Capitolo I

AMELIA
Casa di cura San Michele
(Oggi)

April Shay.
Jason McCartney.

Due nomi. Due storie. Due destini incrociati. Un amore infinito.

Per settimane, mesi, entrambi non hanno fatto altro che risuonare nella mia testa come un tornado, un'ossessione.

Più cercavo di scacciarli dalla mia mente, meno loro se ne andavano.

Ricordo i sorrisi, le chiacchierate, le lacrime, tante lacrime, le urla di dolore, le loro coccole piene di speranza.

Ricordo tutto, tutto alla perfezione.

Oh, quanto vorrei poter annullare la mente, i ricordi, le esperienze vissute.

Eppure, a quanto pare, qualcuno lassù ha deciso che nella mia vita doveva succedere quel qualcosa che non si dimentica.
Qualcosa che rende una monotona routine quotidiana un vero e proprio film dell'orrore.

"Amelia, ti prego, cerca di ricordare.." pronunciò assai irritata la mia psichiatra.

"Riesci a ricordare com'è iniziato tutto? Hai notato qualcosa che non andava? È importante per noi saperlo." Continuò.

Tutti i giorni la stessa storia, la stessa tortura, le stesse domande inutili alle quali non verrà mai data una risposta.

Erano passati già tre mesi.

Tre lunghi mesi, 12 settimane o novanta giorni da quando eravamo stati ritrovati.

Nessuno era ancora riuscito a farmi parlare, nessuno.

Nè i medici dell'ospedale, nè i vari psichiatri e psicologi della comunità in cui mi hanno ricoverata e neppure le mie più care amiche o gli unici parenti lontani che mi erano rimasti.

Era da ben tre mesi che dalle mie labbra non usciva una parola.
L'ultima che pronunciai fu "Siamo qui", prima di cadere a terra in un sonno profondo, priva di sensi.

Solo lei riuscì a farmi parlare, la dolce e simpatica infermiera che vidi non appena riaprii gli occhi e che mi sostenne quando scoprii la falsa verità che si era sparsa sulle bocche della gente, ma nessuno sapeva che dalle mie labbra era uscito il flebile suono della mia voce.

Quando mi risvegliai erano passati quattro giorni mi dissero.

Ero sola, in un letto di ospedale, al braccio avevo attaccata una flebo, sul petto varie piastrine, che registravano ogni singolo battito del mio cuore.
Nelle narici due piccoli tubi, nei quali veniva mandato l'ossigeno necessario per aiutarmi a respirare.

Anche April Sahy ce li aveva.

Lei li aveva sempre, non poteva farne a meno, i suoi polmoni erano troppo malati per lavorare da soli.

La prima volta, quando la vidi, non me ne resi subito conto.

Ero al settimo cielo, disperata, ma sollevata nell'aver trovato qualche altra anima viva che non fosse un maledetto insetto o un predatore pronto a divorarmi non appena ne avesse avuto l'occasione.
Li notai, era impossibile ignorarli, quei tubi nel naso, quel carretto che era costretta a trascinarsi ovunque lei volesse andare e quella sua paura, anzi, terrore.

Eravamo spaventate, sotto shock, era successo tutto in un attimo, tutto così in fretta, non c'era stato nemmeno il tempo di razionalizzare.
Solo il forte desiderio di sopravvivere.

Ricordo tutto alla perfezione.
I rumori, le urla, la puzza insopportabile, il dolore fisico, tutto.

Ma perché avevo deciso di indire uno sciopero della parola, non lo so.
Non vi era una ragione precisa, non sapevo perché, non appena riaprii gli occhi e potei osservare di nuovo la luce del sole, segno del fatto che ce l'avevo fatta, che ero sopravvissuta, decisi di smettere di concretizzare i miei pensieri con le parole.

Forse perché, infondo, non volevo accettare tutto ciò che era successo.
Lasciarlo lì, solo nella mia testa, era un modo per illudermi che non era stato altro che un brutto incubo.

"Andiamo Amelia, sai che è importante."

Importante? Sapevo bene qual'era l'unica cosa importante per loro.

