Benvenuti all'Immer Hotel

Il Monte Dolent faceva parte della catena del Monte Bianco, la sua peculiarità era di trovarsi sulla linea di unione di tre differenti stati: Italia, Svizzera e Francia. Era stato tuttavia un alpinista inglese che, alla fine del diciannovesimo secolo, ne aveva conquistato la vetta. L'uomo aveva riferito che quella montagna era stata la sua sfida più difficile, non tanto per il tipo di roccia o per l'altitudine, quanto più per la sensazione di gelo che lo aveva accompagnato durante tutta la scalata. Non la temperatura rigida dovuta all'altitudine a cui era abituato, ma qualcosa che entrava sotto pelle e faceva tremare. Portava con sé la certezza che la sua vita fosse sempre in pericolo, e non a causa dell'ambiente ostile della montagna. Il presentimento di una tragedia imminente era culminato con la perdita dei tre compagni di scalata, precipitati in un dirupo del Ghiacciaio del Dolent. L'alpinista inglese, sopravvissuto ai suoi compagni, era stato trovato in stato confusionale mentre vagava tra le case diroccate del borgo San Candido: un piccolo gruppo di strutture in pietra abbandonate all'usura del tempo.

«Un torrente freddo scende dalla cima, attraversa la città dei fantasmi e porta il male fino a valle. Sono morti tutti. Ogni cosa è fredda e immota» aveva detto a chi lo aveva soccorso. «Nessuno di loro lascia questa maledetta montagna». Lo shock di aver visto cadere i compagni lo aveva turbato, o forse a sconvolgerlo era stato qualcosa di più profondo e incomprensibile.

Quella storia era entrata a fondo nell'immaginario degli abitanti della valle, soprattutto per la triste fine dell'uomo, tanto che tutti avevano continuato a chiamare la cima come l'aveva soprannominata lo sfortunato alpinista: Cold Creek. Il torrente freddo a cui lui faceva riferimento, ghiacciato per molti mesi durante l'inverno, correva dalla cima fino a valle e serpeggiava attraverso l'antico borgo abbandonato di San Candido, dove erano terminate la sua scalata e la sua vita.

Quando la cabina della funivia si aprì a duemila e ottocento metri sopra al livello del mare, era ormai buio. La stazione, solo un cerchio di luce acceso da un faro montato sulla cabina vuota dell'addetto alla funivia, era circondata dal nero impermeabile della foresta.

La ragazza inspirò aria limpida e gelata senza riuscire a reprimere un brivido che non era di freddo: indossava pantaloni impermeabili sopra a una calzamaglia di lana che le pizzicava la pelle, scarponi da neve e un giubbotto gonfio di piume. E sudava come su un'isola tropicale.

Il ragazzo che scese dietro di lei aveva la sua età o poco di più. Si guardò intorno nervoso e le passò accanto imboccando la strada attraverso la foresta, in direzione dell'albergo. Durante la salita non aveva guardato in faccia nessuno. Mentre gli altri parlavano tra di loro, lui teneva lo sguardo basso su un foglio ingiallito e rovinato.

Alberto la superò in quel momento e si voltò a fissarla come se fosse un cerbiatto immobile nel mezzo della strada: con un misto di meraviglia, desiderio e insofferenza. L'ultima dominava sulle altre, come era stato per tutto il tempo che avevano fatto coppia. «Andiamo?»

Lei non si disturbò a rispondergli, afferrò lo zaino e lo seguì lungo il sentiero che strisciava tra i tronchi, perdendosi nel buio.

Era stata di Alberto l'idea geniale di salvare il loro rapporto isolandosi sulla cima di una montagna sperduta nel regno di nessuno, lontano da ogni forma di vita. Di nuovo quel brivido improvviso la percorse dalla testa ai piedi, come un avvertimento della sua parte animale, quella che aveva sempre vissuto accampata nei boschi. Una scossa per il suo corpo di città, ormai incapace di reagire agli odori e ai suoni, di difendersi da improvvisi attacchi di bestie feroci. La ragazza si fermò, sentendolo scendere lungo la schiena. Subito dopo iniziò quel suono strano, attutito e terrificante, che rimbalzava da un tronco all'altro rendendo impossibile capirne la provenienza. Un grido senza origine.

