Boat
Come promesso, andai con Dora a prendere la graziosa agenda della vetrina di quel piccolo negozio ad angolo.
Dora aveva tanto insistito affinchè fosse un regalo da parte sua e, non soddisfatta, aggiunse alla spesa anche una piccola penna a sfera, rigorosamente blu, con un piccolo delfino grigio adagiato sul termine della stessa.
Ero decisamente pronta per salpare verso l'ignoto, con lo stomaco che masticava trepidazione.
Mi incamminai incerta verso il centro di Eden e varcai la porta con le dita conficcate nel palmo.
«Maui», sentii ululare alla mia destra, «Maui!». Eden sventolava il braccio destro mentre richiamava la mia attenzione.
«Ciao, Eden», scoccai un sorriso.
«Sei pronta?»
«Insomma»
«Come sarebbe "insomma"?»
«Beh, è la prima volta che mi addentro nel pacifico a bordo di un motoscafo, con la responsabilità di salvare l'innocenza dei mari... concedimi il timore di poter sbagliare», ribattei con un sorriso timido.
Per non parlare del fatto che se avessi oltrepassato la linea d'errore, lo squalo mi avrebbe fatto pentire di essere li, in quel preciso istante, a tentare anche solo lontanamente di poter avere uno spazio tutto mio all'interno di quella meravigliosa squadra.
Eden rise e mi picchiettò la spalla con il palmo della mano «Forza, ragazza! Lasciati il tempo per imparare i trucchi del mestiere», poi strizzò l'occhiolino e concluse «Non ti avrei mai voluta in equipe se non avessi avuto fiducia in te».
Sorrisi imbarazzata, apprezzando le sue ultime parole. E con i polpastrelli incollati al palmo della mano, un pugno chiuso che racchiudeva tutta la mia insicurezza e adrenalina di quell'istante, seguii i passi di Eden, che picchiettavano il pavimento nella direzione dei motoscafi.
«Vieni, ti mostro la nave con la quale salperete», disse Eden, mentre l'utilizzo della seconda persona plurale mi spaventò inverosimilmente.
Partire con lui sarebbe stato decisamente molto più formativo e gradevole, pensai tra me e me.
E in quella scissione tra l'entusiasmo e l'inquietudine, mi feci guidare verso il mezzo che mi avrebbe accompagnata laggiù, in quel punto lontano d'oceano che ammiravo dalla riva.
«Vedi, è forse una coincidenza?», riprese Eden sorridendo, mentre con l'indice indicava il motoscafo, «la barca di Dion ha il tuo nome: Maui».
Speravo fosse un dannatissimo scherzo.
Invece le quattro lettere del mio nome brillavano – davvero - vigorose sul bordo della barca, composte da linee d'orate.
Ci mancava soltanto di condividere il nome con uno degli oggetti – probabilmente – più cari di quel detestabile stronzo.
«Che caso!», risposi nella parentesi curva di un sorriso imbarazzatissimo, mentre la mia gamba destra picchiettava avanti e indietro all'impazzata.
I nervi erano racchiusi in un fascio tesissimo, ed io avrei voluto soltanto aver avuto un badile nel mio zainetto per scavarmi una fossa profonda in cui ficcarmici dentro.
Così, abbracciata ad un'avventura che avrei dovuto vivere con estrema serenità, mi ritrovai alla ricerca di una porta dove poter fuggire il più lontano possibile.
E nella stanza rumorosa quale era la mia mente, scazzottavano domande d'ogni sfumatura e colore: Come reagirà quando mi vedrà?
Mi darà l'occasione di imparare?
O mi lancerà in mare come spuntino per gli squali?
Ma la verità è che io ero già un'innocente e facile preda, la sua – destinataria di un odio che non avevo chiesto di ricevere.
Poggiai gli occhi sulla barca.
«È davvero molto bella», esclamai con un filo di voce.
Abbandonai i pensieri per ammirare la bellezza che si faceva spazio tra onde. Quella barca era un tutt'uno con l'oceano, cullata dalle sue morbide onde, si intravedeva a malapena la riga sottile che separava i lati dell'imbarcazione - blu cobalto – e l'acqua sottostante.
A poppa si ergeva maestosa la bandiera delle Hawaii, mentre ai lati venivano raffigurate le quattro lettere che davano il nome al mezzo: M-A-U-I.
