Baby Carrot




Le luci a led del lampadario perforavano violentemente il vetro soffiato, così esile da sembrar quasi sofferente di fronte all'intensità di quel bagliore, scagliandosi sul marmo opaco che presenziava nell'intero pianoterra dell'abitazione.

Contavo nervosamente le piastrelle puntellate che circondavano i miei piedi. Uno, due, tre... ventisette, ventotto, ventinove.

Nella cucina adiacente al salotto crepitavano le voci di Dora e Jonah e percepivo una lieve sfumatura aspra nel tono di lei. Forse suo marito aveva dimenticato il tacchino in forno il tempo necessario affinché quest'ultimo prendesse una leggera sfumatura dorata che lasciasse pensare, in maniera molto remota, a qualcosa di bruciato.

L'odore che si poggiava sulle mie narici era decisamente gradevole e le mie papille gustative scalciavano irruentemente per aver qualcosina da assaporare.

Che fame, pensai sbirciando sull'uscio della porta semi aperta che portava all'angolo cottura. Le mie mani iniziavano a sudare, facendo trasparire tutta l'agitazione che provavo per la cena imminente.

Dora aveva trascorso gran parte del viaggio in macchina, dall'aeroporto sino alla sua abitazione, a raccontarmi di quanto fosse entusiasta e trepidante la sua famiglia per il mio arrivo. Mi accennò qualcosa su dei dolci nipotini, affabili e coccoloni, ma non capii quanti fossero. Forse due, forse quattro.

Pensai a quanto mi sarebbe piaciuto avere dei cugini o dei fratelli con cui trascorrere le mie giornate sulla neve o in barca con papà. Invece le uniche conoscenze che avevo acquisito durante la mia breve vita da ventenne, furono sostanzialmente due. O forse una e mezza.

La vicina di casa aveva guadagnato solo mezzo punto, e converrete con me che, dopo le secchiate d'acqua prese in testa per il troppo schiamazzo, non era certamente in cima alla lista delle mie simpatie.

Sia chiaro, non ero pazza a tal punto da far chiasso da sola. Però, ogni tanto, qualche randagio del quartiere veniva a divertirsi nel mio umile giardino innevato giocando con palline e sbaffandosi qualche osso avanzato la sera precedente.

L'altra, invece, fu l'unica vera amica, o almeno qualcosa che si avvicinasse realmente a quel termine. Il suo nome era Serafina.

Era. Perché un giorno mi recai a scuola e il suo banco era vuoto. Così come il giorno dopo, e quello dopo ancora. Qualcuno diceva che la madre della ragazza avesse fatto un'amante all'est, altri che fossero tornati in Germania dai nonni.

Per me rimase un mistero irrisolto. Di Serafina non ebbi più notizie.

I miei pensieri furono punzecchiati dal suono pungente del campanello che strillò ad intermittenza per troppo tempo. Un lunghissimo e fastidioso minuto che terminò nel momento in cui Dora, con la mano destra rivolta al soffitto, sventolando un canovaccio lilla, si diresse a passo celere verso la porta d'entrata.

La aprì sfoggiando un appagato sorriso nella mia direzione, strizzandomi l'occhiolino.

Diamine. Era veramente elettrizzata. Io, paragonata a lei, sembravo l'Inno alla Gioia di Beethoven in una locale funky. Fuori luogo, fuori posto.

«Oh i miei bei nipotini» la quarta sillaba di quella parola si prolungò per un lasso di tempo così lungo che i capelli dei due ragazzetti, che la donna teneva tra le braccia nella medesima maniera in cui io stringevo il mio orsetto di peluche a tre anni, diventarono brizzolati.

L'immagine graziosa della zia che stritolava i figli del fratello venne superata da quest'ultimo che varcò l'entrata con un fascio di tulipani dalla gradazione albicocca tra le mani.

Ci volle qualche secondo prima che mi inquadrasse nell'enorme salotto ma, non appena appoggiò lo sguardo sulla mia vulnerabilissima sagoma, lasciò cadere a rilento le braccia lungo i fianchi, continuando a stringere gelosamente il mazzo di fiori nel palmo sinistro, «Tu devi essere Maui».

Sentii la temperatura del corpo alzarsi brutalmente per l'imbarazzo e dedussi d'aver assunto la stessa sfumatura dorata del tacchino di Jonah sul mio viso puntinato.

«P-piacere» balbettai allungando la mano nella sua direzione.

«Io sono Eden» palesò il suo notevole entusiasmo allungando il fascio di vegetali arancioni verso il mio petto.

Li afferrai gentilmente cercando di evidenziare, con un sorriso, l'apprezzamento o, per lo meno, qualcosa del genere. Dal momento in cui l'unico fiore di mio gradimento erano le peonie, leggiadre, vellutate e dalla nuance tenue, concorderete con me che quei tulipani erano un pugno nell'occhio.

«Si abbinano ai tuoi capelli» continuò Eden puntando l'indice sulla mia chioma e lasciandosi scappare una ghignata. Probabilmente pensò d'apparire simpatico e divertente.

Invece immaginò male. Come un criceto, per intenderci.

