- 6 - Dreams Come True

(Josh Balz)


Affani.
Sospiri.
Baci umidi e rubati.
Dita tra i capelli.
Sorrisi e morsi.
Movimenti lenti e rapidi.
Mani che si cercano.
Labbra che si rincorrono.
Petti che si scontrano.
Pensieri che scivolano via.
Occhi chiusi.

Occhi aperti.

Sì. Ero sveglia e quello era un sogno, un bel sogno, realistico a dir poco.

Così realistico da averli lasciato un succhiotto sulla tetta?

«AAAH!»
Mi alzai dal letto in preda al panico.
Sì, era proprio un succhiotto.
Una macchia violacea che stonava col tono bianco della pelle del petto.
Il bacio, i baci, della sera precedente non erano frutto notturno del mio subcoscio, ma ricordi.
Le macchie di cioccolato sul copriletto bianco ne erano conferma. Altra prova tangibile che preferivo era il profumo delicato del suo dopobarba, rimasto impregnato sulle coperte.
Mi inebriava e calmava, per questo rimasi come una sciocca ad odorare il letto per almeno cinque minuti.

Ora, pensa Sofia, pensa. Cosa metto per nascondere questo?!

Addio calma post-dopobarba.

Dovrei vestirmi bene per lui o risulterei patetica? In fondo è stata solo una serata a pomiciare, non è rimasto neanche qua, il disgraziato! Povera me...

Mi guardai attorno e riflettei un attimo sul da farsi, poi mi schiaffai una mano sulla coscia, come a volermi svegliare e auto-comunicarmi la decisione presa.

Mi vestirò bene, deciso. Se lo nota ok, se non lo nota - cosa probabile, i maschi mica sono attenti, sti trogloditi - tanto male; almeno non girerò come una barbona.

Mi soffermai un altro paio di secondi a pensare chi potesse fare al caso mio per scegliere cosa indossare.
Risposta ovvia: Devin.
Lui se ne intendeva e ripensando al discorso fatto con Ricky su di lui, decisi di chiedergli aiuto, proprio per tentare di costruire un rapporto civile.
«Avanti», rispose la sua voce nasale e stridula dopo che bussai.
«Ah. Sei tu.», commentò guardandomi dall'alto al basso, come se lui fosse superiore coi suoi capelli per aria, lo spazzolino in mano e la bava mista a dentifricio sugli angoli della bocca.

Sarà ardua. Allacciamo le cinture.

«Ciao, senti mi potresti dare una mano?», chiesi titubante, sforzandomi pure di essere gentile.

«Dipende.», rispose con sufficienza, mentre andava in bagno a sputare nel lavandino, sospirai per mantenere la calma. Stavo già per arrendermi ed urlargli contro.

«Si tratta di aiutarmi a trovare un outfit.», lo guardai speranzosa, incrociando le dita mentalmente.

«Non ero mica l'autore di abomini? Non pensi che possa vestirti troppo paperesca?», insinuò con aria offesa, tanto meno collaborativa.

«Avanti, stavo scherzando. Per favore! Forse sarà un buon pretesto per far pace.», lo implorai mentre nella mia testa si affollavano molti, tanti insulti.

«Ok!», rispose esasperato, «Fammi vestire e arrivo.», fisse un po' svogliatamente.
Rimasi a fissarlo contenta, sorridendo, e lui mi osservava in attesa, sollevando un sopracciglio con sguardo eloquente.
«Dunque... Hai attenzione di andartene o devo mandarti un invito ufficiale a farlo?»

«Ah... Ah, sìsì, vero.», mi risvegliai dal mio stato di imbambolamento ed uscii chiudendo la porta.
«Stanza 34.», gli ricordai rientrando in camera mentre era rimasto in boxer.

«Basta che vai!», urlò paonazzo.
Chiusi la porta divertita e percorsi il corridoio in direzione della mia stanza.
Entrò in camera senza bussare e subito esaminó le macchie di cioccolato sul letto.
«Ti sei fatta una maschera ai fanghi sul copriletto?»

«No, è stato un incidente col cioccolato.» chiarii i suoi dubbi soffocando un sorriso a ripensare a cosa causò certi aloni.
Mi guardó di sottecchi e poi aprì l'armadio e le valigie ancora non svuotate.

«Ti sei portata dietro un negozio d'abbigliamento. C'è l'imbarazzo della scelta, come hai detto che vuoi apparire?», domandò rovistando tra i miei vestiti.

Sempre poco critico.