E lì, in quel frangente di vita, mi sentii toccata nell'intimità, dal sogno che portavo nel cassetto e che stava diventando una realtà tutta da vivere.
«Vieni, te la mostro», mi invitò Eden attraversando la passerella che portava direttamente sopra la splendida Maui.
«Ecco, vedi», continuò, «Qui potrai mettere le tue ciabatte», disse aprendo un piccolo vano.
«Dion è molto rigoroso su questo, solitamente non ama che le persone camminino sulla sua barca con le calzature», disse strizzando l'occhiolino.
Non fece in tempo a terminare la frase, che il mio ginocchio si era già flesso affinchè io potessi sfilarmi la ciabatta.
«No... ferma», mi ammonì Eden sorridendo.
«Per questa volta, faremo un'eccezione... non sarò certo io a dirlo a Dion».
Giunse i polpastrelli del pollice e dell'indice, passando quella giunzione sulle labbra, ad indicare che dalla sua bocca non sarebbe uscita mezza parola in merito.
«Vieni, ti mostro una cosa».
Seguii i suoi passi che si posarono gradualmente sui quattro scalini in discesa, fino a giungere in una cassa rimbombante situata nella parte inferiore della barca.
«Qui c'è un letto», indicò un materasso sul quale si adagiavano due cuscini e delle lenzuola.
«Capita spesso che ci siano delle battute notturne o delle trasferte», continuò puntando il dito su una vecchia mappa, affissa ad una grossa tavolozza di sughero e affollata da numerose puntine rosse, blu e gialle.
«Guarda...dalla nostra isola a Molokai sono circa 50 km...mentre Lanikai e Maui sono più distanti», disse voltandosi verso di me «...ma non per questo non raggiungibili».
«Non dovrò condividere le mie notti con Dion, vero?», chiesi imbarazzatissima.
Eden si limitò a srotolare l'imbarazzo in una sonora risata.
«No, non preoccuparti»
«Laggiù non morde», disse indicando la linea dell'orizzonte che piegava in due l'acqua e il cielo.
Poi mi rivolse uno sguardo, mentre le sue labbra si sciolsero in un movimento di compassione.
«Il mare è l'unico elemento a far da cuscino alla sua rabbia».
«Allora perché non lasciarlo laggiù per sempre?»
Quelle parole scivolarono fuori dalla mia bocca ad una velocità così infinitesimale da non poterle controllare. Il pensiero si trasformò subito in un suono, ed era troppo tardi per ritirare ciò che avevo appena detto.
A suo padre.
Insomma, mi stava dicendo che l'oceano era come l'acquasanta per lui. Se fosse servita per esorcizzare, chi eravamo noi per non donargli il diritto di avere uno spazio in cui avere un po ' di sanità mentale?
Eden percepì il mio silenzio, che si sdraiava su un tappeto di imbarazzo per quanto appena detto, e rise nuovamente.
«Hai ragione... Non sai quante volte avrei voluto lasciarlò laggiù, negli abissi», sorrise.
Conclusi facendo fare capovolta alle mie pupille, che si erano concesse un momento in cui rivoltarsi in verticale verso il cielo, come a dire: in che disastro ti stai cacciando, Maui?
«Ogni membro dell'equipe ha i suoi metodi, le sue strategie per lavorare al meglio», continuò eden grattandosi il retro del capo, «capirai quindi che sarà Dion stesso a darti le istruzioni per il salvataggio».
«Forse per il mio, di salvataggio», abbassai il capo bisbigliando «dopo che mi avrà gettata in mare a sangue freddo».
«Cosa, cara?»
«No, niente»
«Se non hai altre domande, ti farei venire un attimo nel mio ufficio per prendere l'attrezzatura e firmare i fogli dell'assicurazione».
Scendemmo dalla barca e Eden mi fece strada verso la sua scrivania, dove adagiava un sacco in yuta bianca con ricamato il logo dell'azienda.
«Qui troverai il necessario: maschera, boccaglio, pinne, tuta da immersione, bombola, retino, corde, guanti, giubbino di salvataggio e borraccia, divisa con maglia, felpa, pantaloni lunghi e corti, kwai...ci dovrebbe essere tutto».