Alberto continuava a camminare; la sua parte animale, se mai c'era stata, era morta di noia. La ragazza si voltò per vedere se gli altri avessero sentito quel rumore, ma continuavano tutti a camminare e parlare come se niente fosse. Le passarono accanto e proseguirono per la loro strada. Chiudeva la fila una signora di mezza età con un grosso cappotto grigio e una sciarpa di lana gialla, le sue mani invisibili la toccarono e lessero nelle sue pieghe più nascoste. Ricambiò lo sguardo di quegli occhi lattiginosi e trasparenti e capì che lei aveva sentito.

Dopo un centinaio di metri il sentiero piegava sulla destra e d'un tratto la foresta si apriva, mostrando un cancello di ferro arrugginito, chiuso e solitario, ultimo avanzo di una recinzione ormai svanita. Da quest'ultimo partiva l'unica strada asfaltata della montagna, che correva dritta e pallida fino alla porta automatica a vetri dell'Immer Hotel.

Aggirarono uno a uno il cancello trattenuto da avide braccia d'edera selvatica che gli impedivano di crollare. L'edificio troneggiava su di loro, sempre più immenso, mentre si avvicinavano alla porta. Ciò che più lasciava l'ospite senza fiato di quella struttura era l'armonia delle sue linee e la perfezione con cui diversi materiali venivano accostati a formare un edificio tanto in sintonia con la natura che lo circondava, creando quasi l'illusione di essere invisibile. Un gigante, nascosto nel bosco.

***

La porta faceva parte della vetrata d'ingresso che correva lungo tutto il perimetro del piano terra. Si aprì non appena il primo ospite si avvicinò e rimase così, in attesa di accogliere gli altri. Una volta entrato, il ragazzo infilò in tasca il foglio che teneva tra le mani e si appoggiò al bancone della reception con aria stanca.

La ragazza che entrò subito dopo di lui aveva il passo svelto di chi avrebbe voluto tornarsene a casa e lo sguardo allarmato. Il ragazzo la osservò finché non incontrò i suoi occhi chiari, poi si affrettò a distogliere lo sguardo imbarazzato. Con lei c'era un uomo di una decina di anni più grande che le teneva una mano sulla spalla, qualcosa più di un amico forse, o avrebbe voluto esserlo: mento a punta, sguardo nervoso e zigomi alti.

Dopo quella coppia male assortita, a varcare la soglia era stato un uomo brizzolato, con il cappotto nero e una borsa di pelle, che gli aveva rivolto un distratto cenno di saluto. L'ultima ospite, prima che le porte automatiche si chiudessero, aveva un'età indefinibile e una cascata di capelli d'argento sopra a un vestito da hippie completo di una lunga collana con pendente viola scuro. Entrò, voltò la testa a guardare le poltrone vuote dell'atrio e salutò in quella direzione con un sorriso. Il ragazzo pensò che fosse pazza, poi si accorse che aveva gli occhi lattiginosi e appannati. Sembra cieca.

«Nome?» Dietro al bancone vuoto era comparsa una donna con la pelle di alabastro. Il ragazzo si trovò a pensare a quelle statue che segnano le condizioni meteo cambiando colore, una pietra che alle intemperie si sgretola lentamente. I suoi occhi scuri erano immobili su di lui, una fissità innaturale, che non aveva mai visto in nessuno sguardo.

«Il suo nome, prego. Così posso registrarla».

«Mi chiamo Daniel Navarro».

«Il suo documento, signor Navarro?»

Lui glielo porse, cercando di evitare il contatto con quelle dita bianche e fredde. La ragazza dal passo svelto, che sognava di essere in un altro posto e l'uomo nervoso erano in fila dietro di lui. L'uomo ticchettava sulla maniglia di metallo della valigia e la ragazza lo colpì con un gomito per farlo smettere, ma senza successo. La donna con lo sguardo appannato e l'uomo col cappotto invece si erano seduti sulle poltrone di pelle della grande sala e si guardavano intorno.

La struttura interna, fatta eccezione per le vetrate, era tutta in legno, con alte travi che si intrecciavano sul soffitto; immensi lampadari, fatti con corna di cervo, illuminavano il salone. Sulla sinistra, oltre i divani in pelle e il grande camino di pietra, c'era uno spazio rettangolare con dei tavoli che venivano apparecchiati per i pasti. Da lì era visibile un secondo piano, anch'esso occupato da tavoli e delimitato da un parapetto in legno.

