50 Capitolo

Capitolo un pochino lunghetto, spero che non vi annoiate.
Come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate, se vi è piaciuto e se soprattutto avete trovato delle incoerenze, un occhio esterno è estremamente importante per me.

Eeeeeee si ritorna al primo giorno!

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1 Giorno.

Quel 28 di dicembre sarebbe stata una data da dimenticare per Diletta, ma l’orrore che aveva creato da un semplice incidente non sarebbe mai sbiadito nella sua mente.

Ricordava ogni minimo particolare, anche quello più insignificante. La sveglia che suonava allegra alle otto di mattina come ogni giorno, i piedi nudi a contatto con il freddo marmo che la aiutavano a svegliarsi, scegliere cosa avrebbe indossato per quel tanto atteso viaggio, sicuramente qualcosa di comodo ed anche elegante come dei jeans ed un blazer nero.

Era bello immaginare come sarebbe stata la fuga programmata tanto tempo fa dai suoi genitori. L’America, un posto magnifico creato sui principi della libertà e soprattutto era tanto lontana da lì, lontano da tutto ciò che le faceva male.

Le ci voleva una fuga, l’aspettava da tempo; doveva togliersi di dosso la rabbia che provava a causa di quell’anno, e si era aggiunto anche, in quei pochi giorni, la frustrazione di ciò che aveva scoperto.

L’immagine del suo ragazzo, la persona a cui aveva regalato il suo cuore, avvinghiato al suo amato fratello. Era l’apice del tradimento verso due delle persone che considerava dei pilastri che la sorreggevano. Una tremenda rivelazione che l’aveva fatta impazzire e a cui aveva dato libero sfogo rompendo e distruggendo tutto ciò che aveva trovato nella camera di Dario.

Ma ora stava bene, si era calmata, aveva ripreso il controllo di se stessa.

Non doveva fare l’isterica, non era da Diletta comportarsi in quel modo; lei era sempre stata calma e composta, più volte le sue amiche la prendevano in giro perché si comportava da vera principessa, almeno quelle poche che le erano rimaste...

Prese le ultime cose dal bagno che le servivano e le mise dentro la sua valigia. L’America avrebbe cancellato ogni cosa, il nuovo anno avrebbe portato molte sorprese, ne era certa.
Era piena di speranze quando scese con la valigia, accorgendosi poi che le mancava l’etichetta sul quale mettere l’indirizzo di casa e dell’Hotel e, quest’ultimo, non lo ricordava e pensò che sua madre certamente lo sapesse.

Non stupendosi più di tanto che i suoi fratelli erano ancora a dormire e di certo non gli avrebbe svegliati, e suo padre era rinchiuso nel suo studiolo, andò in giro per la casa portandosi dietro la valigia.

Trovò la persona che cercava in corridoio a parlare al telefono. La figura snella e sempre elegante si appoggiava ricurva verso la finestra, la mano affusolata e smaltata con cui si massaggiava le tempie. Diletta, mentre si fermò posando la valigia, si posizionò vicino al comodino e guardò una foto incorniciata.

Una vacanza di qualche anno fa…

-Si, capisco, non so davvero come scusarmi… - la voce di sua madre era bassa e a tratti supplichevole e per questo Diletta si preoccupò; non appena si avvicinò, la signora si voltò verso di lei ed improvvisamente il suo viso diventò duro.

-Si, ora le parlo io.- ed attaccò.
Quelle parole erano cambiate di tono; erano spigolose ed insensibili e questo fece arretrare Diletta.

-Tutto bene mamma? Chi era?- chiese anche se aveva paura della risposta.
-Era la madre di Dario.

Quella frase raggelò il corpo pieno di speranze di Diletta.

“No… Ti prego no…” supplicò dentro di sé. L’ultima cosa che desiderava era un rimprovero da sua madre, ma soprattutto far sapere di quell’attacco violento che aveva avuto nei confronti di Dario!

