2. Meteorite Cadente

Gli anni passarono, veloci trascorsero uno dopo l'altro, di continuo, come rapide foglie trasportate dal torbido e gelido vento autunnale verso l'ignoto.

Intere settimane di agonia bruciate al rogo, gioia annullata dal diluvio furente, una candelina dopo l'altra consumate e gli anni sempre ad aumentare così come i cerotti che lei con cura mi poggiava delicata sui tagli affinché il dolore venisse in qualche colmato - lui però non andava mai via e mi sgretolava forte la gola con l'intento di strozzarmi - mentre l'unica colonna alla quale potessi realmente aggrapparmi gradualmente andava via via a consumarsi pian piano, unicamente per difendere me dai feroci leoni i quali avrebbero unicamente voluto mangiarmi le ossa e vedermi cadere, ingoiarmi vivo e gettarmi dal dirupo.

Fu lei l'unica, mia madre, la roccia alla quale durante le tempeste più temibili mi aggrappai fortissimo trattenendo le lacrime, tentando di resistere al peggio mentre lui, lui invece non fu più degno dell'appellativo che gli avrei dovuto, accadde quando finalmente venni a conoscenza della verità, scoprendo che non era mai stato dalla mia parte, solo l'opposto; oppositamente fu il capo branco dei coltelli che mi incedettero la schiena. Fu lui, colui che mi aveva donato sangue e vita a vedermi ostaggio di un male causato solo per mano sua. Fu lui, lui a volermi vedere crollare dal dirupo e smettere di lottare per una vita che già dalla concezione avrebbe voluto smozzare; portandomi via la gioia che risiedette ancora sul mio volto.

"A diventar padre non ci vuole niente, è a essere tale che diviene complicato" fu quello che udii irripetute volte pendere dalle labbra di mio nonno, che in qualche modo tentò di prendere le sue veci e colmare gli spazi vuoti che lui lasciò prima di abbandonarmi anche egli al brutal fato; non fu la medesima situazione però per quanto bene avesse fatto all'interno della mia esistenza e mentre gli anni trascorsero rapidi dal gelo delle sue urla non smisi, per quanto cruento potesse essere, di aver bisogno di lui, di un vero padre. Non lo ebbi però, non fui così fortunato come il resto dell'universo avente pressoché una vita stabile e già dal grembo materno concepii come l'esistenza avesse commesso un errore a mettermi al mondo, già dal principio ritrovandomi depistato e rifiutato da parte sua, non facendo altro che ricevere unicamente odio, urla e soprattutto la sua assenza; il gioco lo aveva consumato vivo, giorno dopo giorno prendeva una piccola parte di lui, finché anche la più invisibile particella della sua anima non divenne nera come la pece e il cuore fu invaso da rancore e rammarico che iniettarono veleno a chi intorno recapitava l'anima.

Io non fui importante per lui, forse non lo ero mai stato davvero, mai poiché la mania d'azzardo lo fu di più, molto più. Un morbo, una fissazione era la sua, di cui come droga non era in grado di farne a meno. E da semplici soldi bucati all'interno di quelle macchine ben presto divenne una vera e propria fissazione incontrollata di cui a meno non ne fu in grado di fare, trascurando la propria famiglia, divenendo un completo estraneo di cui nemmeno il nome lui rammentava a cui tolse il pane dai denti per continuare a giocare, spendendo intere fortune per poi ricevere in cambio il niente.

"Sei una cosa inutile, non sei buono a fare niente" furono le parole che puntualmente ogni volta tornato mi urlava, lanciando le scarpe in aria e divenendo furioso per aver perso un'altra volta a quella maledetta scommessa e la frustrazione celata tra le sue vene divenne ben presto ostaggio del mio petto spezzato, dei coltelli affilati sulla carne.

Lo iniziai a odiare, sì, sangue del mio sangue. Sì, quello che in realtà sarebbe dovuto essere mio padre. Sì, proprio lui, quello che si ritrovò a demolire pezzo per pezzo la vita di mia madre e persino la mia con un solo schiocco di dita.