«Questa è la sua chiave, signor Navarro. La stanza è al secondo piano. Gli ascensori li trova qui alla mia sinistra».

Daniel si voltò nella direzione che indicava e li vide: stazionavano aperti come grandi bocche senza denti. «Avete anche delle scale per salire?» domandò con un sorriso che lei non ricambiò.

«Sono dietro quella piccola porta che vede là in fondo. Il suo nome signorina?»

Daniel afferrò la sua valigia registrando distrattamente che la ragazza alle sue spalle si chiamava Bianca, poi si fermo: «Scusi, il mio documento».

La donna al banco riportò l'attenzione su di lui visibilmente infastidita. «Prego?»

Sia l'uomo con il cappotto che la donna si erano alzati dal divano e guardavano con attenzione quello che succedeva alla reception.

«Vorrei indietro il mio documento, per favore» ripeté Daniel.

Lei si voltò e glielo restituì in silenzio.

***

Bianca entrò nella sua stanza e rimase senza fiato: la prima cosa che la colpì fu la grande vista sul bosco, proprio di fronte al letto matrimoniale. Un giglio bianco era appoggiato di traverso sul piumone perfettamente teso. Guardò lontano, oltre i vetri, l'interminabile distesa di cime verdi della foresta e si sentì libera. Per la prima volta, dopo tre anni di convivenza con Alberto, si sentì finalmente sola. E, contro ogni prospettiva, si rese conto che era una bellissima sensazione.

Pensò alla loro ultima discussione, al momento di prenotare la stanza. Alberto era davanti allo schermo illuminato del computer e stava terminando di inserire i loro dati. Aveva scelto una struttura che gli compariva da tempo in maniera insistente tra gli annunci sponsorizzati. «Vedrai, è un posto magnifico, ha ottime valutazioni. Diamoci una possibilità».

«Non ci sono possibilità, Alberto. Te l'ho già spiegato. Dobbiamo salutarci e andare avanti» aveva risposto lei. Poi, davanti ai suoi occhi tristi, con una punta di senso di colpa, aveva aggiunto: «Sarà dura per entrambi, all'inizio, ma poi anche tu ti renderai conto che la nostra storia era ormai finita da molto tempo». Gli aveva sorriso, convinta che avesse capito.

La schermata del computer mostrava immagini meravigliose di un hotel immerso nel bosco e di piste da sci in piena attività.

«Sembra tutto troppo bello in queste foto» obiettò lei, sperando che Alberto cambiasse idea.

Fissando la vista aerea del bosco sul Monte Dolent, aveva visto la spunta sulla scelta della camera matrimoniale. No. Alberto non aveva capito e probabilmente nel suo cuore non avrebbe mai capito perché lei aveva deciso di andarsene.

«Sarà meglio che prenoti due stanze» aveva detto lei.

Lui aveva spostato la selezione sulle due camere singole con uno scatto di rabbia.

Quella in cui si trovava Bianca in realtà sembrava più una quadrupla. Alle sue spalle infatti saliva una scala a pioli fino a un soppalco dove sicuramente si trovava un altro letto matrimoniale. Nella penombra faticava a distinguere cosa ci fosse di sopra così salì la scala per vedere meglio. C'era un letto matrimoniale gemello a quello che era sotto, con lo stesso piumone che, invece di essere teso come l'altro, era appallottolato in fondo al materasso. La ragazza strinse gli occhi per abituarli alla semioscurità, mentre con le dita cercava l'interruttore sulla parete. C'era qualcuno sotto il lenzuolo.

Bianca sorrise di se stessa e salì un altro gradino. La figura si sollevò a sedere e il lenzuolo scivolò via, scoprendo il corpo nudo e violaceo di una donna. La creatura girò occhi spenti e vuoti su di lei. Quando allungò le braccia, in una muta richiesta di aiuto, la ragazza perse l'equilibrio e cadde di schiena sul pavimento. Nel panico si alzò e corse fuori. 

🦋 🖤 Spazio Fede 🖤🦋

Siete arrivati finalmente. Vi aspettavamo da tanto tempo. La direzione vi dà il benvenuto nel nostro prestigioso albergo e vi raccomanda prudenza. Potrete incontrare gli ospiti precedenti, non temete, sono solo anime in cerca di pace. Ma non avvicinatevi troppo. 

Lasciate stelline e commenti se l'accoglienza vi ha soddisfatti.  Ci vediamo tra le righe. 

Buona permanenza.

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