Continuavano a ripetermi che erano preoccupati per la mia salute, che dovevano aiutarmi a superare questo shock e che se ne avessi parlato mi sarei sentita meglio.

Ma erano bugie, tutte bugie.

Superare il trauma? No, sapevo bene che non lo avrei mai superato.

Nemmeno la fata turchina con la bacchetta magica avrebbe potuto rimuovere dalla mia testa tutte quelle terribili immagini che si stamparono davanti ai miei occhi o le urla terrorizzate delle persone prima di morire.

Quel che a loro interessava erano le informazioni.
Se avessi parlato, sarebbero cominciate le interviste, le pressioni, le testimonianze.
Non ero altro che uno strumento utile per i processi, per capire cosa successe davvero quella sera, per incolpare qualcuno.

Rimasi in silenzio, anche quella volta.
Dalle mie labbra non uscì nulla, se non un leggero colpo di tosse.

I minuti passavano, ne erano trascorsi ormai settanta da quando era cominciata l'ennesima tortura, anche se parevano un'eternità.

Ero seduta nella solita stanza, solite pareti color sabbia, ornate da dipinti bizzarri qua e la, solite poltrone in pelle bianco panna e solito profumo di incenso emanato da tre piccoli bastoncini situati nell'angolo della scrivania della psichiatra.

Tutti i giorni la stessa storia.
Tutti i giorni i novanta minuti obbligatori, nei quali, a turno, i vari psichiatri cercavano di estirpare da dentro di me qualche utile informazione.

Dio, come maledico il giorno in cui decisi di fare quel viaggio.
Maledico con quanta insistenza cercavo di convincere i miei genitori, finché alla fine si erano convinti che un'esperienza di viaggio in famiglia poteva essere rilassante, indimenticabile e di crescita.

Da quel giorno, il senso di colpa mi divora, giorno e notte.

Ho ucciso i miei genitori, la mia sorellina, tutto per un capriccio, un desiderio impossibile.

Anche loro, April e Jason, come me, erano rimasti da soli.

Il primo giorno, non appena incontrai April, era sola, spaventata, debilitata dalla sua malattia e priva di speranza.

Non lo diedi a vedere.
Dovevo essere forte.
Sono sempre stata stata quella forte. 
Ma quando sentii lo schianto, il dolore nella pelle, il buio totale e pensavo di essere morta, ebbi paura.
Ma avevo paura di essere viva.
Perché dentro di me, volevo solo essere morta con gli altri.

Mi voltai, ancora legata al sedile con la cintura di sicurezza, schiacciata dalle lamiere accartocciate e da diversi oggetti accatastati sulle mie gambe.
Il sedile vicino al mio era vuoto, non c'era più nessuno.

Guardai più attentamente, tastai un punto preciso con la mano e la sentii.
Era li, bagnata dal suo sangue, con la testa china e il corpo immobile.

Capii subito.
Non mi illusi che fosse ancora viva.
La guardai e vidi una ferita, grande quasi come una pallina da ping-pong sul collo, esattamente all'altezza della carotide.

Non ricordo altro di lei.
È stata l'ultima volta che vidi mia madre.

Mio padre ed Emma, mia sorella, non li rividi mai.
Erano stati portati chissà dove.
Lontani da me, per sempre.

"Amelia, te lo chiedo per l'ultima volta... Mi racconti quello che è successo?" Disse avariata.

Notavo la sua freddezza, la sua severità e ciò non faceva altro che farmi chiudere in me stessa, sempre più convinta che lei, come nessun altro, poteva essere in grado di aiutarmi.

Volevo dimenticare, dimenticare tutto, premere un tasto reset nel cervello per spedire tutti i ricordi nell'oblio, il più lontano possibile.

Sognavo e pregavo tutte le sere prima di chiudere gli occhi e cadere negli incubi, di risvegliarmi la mattina con la mente vuota, libera, senza immagini, suoni o odori a ricordarmi, in ogni istante della mia vita, ogni singolo attimo traumatizzante.

Ma non ero stupida.
Sapevo bene che era impossibile, eppure continuavo a sperare in un miracolo.
Speravo che, un giorno, tutto sarebbe tornato come prima.