Sua madre si mise una mano alla fronte, come per simulare un'emicrania. Diletta conosceva benissimo quell’espressione. Sua madre provava per l’ennesima volta un emozione che regalava solamente a Diletta e che portava solo vergogna verso la sua famiglia.

La delusione.

-Diletta, è vero? Hai spaccato quasi tutta la roba che c’era in camera di Dario? La tv, il portatile…? Ed… anche la sedia? Sei forse impazzita?! Per un momento credevo che scherzasse quando mi ha raccontato il macello che ha trovato nella camera di suo figlio.

-Mamma, lasciami spiegare…

-Spiegare che cosa? Da quando sei una pazza isterica? Io non ti riconosco più!

Diletta cercava di parlare, spiegare, ma come al solito, sua madre non l’ascoltava.

-Sei così peggiorata come persona! Prima eri così… così perfetta! Andavi bene a scuola, avevi tanti amici ed un ragazzo d’oro. Dario forse è la cosa migliore che ti sia mai capitata. Ma no, ovviamente vuoi fare dei dispetti alla tua famiglia! Non sei riuscita ad entrare all’università, una cosa semplicissima dove i tuoi fratelli non hanno avuto alcun problema. Ora non esci più con nessuno e sei diventata un’eremita… pensavamo che la terapia ti facesse bene ed invece ti ha solo peggiorata!

Più parlava e più alzava la voce. Ogni parola andava a segno, ogni lettera era scelta appositamente per umiliarla e renderla sempre più piccola ed insignificante.
Che mare di demoralizzazione nel quale Diletta stava lentamente affogando… eppure non era colpa sua! Era colpa degli altri! Erano loro, tutti loro l’avevano resa ciò che era in quel momento.

-Forse quando vomitavi perdevi anche quel minimo di cervello che ti è rimasto! Perché sei diventata così Diletta? Perché!?

-Vuoi starmi a sentire per una volta, mamma! Siete voi che mi avete trasformato in questo modo! Siete voi che mi avete fatto diventare così!

-Non far ricadere la colpa su di noi! Disgraziata, noi ti abbiamo cresciuta…

-Che succede Agata?

La presenza di suo marito fermò l’ultimo sfogo. Sentendosi chiamare si voltò verso di lui, anche per avere man forte, ma Diletta non glielo permise.

Lei ancora non aveva finito.

-Ti ho detto di starmi a sentire quando parlo!

La spinse.

Le mani di Diletta si erano mosse da sole per colpa dalla rabbia e dalla frustrazione. Chiuse gli occhi per qualche secondo e solo grazie a due rumori sordi, li riaprì immediatamente.

La fonte della sua frustrazione era sparita, davanti a lei c’era solo suo padre che dietro le lenti degli occhiali mostrava una tremenda sorpresa.

-Agata...

Diletta seguì la direzione di quegli occhi sgranati. Abbassò il viso e ritrovò sua madre.
Era sdraiata a terra, il viso rivolto verso l’alto, fra le gambe la valigia di Diletta.

La signora Agata era inciampata ed aveva sbattuto la testa sul comodino, facendo cadere anche la foto di famiglia.

-Mamma…?

Non rispose, un gelido silenzio non faceva che confermare ciò che era appena accaduto. Diletta poteva quasi sentire il rumore del rivolo di sangue che scendeva dalla fronte di sua madre.

-Che cosa è successo? È caduta…?

Senza aggiungere altro, Federico Pace si precipitò verso sua moglie. Lei non si era mossa e, preoccupato, le controllò il polso non percependo alcun battito per poi iniziare a schiaffeggiarla.

In quel piccolo momento di panico, Diletta era immobile a fissare quella scena…

“L’ho… l’ho spinta?” pensava.

“Ha sbattuto…? Ha sbattuto contro il comodino?!” pensava mentre la sua bocca diceva altro.

-Mamma… Mamma!? Ti prego alzati! È stato un incidente! Mamma!

-Cosa diavolo è successo? Diletta che hai fatto?!

Suo padre era incredulo, ancora non voleva credere a ciò che aveva visto, a ciò che aveva assistito.

