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Nerio:
Veleno. Non ho mai conosciuto ragazzi più 'velenosi' di così e non mi sto riferendo solo a Stefano, che ha cercato di rubarmi anche il libro. Sono tremendi di persona e, soprattutto, nei social network. Quando siamo a lezione o, semplicemente, fumiamo una sigaretta fuori; mi capita di prendere i loro nomi e seguirli su 'Instagram' o altre applicazioni. Ognuno di noi ha un sacco di followers, perciò non mi sembrava di fare nulla di male. Hanno cominciato a battibeccare su ogni mia fotografia. Alcuni mi hanno fatto capire che erano invidiosi come non mai del mio successo, altri hanno visto tutti gli errori nello sfondo e altri ancora sono immediatamente diventati 'haters'. Dicono che sono invidiosi del mio profilo, dei luoghi che ho visto e frequentato; di me che, 'prima di venire in questa scuola', secondo la loro idea, 'non ho mai fatto nulla di buono' e 'sono in incapace'. Se sei una persona sensibile non puoi seguire questa gente, né farti riseguire da loro... ogni foto che fai non è scattata bene, ogni luogo che frequenti vale troppo per la tua presenza... è che non mi va di cancellarli dal mio profilo perché, anche se sono più velenosi dei serpenti, sono sempre cinquanta followers in più... e temo che neanche loro mi cancelleranno e ci ostineremo a seguirci a vicenda... ma guarda tu in che casino mi sono cacciato, da solo!

Nerio si sedette a lato della struttura, su una piccola sedia in legno antico; poi mise sulle gambe un piattino di plastica, colmo di mini sandwich e biscotti salati. E fu allora che vide giungere, al suo fianco, un altro ragazzo: alto e palestrato, ma con uno strano sacco sul viso. Il giovane prese un' altra seggiola e si sedette. 'Sarà una fantasia erotica' pensò tra sé e sé 'probabilmente sta sfruttando il fatto che oggi è un giorno di festa, dunque si è conciato così'. Poco dopo, tuttavia, notò che l' interessato non aveva un cellulare di ultima generazione, bensì un aggeggio rettangolare con i tasti; che si usava negli anni '90. Portava anche una strana giacca, che si apriva e chiudeva da dietro. Dopo che Nerio ebbe terminato il pranzo, l' ultimo arrivato si avvicinò ancor di più a lui: "Scusa" gli disse "Potresti aiutarmi a tirare su la cerniera?"
"Cosa?" Rispose lui, deglutendo.
"La zip...non riesco a tirarla su da solo".
"Non sono il tipo più indicato per fare questo genere di cose..." spiegò imbarazzato, con le guance rosse come peperoni. L' altro sbruffò "Mamma mia come sei fatto! Ti ho solo chiesto di aiutarmi a tirare su la cerniera, mica ho preteso che mi togliessi i pantaloni! Io non mi vedo dietro, tu sì".
"Perché tieni quella busta sul viso? Hai paura che ti guardino in faccia?" Cercò di cambiare argomento. "Perché non ti fai i cavoli tuoi?" Farfugliò, prima di allontanarsi dal piazzale.
Intanto, all' interno delle mura, Stefano si stava godendo la sua ultima 'vittima':
"Ti ho detto di...?" Ripeté, tenendo il coltellino finto alla gola del disgraziato "Io ti ho detto...?"
"Di..." deglutì l' altro "di abbassarmi i jeans, perché ho perso contro di te a scacchi". Una risatina tetra e arrogante pervase la sala degli studenti, dove stavano loro due e altri ragazzi. "E allora? Te lo devo ripetere?". Il giovane, con le guance rosse e gli occhi lucidi, cominciò a sbottonare il bottone della Denim, facendo poi scivolare lungo le sue cosce atletiche i pantaloni; mettendo in mostra un paio di boxer neri della Yamamay. Gli altri studenti, presenti nella stanza, finsero che non stesse succedendo niente; quindi non si intromisero. Era meglio non avere niente a che fare con Stefano. "Più in giù!" Ordinò, continuando a tenere il coltello giocattolo piantato vicino alla sua laringe. Quando il bullizzato fece cadere le braghe fin sotto alle ginocchia; il bullo scoppiò in un' altra risata, grassa ed inquietante. "Rivestiti" disse dopo, allontanando l' oggetto da lui e leccandone la lama "volevo soltanto fare qualche giochetto psicologico con te". Il ragazzo, dopo essersi tirato su i calzoni, schizzò via dalla stanza, con il sudore sulla fronte e gli occhi ancora gonfi di lacrime. "Non credevo ti piacessero i maschietti" notò Shiro, disinfettandosi il piccolo buco sulla fronte, davanti a tutti. Di nuovo, gli altri ignorarono la cosa. "Mi piacciono solo i maschietti obbedienti" rispose il bulletto "Hai finito qui?" Fece cenno con gli occhi alla garza piena di sangue, perfettamente riposta in un bicchiere di aceto. "Sì, sono totalmente lucido".
"Allora andiamo alla festa, ad arrossare qualche altra chiappa".
"Agli ordini, Stefano".