Poi Eden si guardò un attimo intorno, alla ricerca di qualcosa che sembrava avesse dimenticato «Eccolo!» disse dopo aver aperto un cassetto scricchiolante.
«Il binocolo», disse appoggiando lo strumento sul piano liscio della scrivania.
Wow, erano davvero tantissime cose, e mi ci sarebbero voluti giorni per capire l'utilità di ogni singolo oggetto. Alcuni erano famigliari, altri alquanto sconosciuti.
Però, insomma, chi non avrebbe desiderato possedere quel kit che preannunciava l'ingresso in una professione pazzeschissima?
Sapevo che ogni frammento di quell'attrezzatura mi avrebbe accompagnata in attimi incredibilmente viscerali, ed io, immota, non vedevo l'ora che la mia pelle si lasciasse abbracciare dalla patina in neoprene che componeva quella costosissima muta da sub.
Il tessuto si lasciava adornare da delle sfumature che passeggiavano lente dal viola ametista al blu oltremare, fino a perdersi in un prato di pigmenti neri come la fuliggine: lì, tutto nero, intorno al petto, dove si ergeva maestosa la scritta: SOS ABYSS.
«Da quella parte c'è un bagno, Maui», mi invitò Eden verso una porta bianca lattice.
«Puoi cambiarti qui dentro», aprì la porta.
«Quando sei pronta ti accompagnerò alla partenza»
«Grazie Eden», risposi lasciando che la porta si chiudesse alle mie spalle.
Pallido e lentigginoso.
Il mio corpo davanti allo specchio sembrava un foglio di velina chiarissimo, pieghevole, leggero, uno di quelli sbiaditi che trovi nel cassetto dopo diversi anni. Lasciai che i miei indumenti scivolassero sul pavimento freddo, e la mia pelle trovò posto dentro la muta, che delineava come setole di un pennello ogni forma del mio corpo. Prima di uscire mi avvolsi la chioma dentro un elastico, raggomitolando i ricci in un nido caldo e fermo, lasciando solo due ciocche sbarazzine cadere a cascata sulle tempie.
«Sono pronta!», palesai uscendo dal bagno.
Ma quando varcai la porta, di Eden non c'era più traccia. Incastrai un occhio nel suo ufficio, per vedere se fosse tornato lì.
Niente.
C'era soltanto un silenzio troppo stretto e l'imbarazzo di dover cercare un uomo in una distesa di centinaia e centinaia di metri quadri.
Iniziai a camminare lungo i corridoi, tra le vasche, diretta verso il punto di partenza, dove ci saremmo trovati io, la barca e lo squalo. Infatti, con il cuore che pesava immensamente dentro la gabbia toracica, intravidi Eden gesticolare al di sotto del motoscafo.
Poi, dal piano inferiore della barca, spuntò una chioma nera corvino e due zigomi taglienti.
Ruvido come carta vetrata, Dion scosse la testa per sistemare i capelli sbarazzini.
La muta copriva soltanto la parte inferiore del suo corpo e, dalla linea perfetta della vita, si innalzava il suo petto - intagliato nel marmo – guarnito di china, che si disperdeva in tatuaggi maestosi che abbracciavano la pelle fin dietro le spalle, abbracciando il collo, per poi rituffarsi sotto l'ombelico e finire...
«Maui!», Eden si accorse della mia presenza e ululò il mio nome ad alta voce.
Si chinò su di me un silenzio che aveva la forma del disagio, un velo d'ingombro che aveva la forma del mio corpo.
Un corpo che stava per varcare uno spazio proibito.
Lo sentivo, il suo sguardo era così intenso che sembrava mi toccasse la pelle, e bruciava. Gli occhi di Dion ballavano confusi tra la figura di suo padre e la mia, che si stava avvicinando a pochi metri dall'imbarcazione.
Chinai il mio capo. Le mie pupille fissavano il pavimento – pessima idea, Maui.
Dannazione a me. E al giorno in cui scelsi di dedicare la mia attività extra in questo dannatissimo posto. C'erano così tante opportunità, così tante scelte, così tante altre belle persone da conoscere. Invece ero finita vittima del mio stesso sogno, che stava prendendo la forma di un incubo ad occhi aperti.
Il mio respiro s'era fatto in schegge, che si incastravano pungentemente in gola. Le unghie affondavano sul palmo della mano, e il mio petto correva all'impazzata per cercare di distendersi a ritmo di cuore – un ritmo tachicardico e velocissimo.
