- 47 - Cerrie's Misdeed

Assottigliai gli occhi, fino a ridurli a due affilate fessure.
Strinsi i pungi così tanto da percepire il bruciore delle unghie premure contro il palmo, le quali vi lasciarono i solchi rossi impressi.
Istintivamente le mie labbra si piegarono in una smorfia cagnesca e ogni mio muscolo si tese, pronto a liberare ogni mia più profonda, violenta e brutale fantasia di uccidere quella ragazza.

Un passo in avanti fatto a fatica perché trattenuto dal mio autocontrollo, poi un altro più determinato, uno successivo che stava abbattendo la mia tempra.
Ancora passi che si susseguivano, sempre più irruenti, diretti alla sua filiforme siluette.
Meno diventava la distanza tra di noi è più acre si faceva il tanfo d'alcol che l'avvolgeva, mentre la nuvola che circondava Ryan era di una fragranza più dolciastra e bruciante, tipica di uno spinello.

Ad ogni passo fatto in avanti, il suo volto si illuminava di un sorriso tirato fino a che non emise una risata fiacca.
Alzò un braccio, la mano aperta e all'altezza delle spalle, come a voler iniziare un monologo; tentativo ostacolato dal mio gesto di afferrarle il polso e stringerlo per portarla a fissarmi fermamente negli occhi.

Ci riprovò.
«Senti.», mi disse quando ci ritrovammo faccia a faccia, una spanna tra i nostri volti e ancor meno tra i nostri petti.
«Seriamente, ho letto sulle riviste cosa vi è successo. Non era mia intenzione, mi spiace.», la sua voce, seppur alterata dalla sbornia, era placida e oserei dire seria. