CAPITOLO 5
(COLTON)
"Colton"
"Per lei agente Cooper" tengo lo sguardo fisso sull'uomo davanti a me faticando parecchio a trattenere trent'anni di rabbia nei suoi confronti.
Scruto i suoi occhi in cerca di una scintilla di senso di colpa ma trovo il nulla, soltanto due pozzi neri e vuoti; una parte di me, quella irrazionale, quella ferma ancora a quando ero bambino è inondata dal dolore e dalla delusione ma razionalmente sapevo cos'avrei letto nel suo sguardo ancora prima di incontrarlo.
"Mi segua" mi avvio verso un ufficio vuoto ignorando gli sguardi curiosi dei miei colleghi; sono consapevole di ciò che passa loro per la testa, molti conoscono la mia storia per via di mio zio ed ora vedermi con quest'uomo deve averli sconvolti.
Una volta dentro l'ufficio mi volto in direzione di mio padre, ho talmente tanta confusione nella testa che non so cosa dire e più lo guardo e peggio è; ad ogni secondo di sua gelida compostezza, la rabbia che mi attanaglia lo stomaco risale in gola come bile.
"Perché sei qui?" queste poche parole intrise di odio non sembrano scalfirlo; mantiene la sua espressione di totale indifferenza, sembra quasi che si trovi davanti a un comune poliziotto e non a suo figlio.
"Ho bisogno di aiuto" scoppio a ridere, una risata finta e studiata mentre sento addosso il peso del suo sguardo.
"Davvero? Cos'è, hai scoperto che sono un poliziotto e sei nei casini?" sorrido amaramente e scuoto la testa, non posso credere a quello che ho appena sentito.
"Non sono nei casini" non sono tanto le sue parole a farmi uscire di testa, quanto la totale assenza di emozioni, niente rimorso o dispiacere per ciò che ha fatto.
"Mi prendi per il culo?" sobbalza quanto sbatto la mano sulla scrivania e prova a parlare ma lo interrompo subito.
"Anche io avevo bisogno di aiuto, avevo bisogno di un padre e indovina? Tu non c'eri, sei sparito amcora prima che nascessi, hai lasciato mia madre a cavarsela da sola, aveva soltanto sedici fottutissimi anni" sono consapevole di aver urlato ma ormai sono fuori controllo, il risentimento ha preso possesso di ogni singola cellula del mio corpo.
"Ve la siete cavata però, tua madre ha fatto un buon lavoro" non finisce la frase che si ritrova attaccato al muro, la mia mano che stringe la sua camicia, il mio viso a pochi centimetri dal suo.
"Mia madre è morta, l' hanno uccisa quando avevo dodici anni e in quel momento avrei tanto voluto un padre che mi stesse vicino" soltanto dopo queste parole vedo finalmente una reazione da parte sua, soltanto un attimo di confusione che scompare immediatamente.
"Non lo sapevo" mi allontano da lui respirando profondamente e tentando di riprendere un minimo il controllo; il desiderio di tirargli un pugno per vendicare mia madre e il bambino che sono stato è talmente forte che mi fa quasi paura.
"Non potevi saperlo, eri a farti i cazzi tuoi fregandotene di tuo figlio" lo inchiodo con lo sguardo, voglio proprio sentire se ha il coraggio di trovare una giustificazione per tutto.
"Ero giovane, prova a capirmi" bella scusa del cazzo, è proprio un idiota, con le parole e con lo sguardo cerca della fottuta comprensione da parte mia
"Anche mia madre lo era e anche Soraya quando mi ha preso con sé quando non avevo più niente al mondo, la differenza tra te e loro è che tu sei un codardo" mi interrompo un attimo e poi riprendo.
"Tu, dopo trent'anni, hai il coraggio di venire da me e speri davvero che io ti aiuti? Come cazzo fai a guardarti allo specchio?" nelle mie parole è presente tutto il dispezzo che provo per l'uomo che ho di fronte.
So che vomitargli addosso la mia ira non servirà a fargli aprire gli occhi su ciò che ha fatto ma almeno servirà a me, servirà a togliermi un peso che porto da troppo tempo, un pensiero che nel corso degli anni si è ripresentato innumerevoli volte.
"Mi dispiace" mente, non c'è neanche una minima traccia di dispiacere nei suoi occhi, questa sua ammissione è soltanto una messinscena e capire ciò mi fa provare un dolore fisico al petto, come un coltello che viene girato infinite volte nella ferita.
