare nella mia visuale e mi accarezza i capelli.
«Ehi. È stata dura vero? come stai ora?» Poi mia sorella si fa avanti e mi picchietta sulla spalla per farsi guardare.
«Guarda chi ti ho portato.» Si sposta leggermente e mi lascia vedere Allison. Come mi vede sorride allegra, poi, guardandomi meglio il sorriso le muore sulle labbra e delle lacrime calde le colmano gli occhi grandi e puri.
Evidentemente il mio viso era tutt'uno con il lenzuolo bianco.
Mia sorella indietreggiò dispiaciuta e la consola sussurrandogli parole dolci e spiegandole nel suo modo perché
sono in queste condizioni. «Sarà perché non l'ha mai vista cosi.» Dice infine a mia madre.
«Vuoi dormire vero? Non ce la fai?» continua mia cugina. Annuisco piano e la vedo indietreggiare. Non volevo essere maleducata, ma sono appena uscita da una sola operatoria e mi sto impegnando realmente a nascondere tutto il dolore che provo. Come quella volta che morì mia nonna. Mi sforzo di non piangere, resisto alle intemperie che si celano dentro di me.
«Ormai affronta tutto con pazienza.» Confermò mia madre guardandomi, poi si nasconde giusto in tempo per nascondere una lacrima.
«Hai ragione, povera piccola» la sostiene Camille guardandomi con gli occhi tristi.
Era vero. Ormai mi ero rassegnata appena il medico mi aveva fatto vedere sul monitor di nuovo quella formazione. Era inutile rinnegarlo, rimpiangermi addosso o fare qualsiasi altra cosa. Avevo subito capito che dovevo operarmi e attendere solo il tempo che risposte riusciva a darmi riguardo alla mia salute. Ero rassegnata a qualsiasi cosa volevano farmi.
Apritemi, strappatemi via il cancro, fatemi tutto quello che volete. Tanto io la mia vita la stavo vivendo consapevole che la vita dopo al cancro è un miracolo. Ho vissuto a pieno e ho trovato il picco in Daniel. Bastava lui. Non avevamo bisogno di questo ma tanto ormai, pazienza.
«Ce la fai a sentire Daniel? sta chiamando continuamente. Tu non lo sai ma sei stata quattro ore in sala operatoria. Hai fatto spaventare tutti.» certo che ce la faccio. Risponde il mio cuore.
Ma pian piano che parlava mia sorella, la sua voce sfumava e scompariva nel buio celato dietro i miei occhi.
Non vedevo, non sentivo e non percepivo più nulla oltre l'oblio.
***
Appena apro gli occhi, tutto ciò che mi ruota intorno non è altro che una sagoma indistinta e offuscata, ma pian piano, ogni forma familiare viene nitida a galla. Sento un chiacchiericcio di fondo e mia madre è girata di spalle ma non so come, sobbalza e si volta verso di me.
Il volto di mia madre, pieno di rughe mi guarda. Indossa la maglia rossa della mia infanzia, la stessa che porta da anni nell'armadio. Si volta e mi guarda per poi accennarmi un sorriso.
È rassicurante, calmo, senza pensieri. Non come quelli tirati che mi faceva qualche giorno fa. Questo è un sorriso vero.
Mi guarda in viso attentamente con un sorriso che sa di cose belle. Di felicità.
Evidentemente il Dottor William o qualche infermiera l'ha rassicurata perché non è agitata. Mi guarda e non mi parla.
Non succede spesso, insomma mia madre è un tipo che parla tanto, troppo.
Mi lascio di nuovo andare in un sonno profondo senza che me ne renda conto perché quando riapro gli occhi, tutto è cambiato.
E' notte fonda, le altre pazienti che chiacchieravano fino a prima ora stavano dormendo e mia madre è distesa sulle mattonelle fredde dell'ospedale con solo una coperta di lana a dividere il suo corpo supino dal pavimento.
La guardo, mi piange il cuore. Dormo ancora. Ma questa volta, decido di farlo io perché non ho le forze di vederla cosi.
«Mamma, alzati e vieni qui con me.» le sussurro ma nessuno sembra sentirmi. Con la mano senza il lavaggio decido di strapparmi via dalla testa il cuscino e subito serro le labbra al dolore sordo che mi provoca la pancia per ogni mio movimento.
Lancio maldestramente il cuscino a terra quanto più vicino a mia madre e scivolo di nuovo via dalla realtà. Alla ricerca di uno spazio nello spazio fatto per me.
Apro di scatto gli occhi, non so cosa esattamente mi ha riportato alla realtà. La prima cosa che vedo è un carrellino imbottito di medicinali, siringhe, garze sterili e altre cose che non riesco a vedere.
Due infermiere che non avevo mai visto si dirigono verso il mio letto facendo svegliare Camille, Jessica e mia madre che si alza di scatto dal pavimento.
«Terapia.» informano prima di avvicinarsi a me e iniettarmi una siringa sulla spalla destra frettolosamente. «Tranquilla, questo è per proteggere lo stomaco.» annuncia prima di iniziare a preparare un'altra siringa velocemente.
«Sai girarti?» scuoto lentamente la testa abbassando lo sguardo per la vergogna e per l'occhiata preoccupata che mi lancia mia madre.
No mamma, non ci riesco ancora.
Senza fiatare tutte e due mi spostano di peso e mi fanno mettere sul fianco, con il viso rivolto al muro bianco.
Sussulto sentendomi tirare tutto l'addome e quasi salto quando l'ago entra a contatto con il mio fondo schiena.
«No. Non fare cosi. Non devi muoverti.» dice una di loro, quella bionda con gli occhi piccoli e il neo sulla guancia. Mi rigirano, un'altra siringa e si allontanano preparando una bacinella.
«Sai lavarti da sola o ci pensiamo noi? Hai canalizzato?»
«Mi lavo da sola.» sentenzio solo. Loro annuiscono contente e continuano il loro giro di terapie mentre io mi guardo intorno. Sospiro e con il braccio dolorante per la flebo mi alzo lentamente a sedere.
Una fitta che parte dallo stomaco e arriva al cuore mi fa rimpiangere di averlo fatto ma resisto. Sto bene a sedere per non farmi tirare i punti e noto subito il viso di mia madre illuminarsi.
Corre a chiamare il Dottore quando vede il mio volto confondersi con una smorfia. Nel frattempo guardo il vetro slavato che mi concede di vedere un pezzo di cielo.
''Siamo sotto lo stesso cielo.''
Penso guardando il pezzo azzurro che è sopra ai nostri tetti. Sospiro nonostante mi costi tanto farlo e resisto. Resisto perché alla fine, tutto mi porterà a lui. Perché alla fine esiste, anche se ora è a più di settecentocinquanta chilometri di distanza, lui esisti. Noi esistiamo.
Ci siamo trovati, dopotutto e dopo tutti.
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