-È stato un incidente papà… è caduta… papà ti prego aiutala...

-Sei una lurida disgrazia! Perché l’hai fatto?! L’hai spinta cazzo! Tu l’hai spinta! Agata, ti prego, apri gli occhi! 

-Io… chiamo un’ambulanza.

Diletta, senza esitare oltre, prese il suo telefono, ma, come ogni giorno, a casa sua non c’era mai campo. Corse in cucina, forse l’unico punto dove prendeva e compose il numero.

“Cosa ho fatto!?” continuava a ripetere dentro di sé mentre le lacrime non le permettevano di vedere bene i numeri.

“Cosa ho fatto!? Cosa ho fatto!? Cosa diavolo ho fatto!?” quelle urla interiori la facevano impazzire.

Diletta tremava, la consapevolezza di essere stata la causa della morte di uno dei suoi genitori creava la peggiore tipologia di ansia che avesse mai sentito nel suo corpo.

“Mamma è caduta! Mamma ha bisogno di aiuto! E se fosse morta…? E se avessi ammazzato mia madre? Ho ucciso mia madre! Ho ucciso quella puttana di mia madre!”

Diletta si bloccò.

Quell’aggettivo si era insinuato come uno scarafaggio nella sua mente.

Diletta era indignata da se stessa, a come aveva potuto pensare una frase così cattiva… accorgendosi poi di aver utilizzato uno strano coraggio nell’aver pensato ad una cosa del genere.

“Cosa ho fatto? ...Ho ucciso quella puttana di mia madre…”

Quel pensiero nato per sbaglio spostò completamente la prospettiva di quella tragica situazione.

Tutto si era ribaltato grazie ad un aggettivo.

I pensieri, anzi, tutto ciò che reprimeva da anni, esplosero senza alcuna censura.

“Così almeno starà zitta… non potrà più dire niente…” pensò mentre continuava a stringere il telefono.

“Non potrà più insultarmi… dirmi che sono inutile… ordinarmi cosa devo fare… dirmi come farlo… non sentirò più che faccio schifo.”

Il tremore si fermò, Diletta si stava mano a mano calmando, ma nella maniera sbagliata.

“Quelle irritanti frasi… - Diletta, perché devi fare così? Non puoi semplicemente chiudere la bocca ed ingurgitare quello che mangi? Ma non esagerare sennò ingrasserai- oh, che bello… non sentirò più queste stupidaggini.”

Diletta fece cadere il telefono fra le mani con ancora digitato il numero che rappresentava forse l’ultima speranza di sua madre, o della sua famiglia.

Ormai la stanza si era ribaltata completamente, la prospettiva di quell’avvenimento non era più circondata dall’ansia e i sensi di colpa.

Per accertarsi ed avere un’ulteriore conferma, si toccò il viso.

Aveva ragione…

Lei stava sorridendo.

Il pensiero di sua madre morta la rendeva felice come mai prima da allora.

Ora era libera, poteva essere ciò che era davvero! Nessuna oppressione, nessuna aspettativa, nessun obbligo! Solo una dolce libertà, e tutto ciò grazie ad una leggera spinta.

Se si sentiva in quel modo solo grazie a quel piccolo gesto, a quel leggero tocco, con l’adrenalina che si muoveva dentro, eccitata ed euforica… cosa sarebbe successo… se avesse fatto qualcosa di più… eclatante?

Come si sarebbe sentita?

L’ultima frase che le disse suo padre le riecheggiò nella mente…

“Sei una lurida disgrazia! Perché l’hai fatto?! L’hai spinta cazzo! Tu l’hai spinta!”

-Si, papà,- disse mentre si avvicinava al piano di lavoro della cucina.

-È tutta colpa mia…

Diletta non tardò oltre e ritornò da suo padre. L’uomo era chino su sua moglie e continuava a parlarle come se questo potesse aiutare a risvegliarla in qualche modo, non accorgendosi che era ormai tutto inutile. Neanche degnò di uno sguardo sua figlia che domandò.

-Hai chiamato l’ambulanza? Fra quanto arriveranno?