Che Shiro seguisse il suo compagno di stanza in tutte le sue bravate, non era una novità. Anche prima di frequentare il collegio ne combinava di tutti i colori in Giappone. Benché avesse un QI a dir poco eccezionale, il suo carattere freddo ed invadente l' avevano portato a cercare delle 'cavie umane' per un boss della malavita. Tuttavia, le cose non andarono come previsto e Shiro si ritrovò con un 'buco da trapano' sulla fronte; un ricordo dei suoi aguzzini, sebbene non letale. Tale ferita aveva reso il migliore amico di Stefano un tantino instabile e con qualche crisi isterica in più. Se fosse nato in Italia, sarebbe stato immediatamente ricoverato in qualche clinica specializzata, dopo quell' incidente notturno e il trauma da esso scaturito. Tuttavia, il tutto si era svolto a Tokyo e, in Asia, la violenza non è poi un grande problema; specialmente se colpisce giovani dai 15 anni in su (si pensi alle punizioni corporali molto in uso nelle scuole superiori e nelle università orientali), né tanto meno, la malattia mentale.
Inoltre, c' è da dire che essere 'amici di Stefano' alle 'Otto Mura' garantiva ai ragazzi una certa incolumità. Venivano, cioè, rispettati molto più di altri. Per gli insegnanti, invece, tutti gli studenti erano uguali; sia in vita che...in morte!

Quando la diade giunse in giardino, tra gli invitati, c' erano uno strano tizio coperto con una busta di carta e una ragazzina con le trecce scure e un completino da marinaretta, seduta da sola in un angolo. Mentre Shiro cominciò a tormentare il 'povero ragazzo con la testa coperta', Stefano si avvicinò a lei. Erano mesi, dopotutto, che non vedeva una ragazza; anche se lei era un po' troppo piccola per le sue brame. "Sei sola?" Le chiese, evitando di guardare la bambola inzuppata d' acqua e alghe che teneva in grembo. "C' è chi odia le bambole" disse lei, tetra "anch' io le ho odiate un tempo...". Sollevò gli occhi, mostrando un volto più bianco del marmo delle statue e due pupille blu notte leggermente inquietanti, che forse un tempo erano state dolci e servizievoli. "Ciao Stefano" sorrise, leggermente cupa "io sono Sharpay. E anche io ho studiato qui, tempo fa".
C' era qualcosa di insolito e sublime in quella ragazzina, pensò lui. Somigliava moltissimo a Mercoledì Addams; ma non era la sola particolarità. Il suo sguardo era troppo tenebroso per una quattordicenne. Era come se avesse visto la morte. Il solo pensiero lo fece rabbrividire. "Come mi conosci?" Le domandò "Sono così famoso?"
"Tu sei, decisamente, troppo famoso, Stefano. Anche le mura ti conoscono". Sorpreso da quell' ultima scoperta, preferì avvicinarsi al banchetto: "Ci sono tanti dolci..." la invitò "lascia quella bambola e vieni a mangiare".
Sharpay eseguì, ad eccezione della bambola; che teneva stretta al petto come fosse una piccola reliquia.

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