Capitolo 2: Aubrey

Il suono del distorsore proruppe pulsante dalle casse dell'auto.

Hey you, hey you, Devil's little sister

Listening to your twisted transistor...

Aubrey tese il braccio verso l'impianto stereo e alzò il volume fino quasi a farlo scoppiare. Quella canzone era fatta per lei, non c'era altro da dire. Nonostante i Korn l'avessero scritta una trentina d'anni prima che lei nascesse, Aubrey la adorava. Aveva scovato quell'album in un mercatino dell'usato, quando, appena sedicenne, riempiva le sue giornate di sigarette e improperi. Era stata quel tipo di ragazzina, quella che avrebbe fatto di tutto pur di far incazzare il padre. Aveva imparato presto le gioie del sesso e quelle del poligono, cavalcando un'esistenza ben al di là dei limiti della sua età.

Hey you, hey you, finally you get it

The world it can eat you if you let it...

La ragazza contrasse il polpaccio destro mentre abbassava completamente l'acceleratore. Si scrutò nello specchietto retrovisore, mentre il vento le schiaffeggiava il viso. Una sigaretta pendeva dal lato delle sue labbra rosee, incurvate in un sorriso beffardo, la mascella squadrata era rivolta verso l'alto. Gli occhi verdi erano incorniciati da lunghe ciglia e da un trucco pesante. Aubrey riportò lo specchietto nella posizione corretta, poggiò le spalle al sedile e piantò le dita sullo sterzo, curvandolo per sbandare un po' in quelle strade deserte.

Le piaceva, la sensazione del brivido, della guida, della velocità. Peccato che non ci fossero molte auto da schivare da quelle parti. La sua bambina era speciale, un missile con l'aspetto di un destriero, che signorina! E come sculettava quando acceleravi un po'!

Aubrey rise, mentre quel pensiero le scivolava dentro. Anche il relitto che guidava non era del suo tempo, una Citroen SM del lontano 1967, col motore di una Bugatti Ballerina del 2060. Certo Julien aveva fatto un bel lavoro, non era stato facile farci entrare tutti i pezzi. D'altra parte era evidente come Julien stravedesse per lei, sarebbe andato all'inferno se solo Aubrey avesse accennato alla cosa. Ma lui era un uomo del 2061 e Aubrey era una nostalgica. No, non avrebbe mai retto uno che parlava solo di motori a reazione e di viaggi coloniali. Già se lo figurava: birra alla mano e divano. Idiota.

Invece lei cercava ben altro dalla vita... Cercava il divertimento. Ovvio, no? Chissà com'era questo clone, di cui Ruben aveva parlato a lungo. Aubrey ne aveva visti altri, in giro. Erano sexy, con le spalle larghe, i capelli corti. Una noia, praticamente. La ragazza scosse la testa. Concentrati stronza, non devi cazzeggiare mentre lavori.

Lanciò un'occhiata al navigatore, doveva esserci quasi. Periferia a nord di Bruxelles. Il navigatore la avvertì con un bip di un'incidente, allarme bomba. Aubrey guardò nella direzione in cui doveva esserci stata l'esplosione: una grossa colonna di fumo torreggiava nel cielo limpido. È lui.

Una chitarra partì, un riff che conosceva sin troppo bene. Chop Suey. No, non l'avrebbe ascoltata. Non aveva bisogno di distrazioni e quella canzone era una di quelle che ascoltava solo quando era da sola, chiusa nella sua stanza con le cuffie nelle orecchie. Non piangeva, ripensando a sua madre. Se n'era andata quando Aubrey aveva solo sei anni, lasciando lei e Ruben da soli.

Aubrey era cresciuta col padre, rifiutata dal ventre dal quale era germogliata, fiorendo come una rosa: piena di spine. Non si vergognava di ammettere di aver complicato le cose per Ruben, ma d'altra parte neanche lui era privo di responsabilità. Come competere con un genio come il suo? Impossibile. Aubrey era intelligente, ma mancava di quella scintilla che caratterizzava il padre.

Aveva altre qualità.

Qualità che lui non apprezzava, almeno non apertamente. C'erano genitori che ricoprivano i figli di coccole, altri che li ricoprivano di giocattoli. Il suo l'aveva ricoperta di insulti.

Eppure erano ancora là, assieme in quel gioco pericoloso. Si urlavano addosso, si detestavano, ma lavoravano l'uno al fianco dell'altra. E come fare altrimenti? Aubrey doveva riconoscere una cosa a Ruben: aveva ragione. Ogni idea, ogni dettaglio, ogni sua parola era verità che colava argentea dal cielo. E d'altro canto Ruben aveva dovuto riconoscere il suo talento, "Io la mente, tu il braccio" le aveva detto. Il cuore della ragazza si era riempito d'orgoglio. Mai nella vita si era sentita così soddisfatta come in quell'istante. Aveva annuito, scura in volto.

Aubrey si passò una mano sul viso per scostare i capelli castani. Non sorrideva più ora. Ricordò il momento in cui Ruben le aveva detto la verità. "Chi sei? Perché cazzo non vado a scuola come chiunque altro?" gli aveva urlato. L'uomo l'aveva guardata col labbro afflitto da un tremolio insolito. "Siediti, ti dirò la verità."

Qualche attimo dopo Aubrey aveva artigliato la seduta fino a farsi sbiancare le nocche. Tutto aveva acquistato un senso, ogni discorso, ogni indottrinamento, persino l'abbandono di sua madre. Eppure non riusciva a odiare Ruben. No, l'uomo aveva ragione. E non si rendeva neppure conto che il destino gli aveva donato l'arma perfetta per le sue idee: una figlia con una mira infallibile, un cecchino spericolato e capace, che l'avrebbe seguito in capo al mondo.

Gli occhi della ragazza si velarono di tristezza, mentre il cicaleccio estivo si mescolava alle note della canzone successiva. Percepì un umidore che minacciava di sgorgare. No, io non piango.

Chiuse gli occhi una frazione di secondo di troppo.

Spazio autrice:

no, non mi convince per nulla ragazzi. Questo capitolo me lo macino dentro da un sacco, eppure col cavolo che è riuscito come me l'ero figurato... possibile che più in là lo cambi. Nel frattempo se avete suggerimenti sono sempre ben accetti. Ad ogni modo presto arriverà il cast di Clones. Già già, vedrete le facce dei tre personaggi principali. U.u


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