-No papà, non l'ho fatto, mi dispiace.

-Come no!? Ma sei un’idiota! Tua madre è in questo stato per colpa tua! Hai capito ciò che hai fatto!?

Finalmente quell’uomo si girò verso sua figlia e rimase fermo a guardarla. Aveva notato subito che nella pallida mano teneva un coltello da cucina, quello che utilizzavano di solito per tagliare la carne. La domanda sorse spontanea.

-Diletta…?

Ma il colpo fu più veloce.

“Uno...”

Il coltello affondò poco sopra la clavicola sinistra ed il sangue uscì libero macchiando le pareti.
Sentì un gemito di dolore, la voce non gli era uscita catturata dalla lama che era pericolosamente vicina alla gola e non fece in tempo ad allontanare il mostro che lui stesso aveva creato che questo ritirò il coltello ed affondò nuovamente.

“Due, tre, quattro!”

Il coltello scavò nella carne per altre tre volte, veloce e colpendo senza mirare. La ragazza, oltre che la rabbia e la libertà di quel gesto, sentiva il muscolo lacerarsi, l’osso della clavicola scheggiarsi ed il sangue schizzare violentemente. Una sorta di onnipotenza la sconvolse, un’immortalità nata grazie alla vista della morte della persona che le avevano donato la vita.

Le mani grandi di suo padre afferrarono debolmente le braccia esili della figlia, ma fu un tentativo futile per allontanarla.

“Cinque…”

Quando l’ammasso di carne non si mosse più, Diletta colpì per la quinta ed l’ultima volta, un’ultima soddisfazione spinta dalla curiosità nell’affondare quella lama nel cuore di un altro essere umano.

Si alzò in piedi, tenendo stretto fra le mani quel coltello e si fermò, immobilizzata dalla scena che aveva davanti ai suoi occhi.

Davanti a lei c’erano due corpi, due cadaveri, ma non li considerava affatto i suoi genitori. Erano solo un ammasso di carne che sporcavano il pavimento di sangue.

Quell’attimo di pura ira era scomparso improvvisamente, l’eccitazione era svanita, lasciandola in balia di quel fatto, ma l’ansia che aveva sentito all’inizio non si ripresentò nuovamente. La responsabilità dell’aver tolto la vita ai propri genitori, o più che altro il senso di colpa, non arrivarono. Lei si sentiva nel giusto, era come legittima difesa… si sentiva minacciata e lei che aveva fatto? Si era protetta. Lei si sentiva intrappolata e lei che aveva fatto? Si era liberata. Lei… si sentiva finalmente bene.

Ora però, la parte razionale stava mano a mano ragionando. Aveva comunque ucciso due persone… non poteva lasciare quel macello come era… doveva inventarsi qualcosa. Lei aveva ucciso la sua famiglia e…

“No… non ho ucciso tutta la mia famiglia…” e strinse il coltello macchiato di sangue.

-Tutto bene di sotto?- una voce maschile e squillante risvegliò Diletta.

Era suo fratello Leonardo, di sicuro aveva sentito qualcosa.
Una corda fatta di panico la immobilizzò, tenendo stretta a sé il coltello.

-Dove siete?

Diletta sentì le ciabatte far rumore mentre scendeva le scale… suo fratello si stava avvicinando sempre di più a quella terrificante scena e a Diletta le rimasero poche opzioni.
Si chinò verso suo padre, prese le chiavi del suo studiolo e uscì dall’altro lato del corridoio, spegnendo la luce.

-Ehi? Ma? Papà? Mi state spaventando dai… Che è successo? Perché qui è buio?

Leonardo accese la luce sul corridoio.
I suoi occhi si allargarono come mai prima di allora alla vista di tutto quel sangue, il respiro gli si fermò quando vide da dove preveniva quel colore così scarlatto. Urlò una volta per lo spavento per poi tapparsi la bocca da solo, indietreggiando ed appoggiando le sue large spalle sulla porta.