Quel colloquio stava diventando sempre più insopportabile.

Sapevano bene che non avevo alcuna intenzione di parlare, che non avrei rivelato nulla a nessuno, eppure, tutti i maledetti giorni, mi trovavo catapultata nello studio di psichiatria e passavo ben novanta minuti seduta su di una poltrona, con lo sguardo basso, gli occhi quasi assenti e la mente libera di pensare a ciò che voleva.

La psichiatra guardò il suo orologio da polso.
Notai la sua faccia scocciata e lo sguardo irritato.

"Va bene, per oggi basta così." Disse.

Sante parole, non aspettavo altro.

Come da routine, sapevo che, passati i novanta minuti, chiunque si fosse trovato seduto nella poltrona di fronte a me, avrebbe smesso di insistere e, per sua gioia, avrebbe avuto il permesso di riaccompagnarmi nella mia stanza.

Percorremmo i lunghi corridoi della psichiatria, avvolti da muri grigio topo segnati da diversi buchi e graffi, dall'insopportabile odore di chiuso e dalle urla di qualche altro paziente in preda ad una crisi.

Camminavo accanto alla psichiatra.
Lo sguardo basso e fisso per non incontrare gli occhi altrui, quelli degli altri che chiamavo pazzi, ma che, infondo, erano come me.

Mi facevano tenerezza.
I loro occhi erano vuoti, il viso pallido, la pelle secca e rovinata, i capelli fuori posto e i vestiti stropicciati.
Non avevano sentimenti, emozioni, pensieri.
I farmaci inibivano ogni cosa.
Trasformavano una persona in un essere inanimato.
Cosciente, ma senza nulla dentro.

Anche io ero sotto cura farmacologica, anzi era quello che credevano i medici.
Non ho mai ingoiato una di quelle porcherie.

Ogni giorno, quando l'infermiera mi porgeva le capsule bianche e rosse, grosse come un proiettile, le portavo alla bocca e fingevo di ingoiarle, cosicché lei, ignara di un mio inganno, com'era arrivata se ne andava.
Ma non permisi mai che entrassero dentro di me.
Ognuna di essa finiva imboscata in un buco del muro della mia stanza, in pasto ai topi.

Nessuno si era mai accorto di nulla.

Non volevo trasformarmi in un ameba semivivo.
Per quanto male faceva ciò che sentivo dentro, volevo essere in grado di provarlo e sentire di essere ancora viva.

Percorso il lungo corridoio, in breve tempo, ci trovammo davanti alla mia camera.

La psichiatra aprii la porta ed entrai, per poi essere subito lasciata sola con me stessa, come sempre.

Era buio, le grate alle finestre lasciavano passare solo piccoli raggi di luce.
Le pareti erano di un lilla sbiadito, cupe, con piccole macchie di luce qua e là.
Vi era un letto in metallo adagiato accanto alla finestra e un grosso armadio a due ante sulla parete di fronte completava il mobilio.

C'era sempre puzza di chiuso.
Odiavo quell'odore, ma più cercavo di scacciarlo più sembrava venir fuori.

Mi sedetti sul letto con le gambe incrociate e la schiena appoggiata contro il muro.
Sollevai delicatamente il cuscino e presi il vecchio quaderno rosso fuoco da sotto il materasso.
Non avrei dovuto averlo con me, non era di mia proprietà, non avrei mai dovuto rubarlo.

Stavo lì, a fissare quel quaderno tra le mani, col desiderio di aprirlo, ma un nodo alla gola al solo pensiero di farlo.

Lo avevo con me da quel giorno, ma non avevo mai letto.
Avevo paura.
Sapevo cosa c'era scritto.
Ricordi, ricordi impressi dentro di me dal punto di vista di un'altra persona.
Hazel.

Dovevo farlo. Dovevo leggere.
Ne avevo bisogno.

Lo aprii.

Sulla prima pagina vi era un mandala in bianco e nero, che occupava più di mezza pagina, e sull'altra metà una scritta.

"Ricordi.. April Sahy & Jason McCartney"

Leggere quei nomi fu una pugnalata al petto.

Mi feci forza, voltai pagina e cominciai a leggere.

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