A mio padre non frega niente di me, oggi come allora.
"Forse qualche anno fa ti avrei creduto ma adesso no, ascolta bene le mie parole" punto le mani sulla scrivania per sopprimere la tentazione di mettergliele addosso, di nuovo.
"Sparisci dalla mia vita, non voglio aver niente a che fare con te" non gli lascio la possibilità di replicare, esco dall'ufficio sbattendo la porta e soltanto una volta nello spogliatoio concedo alle mie emozioni di emergere.
La rabbia bruciante lascia il posto alla delusione, mi sento un idiota per aver nutrito una piccola e irrazionale speranza che lui davvero fosse qui per me.
Nella mia testa mio padre era un uomo debole, mi sono voluto convincere che fosse un disperato , magari dipendente da alcol o droghe, lo immaginavo trasandato e nullatenente ma adesso mi rendo conto che erano tutte stupide fantasie che il mio inconscio creava per trovare una giustificazione al suo comportamento.
Quello che ho visto poco fa è un uomo completamente diverso, è un uomo normalissimo, lucido e perfettamente consapevole di aver fatto una cazzata ma così menefreghista ed egocentrico da non provare un minimo di rimorso.
Mi osservo allo specchio e rimango sconvolto nel notare i miei occhi lucidi e arrossati, sono passati parecchi anni dall'ultima volta che ho pianto di tristezza e adesso fatico a trattenere le lacrime; non piango per mio padre, piango per mia madre e per il bambino che sono stato.
Ci sono stati tanti momenti difficili, ricordo perfettamente la sensazione che provavo da piccolo quando qualcuno mi chiedeva perché non avevo un papà; per molto tempo mi sono sentito incompleto e spesso anche in colpa per la sua assenza ed è per quel bambino e per ciò che provava che ora piango, perché non è mai stata colpa sua.
Ci metto qualche minuto a calmarmi e quando finalmente le mia mani smettono di tremare mi sciacquo la faccia ed esco dallo spogliatoio, ad aspettarmi c'è Olivia che mi rivolge uno sguardo pieno di domande.
"Stai bene?" provo a rassicurarla ma mi conosce troppo bene e non crede neanche per un attimo alle mie stronzate.
"Se hai voglia di parlarne sai che io ci sono" annuisco mentre tiro fuori dalla tasca il cellulare, ha vibrato durante tutto l'incontro con mio padre.
Quando leggo chi mi ha chiamato ma sopratutto il numero di chiamate che ha fatto rimango interdetto e subito la mia mente inizia ad immaginare scenari terribili. Sette chiamate perse da Lizzie in pochi minuti.
Con il cuore in gola faccio partire la chiamata e l'attesa sembra interminabile.
"Colt devi venire al Northwestern, devi vedere una cosa" a giudicare dall'angoscia che sento nella sua voce so già che ciò che vedrò non mi piacerà, affatto.
(LIZZIE)
Non appena Colt è uscito da casa mia ho capito di essermi comportata da idiota.
Sono consapevole che lui non avrebbe mai fatto l'amore con me da ubriaco, non nella situazione in cui ci troviamo ma quando Antonio mi ha detto che l'aveva visto bere la mia mente è tornata indietro di anni.
Avevo dicassette anni e uscivo da qualche settimana con un ragazzo, stupidamente gli ho concesso la mia verginità nella sua auto dopo una festa durante la quale avevamo bevuto entrambi qualche bicchiere di troppo; il giorno dopo, a scuola, sono andata a salutarlo mentre parlava con i suoi amici e ricordo ogni singola parola che mi disse come se fosse successo ieri.
"Cosa credevi? Avevo scommesso che sarei riuscito a portare a letto la regina delle frigide e ho anche avuto bisogno di alcol per trovare il coraggio" ai tempi ringraziai Colt per avermi insegnato a tirare pugni, quella volta mi è stato utile.
Ecco quale episodio mi è tornato alla mente questa mattina, la parte irrazionale di me ha preso il sopravvento ma ho subito capito che ciò che è successo questa notte non è neanche minimamente paragonabile allo schifo di anni fa e adesso mi sento tremendamente in colpa.