Non osava avvicinarsi, non osava accertarsi di quella orribile immagine che stava riempiendo i suoi occhi.

-No… Ti prego no…  questo è un incubo.

Leonardo scappò da quel corridoio sbattendo la porta come una palla di cannone. Era scioccato, non voleva credere a ciò che aveva visto… i suoi genitori… qualcuno aveva massacrato i suoi genitori.

Barcollando si avvicinò alle scale e si fermò quando sentì il suo nome. Lo spavento lo fece quasi cadere.

-Leonardo! Si può sapere cosa è tutto questo casino! Quante volte ti ho detto che non devi sbattere le porte come un troglodita.

La voce acida di Letizia fece alzare lo sguardo pieno di terrore del ragazzo.
Come poteva comunicare una cosa del genere? Come poteva guardare Letizia e dirle quello che aveva appena visto?

C’era solo una cosa da fare.
Con calma e cercando di nascondere il tremore alle mani, salì due scalini molto lentamente e fece cenno a sua sorella di fare silenzio. A bassa voce, Leonardo cercò di essere il più rassicurante possibile e nascondere la sua paura.

-Letizia, ora dobbiamo andare. Dobbiamo trovare Diletta e scappare. Non è sicuro qui.

-Che diavolo stai dicendo? – replicò Letizia a voce normale non seguendo quel prezioso consiglio.

-Forse ci sono delle persone pericolose, dobbiamo scappare da qui.

Letizia si spaventò per un secondo, per poi mostrare un sorrisetto beffardo.

-Che scherzi sono questi? Non credi che se ci fossero dei ladri non li avremmo sentiti?

Leonardo, stufo di combattere per l’ennesima volta con la testardaggine di Letizia, perse quel minimo di sangue freddo che cercava di mantenere stretto. Con i denti che digrignavano, gli ordinò, -Cristo! Letizia vieni subito qui o giuro che…!

-Mi sembrate troppo esagerati voi due!

Letizia scese due scalini con una calma esagerata.

-Vi pare che qualcuno deruberebbe casa nostra? Con più delle persone? Che reazione esagerata… Diletta, addirittura prendere il fucile di…

Letizia non riuscì a finire quella frase, sia per il tuono che era scoppiato improvvisamente in quella casa, sia per la cartuccia appena sparata che senza alcuna pietà le aveva spappolato il cuore.

Il corpo cadde all’indietro e scivolò per alcuni scalini, per poi fermarsi poco vicino ai piedi di Leonardo.

Il ragazzo aveva il terrore che gli circolava nelle vene, quello spaventoso suono lo aveva fatto tremare, ora, invece, era pietrificato.
I suoi pensieri si erano bloccati davanti a quella immagine statica e morta.

Gli occhi ancora spalancati che guardavano Letizia.
Una parte del suo cervello sapeva che se fosse rimasto fermo, avrebbe presto fatto la stessa fine di sua sorella, eppure aveva addosso qualche sorta di eredità animale che, di fronte alla morte, l’istinto gli ordinava di rimanere fermo.

-Ora… Ora starà zitta anche lei…

Quella voce, Leonardo la conosceva benissimo. Non aveva neanche bisogno di voltarsi per capire chi fosse… ed appunto perché conosceva quella voce Leonardo non voleva affrontare quella tremenda realtà. Ormai era bloccato in quel secondo.

-Leonardo… girati.

Il respiro accelerò in quell’eterno secondo.

-Leonardo… per favore.

Con le gambe abbandonate e senza forza, trascinò i suoi piedi per
voltarsi verso la voce della sua sorellina.

-Diletta…

Quel sussurro misto a paura ed incredulità non raggiunse la giovane fanciulla con in braccio il fucile da caccia.

Il rombo fu inaspettato, ma allo stesso tempo atteso.

Il secondo colpo partì senza che Leonardo potesse fare qualcosa e la sua vita finì in quell’istante.

...

Nel silenzio di quell'enorme villa, Diletta era finalmente sola.