Anche se sapevo il fastidio che Dion provava in quel momento, ed ero consapevole del disagio che stavo provando io, l'adrenalina e la voglia euforica di salpare e correre tra le onde dell'oceano mi provocava una voglia matta di salire e mettere in moto il motoscafo.
Pronti, via, senza pensieri, senza timori. Poi il silenzio fù infranto.
«Io salpo da solo», dichiarò con fermezza Dion.
«Non se ne parla, Maui verrà con te»
«Scordatelo, papà», sgasò anidride fuori dalle narici, a tutta rabbia.
«Sulla mia barca... non sale nessuno»
«Non erano questi i patti, Dion!»
«I patti? I patti erano che io avrei lavorato per te se mi avessi lasciato salpare da solo» scagliò di tutta rabbia.
Ed io che pensavo innocentemente che, seppur controvoglia, non avrebbe mai verbalizzato il disprezzo che provava nei miei confronti, per lo più di fronte al padre.
Pensavo, o forse speravo, che in silenzio, seppur colmo di rabbia, mi avrebbe comunque permesso di sedermi silenziosamente a prua, in osservazione sua e del suo lavoro.
Non pretendevo certo che mi spiegasse in maniera impercettibile come si soccorresse una balena, o a come virare la barca, o ancora come gettare l'ancora.
Mi sarei accontentata di osservare. Anche in un sordo silenzio.
Invece lui, lì, non mi ci voleva. Ingenuo suo padre, ad aver pensato che potesse anche solo lontanamente accogliere la mia presenza.
«Fa niente, Eden », fiatai mortificata.
Non so con quale immorale coraggio mi permisi, o almeno, tentai, di pregare Eden affinchè io potessi ritrarmi da quella sgradevole conversazione e, in linea generale, da quel posto tanto stretto.
«Non si discute. O porterai Maui, o mi vedrò costretto a sequestrarti quelle», disse Eden indicando la chiave che teneva stretta tra le falangi il suo caro figlioletto.
Lo stomaco stava triturando tutto il disagio che il mio corpo poteva accogliere – e a quel punto mi accorsi di avere il fiato corto per l'imbarazzo.
Incredibile, la capacità con la quale il mio stomaco somatizzava ogni particella di spazio e tempo, stritolandomi in un subbuglio indecifrabile.
Da piccola cacciavo l'agitazione con il dolore: strappavo pellicine, capelli, morsicavo unghie fino a ricoprirmi di dolorosissimi giraditi.
La verità è che da grandi non vale.
Non è ammesso usare il dolore per cacciare il dolore.
O meglio, quando sei grande hai così tanti alfabeti a disposizione, da poter scegliere come rispondere a quel dolore, optando se tenertelo dentro o se rispedirlo al mittente.
Dion aveva sicuramente avvinghiato a sé un cruccio indigeribile, fatto di cocci di vetro, ma che puntualmente sceglieva di scagliare fuori a raffica, come fossero pallottole pronte a colpire indistintamente le persone.
«Bell'educazione, genitore» fiatò Dion disprezzante, «Ottenere qualcosa con il ricatto... come se mi prestassi a questi compromessi...».
Chinò il capo mentre sorrideva saccente dalla barca.
Fu scattante il momento in cui Eden saltò a bordo dell'imbarcazione, bloccando la mano di Dion, proprio quella in cui cingeva la chiave dell'imbarcazione.
La mia era la forma di una vita dotata di rispetto verso gli altri.
Perché se non avessi nutrito rispetto nei confronti di quel povero uomo, che si trovava ricevente di un figlio stronzo, mi sarei incamminata verso l'uscita e arrivederci a mai più.
Ma poi lessi sulle leggere rughe di Eden un incolmabile senso di colpa che si dispiegava lungo le linee del volto, mentre con suo sguardo traghettava rabbia e dispiacere dritto nelle pupille di Dion.
Sembrava una gara a chi vestiva il volto più antipatico.
Decisamente Eden che, seppur con fatica, ottenne la meglio.
La meglio, si.
Ma per lui.
Non di certo per me.
«Sali», ordinò tagliente Dion mentre continuava ad incenerire gli occhi del padre.
«Veloce. E togliti le ciabatte».
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