Mi imposi di non rispondere a quell'affermazione con parole scortesi quindi, simulando con disinvoltura di non aver sentito le sue ultime parole, volsi lo sguardo verso l'elegante donna che entrò a passo spedito nell'abitazione.

Aveva le sembianze di una venerabile dea e i suoi lunghi capelli cenere mi fecero subito pensare alla seducente Afrodite. Sottili fili di seta cadevano in una cascata dorata sul prosperoso seno che intravedevo al di sotto dalla camicetta color perla che indossava.

Portava degli informali jeans a zampa d'elefante con talmente tanta disinvoltura e grazia, da farli apparire eleganti. Probabilmente, se fossi stata nei suoi panni, letteralmente, io sarei sembrata un bonsai di ficus. Basso, monco e pure larghino.

Il taglio di quel pantalone la rendeva più alta di quanto non lo fosse realmente e io mi sentii un nano da giardino forgiato nella ceramica grezza, slavato e abbandonato a sé stesso in un giardino di sterpaglie.

«Piacere, io sono Dalia» disse piegando le labbra all'insù, in un colorito ricciolino d'allegria. Gli occhi le si illuminarono e scorsi una scintilla di lucidità sulla cornea.

La guardai esterrefatta per la bellezza con cui era stata modellata accuratamente.

«Io mi chiamo Maui. Piacere».

Fu la prima persona, in quella casa, a cui mostrai un sorriso leale e sincero, il medesimo che lei riservò a me. E tutto apparì un po' meno discosto, la fredda estraneità che provavo sembrava dissolversi gradualmente lasciando un margine maggiore a sentimenti colorati, caldi.

«Loro sono Hadley e Jace». La donna mi indicò due bambinetti, con gli occhi castani e briosi che erano riusciti scaltramente a distogliersi dalle braccia e dalla boccuccia arcuata a bacio della zia Dora.

Le piegature ilare intorno alle palpebre si ricongiungevano in due simpatiche fossette sulle guance, che adornavano il sorriso caldo che si erano stampati in viso da quando varcarono l'uscio.

Uno era decisamente più grande dell'altro, di almeno un paio d'anni.

Intravedendo un'accentata sfumatura ramata tra i capelli corposi dei due soggetti di fronte a me, mi sentii meno sola nel mio mondo color carota.

«Io sono Jace» pronunciò il ragazzetto più alto mentre veniva spinto fastidiosamente dal minore. Per pochi centimetri non spiaccicò il suo volto contro il mio seno.

Chiamare quei due puntini d'oca "seno" era un eufemismo, tuttavia sognavo in grande.

«Ci sono prima io. Levati!» ululò il fratello più basso tirando una gomitata apparentemente dolorosa nel fianco del povero Jace.

«Mi chiamo Hadley, e tu?» cinguettò, «Sei Maui? Ho indovinato, vero?».

Cercai di cogliere quell'attimo in cui il piccoletto ricongiunse le sue labbra per potermi presentare, ma non me ne lasciò il tempo.

«Hai fame, Maui?...Io si. Mangiamo?» e aprendo un sorriso mezzo sdentato come fosse un ventaglio di piume turchesi, prese la mia mano e mi trascinò al tavolo, premendomi sulla sedia accanto alla sua «Io sto vicino a te», concluse.

L'aria disinvolta di quel bambino, che sorrideva al mondo mostrando a tutti quanto fossero luminosi i suoi occhi e quanto fosse immensa la felicità dentro quell'esile corpicino, mi fece sentire appagata.

Lo fissai profondamente mentre, molto orgogliosamente, squadrava il mio viso. Non amavo essere osservata, tuttavia avevo la convinzione che lui non si fosse soffermato davanti al mio pallore e due lentiggini piovute su tela, ma stesse cercando dentro di me la bambina con la quale avrebbe gradito tanto giocare in quell'istante.

E la trovò.

«Dopo, io e te, ci divertiamo insieme» proposi ad Hadley.

Assunse una sfumatura magenta, probabilmente dovuta all'emozione che gli provocò la mia affermazione e senza proferire una singola parola, batté rapidamente i palmi delle sue mani tra di loro molto insistentemente.

Non sembrava che gli altri stessero prestando troppa attenzione alla scena che mi vedeva protagonista con quel bizzarro funghetto di nome Hadley.

Infatti, quando alzai il capo mettendo a fuoco le altre persone all'interno del locale, le vidi comunicare tra di loro.

Dalia stava porgendo una bottiglia di vino tra le mani di Dora, mentre il fratello di quest'ultima commentava con il cognato qualche partita di uno sport a me sconosciuto.

Jace si era adagiato sul divano e stringeva il telecomando tra le dita della mano destra, mentre cercava assiduamente il canale che trasmettesse qualcosa a lui gradito.

Non lo trovò «Mammaaaaaaaa, ho fame!».

Anche io, Jace. Anche io. Furono quelle le prime parole che mi vennero in mente.

Il mio stomaco ululava. Avevo rifiutato un dolce frutto da parte di Dora qualche ora prima e, ovviamente, la fame iniziava a farsi sentire insistentemente, formicolando sulle pareti della gola.

«Dion farà tardi» cinguettò Eden voltandosi verso la sorella «Iniziamo a cenare».

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