Sola con se stessa, sola con la consapevolezza di ciò che aveva fatto, sola con i demoni che aveva sconfitto.
Il silenzio di quella casa le fece compagnia, ma ormai non sopportava neanche quella abitazione.

Odiava tutto… odiava vedere quella casa… odiava vedere il sangue che usciva dal buco in petto di suo fratello Leonardo.

Odiava quel rosso…

Nel delirio di quella piccola follia, Diletta sistemò ciò che le dava fastidio, facendo tornare tutto verso la sua perfezione.

Facendo finta di sapere cosa stesse facendo, prese le lenzuola candide per arrotolare i cadaveri e spostò con molta fatica i corpi di quelli che erano la sua famiglia, cercando di sporcare il meno possibile; li trascinò fino alla lavanderia, nascosti dentro lo sgabuzzino solitamente utilizzato per i detersivi. Prese il necessario fra cui la soda caustica, candeggina, sapone, panni e stracci.

La prima cosa che fece fu indossare dei guanti in lattice e scorpaggere la soda caustica sopra i corpi, per attenuare l'odore che avrebbe provocato la decomposizione.

Li guardo per un ultima volta, e poi chiuse a chiave quello sgabuzzino.

-Pulire… si… dovrò sistemare tutto quanto…

Tolse tutto ciò che era rosso, cancellando per sempre il momento di quella fugace violenza.

Pulire, Diletta non doveva fare altro.

Tutto quanto doveva essere luccicante come un diamante, brillante come uno specchio. Su e giù, su e giù, proprio come le aveva spiegato sua madre più volte e il suo braccio ormai faceva gesti semplici quanto ben studiati, tenendo stretto lo straccio bagnato.

“Olio di gomito Diletta, olio di gomito” diceva sempre sua madre, "Per avere l’anima limpida, bisogna prima pulire la propria casa."

-Dopo tutto questo disastro, il minimo che devo fare è rimettere a posto.- Si lasciò sfuggire mentre si prese una piccola pausa, mettendosi in ginocchio e stiracchiandosi la schiena tutta indolenzita.

Le ultime coperte macchiate erano in lavatrice, i vetri opachi e sporchi ora risplendevano a quella tenue luce già filtrata anche dal bosco accanto alla casa ed aveva appena finito di lavare i pavimenti di marmo bianco.

-Il salotto è sistemato e il corridoio è più pulito che mai. Ora mi toccherà sistemare il bagno e la lavanderia o saranno davvero guai.- Continuò Diletta parlando da sola, come faceva sempre più spesso. Ogni azione, ogni piano, nella sua mente aveva una tabella di marcia con le varie tappe da percorrere che ricordava mano a mano a voce alta come se stesse dando istruzioni a qualcuno accanto a sé… Ma non c’era nessuno ad ascoltare, ormai era sola.

Quello strano silenzio la inquietava, come se le evidenziasse un punto della sua tabella che aveva saltato o a cui non aveva dato abbastanza attenzione e la sua famiglia non era lì per ricordare che cosa stesse sbagliando.

Si alzò in piedi facendo ripartire la circolazione alle gambe e si sistemò le maniche della camicia bianca che aveva rubato dall’armadio di suo fratello. Si mise anche una vecchia e calda felpa grigia, ma proprio alzandosi la zip si ricordò, fra le altre cose, che doveva anche chiudere i riscaldamenti. Si avviò in uno dei tanti corridoi verso la caldaia quando notò che un oggetto era fuori posto; a terra, vicino a un comodino di mogano, c’era una cornice con il finto vetro incrinato. La studiò attentamente, una delle infinite foto di famiglia, scattata in una di quelle vacanze costose che facevano ogni estate.

Prese quella cornice, “L’avrà rotta mamma quando ha sbattuto contro il comodino…” si disse avendo cura di sistemarla al posto suo. Continuava a fissare quello scatto, quel momento di felicità che non sarebbe mai più ritornato, come se quel ricordo la catturasse… e all’improvviso il rumore vivace del campanello la spaventò, tanto da irrigidirsi e trattenere il respiro.

Qualcuno aveva suonato, ma chi?

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