E tra anni trascorsi, bestemmie gettatemi addosso e saliva sul viso tentai di andare avanti, di non odiare quello che era diventato, di ricordarlo come quell'uomo che inconsapevole mi aveva regalato tempo prima un amico, di quello che mi portava ogni domenica a cavallo, di quello che mi prometteva all'interno di istanti di lucidità che avrebbe smesso.

Un nitido ricordo, forse l'unico benevolo che sono in grado di rammentare da parte sua: all'età di sei anni mi donò un cavallo, stupendo, bruno e con una criniera pronta ad essere accarezzata dalle mie flebili e sottili dita e ad attutire tutte le mie lacrime versate; finché come anch'io mi evolsi d'età lo fece anche il piccolo poni insieme a me. Giunse l'ora, anzi, lui diede fine a tutto. Mi ricordo ancora la mattina nella quale mi recai e non lo vidi nel suo box, chiesi a Massimo dove egli fosse, non avrei voluto mai domandarlo, mi disse che lo stavano mandando al mattatoio, l'avevo perso.

Fu lui, fu lui il primo amico che perdetti, con il quale non potei più raccontare dei soprusi da parte di un padre che non aveva fatto altro che infliggermi odio; mi ritrovai solo e più a nessuno avrei potuto narrare le mie disgrazie.

Più solo che mai.

Piansi, piansi a dirotto e pregai che una volta ucciso non sentisse dolore, non facesse male e sperai Dio udisse le mie preghiere, evitasse quello strazio.

E demolito nessuno fu in grado di consolare il mio animo irrequieto.

Mi aveva tradito, fingendo di pormi quel dono per poi portarmelo via, perché?

"Perché?" mi domandai più volte, nessuna risposta però e nel dubbio esistenziale iniziai ad affogare, ancor prima di ricevere la notizia che mi avrebbe totalmente distrutto e mai più in grado sarei stato di guarire.

"Non anche lui, lui no. Ti prego." Mi ritrovai a singhiozzare al vento vedendolo morire dinanzi i miei occhi, mentre la mia mano strinse forte la sua e le lacrime mi invasero il viso. Lo vidi gradualmente chiudere gli occhi, abbandonare questo mondo e le intere sofferenza che negli ultimi tempi lo avevano avvolto come un lenzuolo. Il rumore del macchinario che segnava il battito cardiaco produsse il frastuono di chi è morto per sempre. Si espanse per i miei timpani quel terribile frastuono che ogni notte mi faceva alzare con la fronte madida di sudore, non essendo più in grado di prendere sonno e smettere di pensare alla sua mancanza; impossibile, non avrei mai potuto scordare il bene che mi aveva voluto e la maniera nella quale tentava sempre di colmare i vuoti lasciati da mio padre.

"Non sei solo, ci sono!" Non smisi di sussurrargli all'orecchio fingendo di essere forte, che dopo la sua morte non sarei stato male, sarei andato avanti, tentando di celare le mie debolezza e mostrarmi in grado di affrontare tutto quello.

Tentai in tutti i modi di strappargli un sorriso, mentre lentamente dentro morivo con lui e quando mi lasciò fu la mia fine, il colpo di grazia che prescrisse il mio fatidico declino.

E a soli dieci anni decisi, dopo quello che avevo visto, mai più avrei permesso a qualcuno di amarmi, così da non soffrire quando lo avrei perso.
Non sarei mai più andato a un funerale e avrei smesso, smesso di farmi male così tanto, non sapendo però che in realtà quello che per me il destino riservava era ben altro che quello da me desiderato.

Un cancro al pancreas fu la causa della sua morte e la fine della mia promessa, quella di mantenere a ogni modo il sorriso sulle labbra e non smettere di lottare. E purché mi dicesse sempre "Sarai una bellissima stella tesoro mio, non smettere mai di lottare per quello in cui credi", al contrario quello che divenni fu solo un meteorite cadente.

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