Credo che questa sera passerò da Colt, gli chiederò scusa e gli spiegherò perché ho reagito così; non ho nessuna intenzione di dimenticare la notte appena passata anzi, voglio vedere a cosa ci porterà questa cosa, sono certa che comunque andrà ne varrà la pena.
"Siamo arrivati, Signora Morgan" sorrido all'anziana di fronte a me, é una donna minuta ed elegante ma sopratutto molto simpatica.
L'ha trovata il suo vicino, stesa a terra sul marciapiede davanti a casa e ha subito chiamato il 911.
La prima cosa che la signora ci ha chiesto, una volta caricata in ambulanza e stabilizzato il bacino e la gamba destra, è stata quando potrà riprendere a ballare e a fare attività; non ho avuto bisogno di indagare molto sul tipo di attività a cui si riferisse, l'espressione sorniona che aveva sul volto mi aveva già detto tutto, per un attimo mi è sembrato di essere a Verity ed avere di fronte mia nonna.
"I miei due paramedici preferiti, cos'abbiamo?" Carol, caposala del reparto di emergenza e mia amica ci raggiunge e ci da indicazioni su dove spostare la signora.
"Ava Morgan, settan'anni, l'abbiamo trovata davanti a casa sua, sospetta frattura del femore destro" dopo aver spostato la signora Morgan dalla barella al letto a lei destinato ed averla lasciata nelle mani di due specializzandi, Carol mi si avvicina guardandosi intorno.
"Liz, non dovrei ma, ascolta bene le mie parole, è necessario" scandisce le ultime parole e sta praticamente bisbigliando, faccio fatica a sentirla nonostante sia soltanto a una decina di centimetri da me.
"Cosa sa Colton di suo padre?" la guardo confusa, cosa c'entra il padre di Colton adesso?
"Niente, in questi giorni quell'uomo ha provato a mettersi in contatto con lui ma Colt non ne vuole sapere, perché?" la vedo trattenere il respiro per qualche secondo mentre nella mia testa si accumulano domande su domande.
"C'è qualcosa che devi vedere" mentre Carol mi trascina verso uno dei box, un' ipotesi di chi ci sia dentro prende piede nella mia mente.
Una malattia spiegherebbe le chiamate di Brown e il desiderio di conoscere suo figlio.
La prima persona che vedo è una donna sulla quarantina, è seduta accanto al letto e si asciuga le lacrime con un fazzolettino ma è la persona nel letto a lasciarmi letteralmente senza fiato.
I suoi capelli scuri e mossi, gli occhi neri e lo sguardo perso, identico a quello che ho visto numerose volte sul volto del mio migliore amico, persino il naso ha la stessa impercettibile gobba e i lineamenti, già così marcati nonostante la giovane età; la persona che ho davanti l'ho già vista, tredici anni fa.
Quando incrocio il suo sguardo attraverso la porta a vetri, il ragazzino mi sorride mestamente e io contraccambio cercando di nascondere lo sgomento.
"Come si chiama?" la voce mi esce sottoforma di sussurro e quando Carol mi dice il suo nome ho tutte le conferme che mi servono.
Mi tornano in mente le parole di Carol, "è necessario"; vorrei davvero sbagliarmi, ma credo di avere di fronte il motivo delle telefonate di Brown a Colton.
In preda alla confusione, sto provando a chiamare Colt sul cellulare, se sta succedendo quello che penso ha tutto il diritto di sapere ma il mio migliore amico non risponde e quando Antonio si avvicina sono quasi tentata di chiedergli di passare dalla caserma.
Quando il mio telefono suona e leggo il suo nome sullo schermo, respiro profondamente nel vano tentativo di fermare il mio cuore al galoppo e rispondo.
"Colt, devi venire al Northwestern, devi vedere una cosa".
Olaaaa❤️❤️
Da dove cominciamo?
Colt e David... Non so voi, ma l'atteggiamento di David mi fa sbarellare e non biasimo il nostro poliziotto per non aver voluto sentire ragioni!
E poi...
Abbiamo una spiegazione sul comportamento di Lizzie e le sue intenzioni nel parlare con Colt sono buone ma....
Credo che debba rimandare, perché un nuovo personaggio sta per entrare in scena....
Vi aspettavate un risvolto simile?
Fatemi sapere cosa ne pensate con un commento o una stellina⭐
GRAZIE❤️
PS. perdonate gli errori, pubblico dal telefono🙏🏼
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top