«Bella! Ammaliante, non troppo sofisticata, ma neanche sciatta.», spiegai con aria sognante.

«Sarà un lavoro difficile.», tossì tra una parola offensiva e l'altra.
Mi arrivarono in faccia degli skinny jeans neri strappati e un top alto a mezze maniche da indossare con una canotta sotto.

«Cavolo, ho l'onore di essere vestita da Mr. Delicatezza!», esultai sarcasticamente.

«Stai mai zitta?», si alzò e si voltò verso di me con fare infastidito.

«E tu scopi mai? Sai, per smorzare l'acidità...», risposi pronta per incassare la mia vittoria a quello scontro verbale.

«Parla la verginella!», esclamò tornando a cercare le scarpe nella valigia.

«Ehi! C-chi ti dice c-che lo sono?», balbettai indispettita e presa alla sprovvista.

«Preferisci che ti chiami troietta?», chiese sfoggiando un mezzo sorriso vittorioso, mentre mi lanció delle Vans stile mocassino di tessuto nero e dei bracciali di cuoio.

«No, grazie, non reggerei il confronto con te, Mr. Ho-le-tette-di-silicone-in-valigia!», e con questo raccattai i vestiti e mi cambiai in bagno.
Mi toccò ammettere che il look scelto da quel Sassy Queen dei miei stivali mi piaceva. Uscii e lui mi squadrò portandosi i pugni sui fianchi.

Che posa virile.

«E comunque, quando mi travesto da donna, mi invidiano tutte.», controbattè .

Sbuffai, stufa di quella storia: ero decisa a farla finita.
«Devin, non abbiamo sei anni. Vogliamo finirla?», purtroppo, proprio come un bambino di quell'età appena sgridato, non rispose, neanche mi guardò in volto.
«Devin?»

«Mmh...», mugugnò e finalmente ebbe la decenza di guardarmi, «Hai ragione.»

«Non intendevo offenderti quando ho fatto quella battuta sul bavaglino di Ricky.» chiarii con tono lievemente pentito.

«Però intendevi farlo fino a cinque minuti fa.», sbottò tenendo le braccia conserte.

«Anche tu!», gli feci notare, poi sospirai esasperata, «Non è questo il punto. Dobbiamo metterci una pietra sopra... Consideriamoci pari, ok?», allungai una mano verso di lui e la prese in una delle sue.

«Tregua.», concordò, si sforzò di sorridere e mi parve una persona completamente diversa, come da giorno a notte.
«Conunque il trucco non ti servirà. Ricky ti trova già bella così come sei.», ammise attirando totalmente la mia attenzione.

«C-osa?», balbettai senza dignità, «C-ome fa-i a-a sapere c-he vo-levo- vestirmi b-ene per lu-i?», la lingua mi si impappinò rendendomi sicuramente ridicola.

«Sono un osservatore.», si vantò, «Ascolto, non dico. Guardo e non faccio. Comunque stai tranquilla che la cosa è reciproca, me l'ha pure detto lui.», ecco svelato l'arcano, voleva farla mistica.
Ancora incredula scesi con lui nel ristorante per far colazione.
Erano tutti già lì, a parte chi cercavo.

«Ricky?», chiesi io curiosa ed attenta alla sua assenza a tavola.

«È ancora in camera, vado a chiamarlo.», si offrì Chris esibendo la sua altezza alzandosi dalla sedia.

«No, vado io, tranquillo.», tentai di dissuaderlo dal salire nella camera 37.

«Sul serio, tu ancora non hai mangiato.», insistette Chris credendo di farmi un piacere.

«Va lei, io ti devo parlare.», intervenì Devin poggiando una mano sul braccio dell'amico per farlo sedere.
Il bassista mi mandandò un occhiolino di complicità e mentalmente lo ringraziai.
Uscii con calma dalla sala ristorante ed una volta fuori portata di vista dei ragazzi, iniziai a correre su per le scale.
Arrivata davanti la sua porta aspettai a bussare per riprendere fiato.
Una volta riottenuto un minimo di contegno e presentabilità bussai alla sua porta. Mi disse di entrare urlando da dentro la stanza, ignorando che fossi io.

«Rick, sono Sofia.», mi annunciai entrando e riconobbe la mia voce.

«Un attimo, Sof!»
La sua voce proveniva ovattata dal bagno dove si stava asciugando i capelli. Uscì da là e subito mi scontrai con il suo sguardo glaciale.
La mia mante tornò ai ricordi della sera precedente e le parole mi morirono in gola assieme ad ogni intenzione di trattare quell'argomento.
«Tutto ok?», domandò preoccupato dopo aver notato la mia brutta cera.

«Sì.», lo rassicurai deglutendo rumorosamente.
«Allora? Hai programmi per oggi?», domandai con voce squillante, camuffando le mie preoccupazioni.

«Non esattamente, mi piacerebbe visitare la città. Tu la conosci, no?», sembrava totalmente a suo agio e non osava toccare la discussione su quanto avvenuto nella mia camera.
Lo notai proprio perché infondo al cuore speravo di parlarne con lui, e fui costretta ad ammetterlo a me stessa.

«Sì, ti posso fare da guida. Se vuoi possiamo fare colazione in qualche bar.», proposi di getto, senza pensarci.

«Certo.», prese la giacca e a quel segnale mi incamminai verso la porta.

Mi girai e portai una mano alla fronte, in panico. Era per caso un appuntanto?
Che disastro.
Non ce l'avrei fatta, me lo sentivo, in più sembrava che si fosse dimenticato di tutto quello che era successo la sera prima, quindi era inutile considerarlo un appuntamento se nemmeno gli interessavo.
Mi sentii sciocca nell'aver sperato in un gesto dolce.
Mi sentii mortificata.
L'imbarazzo era tangibile come le sue mani tra i miei capelli la notte prima.
Accidenti. Smettila di rimuginarci sopra, è stato solo un bel passatempo per entrambi.

Mi voltai di nuovo verso di lui che mi guardava allarmato.
«Sicura che va tutto bene?»
Annuii, ma una lacrima mi tradì, al ché mi tirò a sè in un abbraccio.
Con una mano mi carezzò la ferita sulla guancia.
Ah, le sue mani. Erano così calde e grandi: parevano così forti ed invincibili che ti facevano sentire protetta.
«Lo so, ti mancano i tuoi famigliari, i tuoi amici... Col tempo, diventeremo noi la tua nuova casa.», mi rassicurò con dolcezza, convinto di consolarmi.

Non pensa minimamente che... Dio, non ha prestesti per farlo, sono solo io ad avere certe aspettative.

Il mio pianto si intensificò, quindi mi posò un bacio sulla fronte per poi sussurrarmi all'orecchio.
«Facevi tenerezza ieri sera, quando ti sei addormentata abbracciata a me.»
Lungo la mia schiena si scatenò una scia di brividi che seguivano la colonna vertebrale per tutta la sua lunghezza.
Allentai la presa, allontanandomi quanto bastava per guardarlo sbigottita. Si ricordava.

Sciolse la presa che esercitava sulla mia schiena e mi apprestai ad uscire dandogli le spalle, non intendevo mostrare il mio rossore, ma mi bloccò.
«Dove pensi di andare senza riserve?»
Aprì una borsa e ne tiró fuori mezza fabbrica di cioccolato da cui prese un rifornimento per la giornata.

Con passo felpato attraversammo i corridoi e quando arrivammo vicino alla stanza di Ryan, notammo che la porta era aperta e lui era dentro ad ascoltare musica e a ballare.
«Di sicuro si farà riprendere dal personale.», commentai divertita, mantenendo il tono basso.
Passammo acquattati e con passo felpato; Ryan non se ne accorse e continuò a ballare come se la porta fosse chiusa e nessuno lo vedesse.

«Perché siamo scappati di nascosto?», chiesi ridendo, eccitata da quella fuga improvvisata.

«Perché voglio poter stare soli. Andiamo!», mi prese una mano e iniziò a camminare a passo spedito, «Voglio vedere più cose possibili: oggi sono un turista.»

Andammo a vedere il Duomo, come sua prima richiesta.
La piazza straripava di coppiette abbracciate, tavolini da bar circondati da gente che gustava caffè e brioches.
Uno stormo di ragazzi dai dodici ai tredici anni scattavano foto alla cattedrale gotica, erano in gita e suscitavano urla stressate delle insegnanti.
Il traffico affluiva lento come assopito dal fresco dell'autunno.
Ammirare il duomo, tentare di scorgere la Madonna d'oro sulla guglia più alta. Con lui per mano, anche quel monumentale insieme di marmo bianco sembrava piccolo.
Stare a fianco di Ricky mi faceva sentire più forte e in pace col mondo.
Cosa assurda per la sottoscritta.
Me ne resi conto e sorrisi pensandoci, proprio mentre Rick fece scivolare il suo sguardo su di me.
Contagiai anche il suo sorriso che presto si incastrò col mio in un bacio.

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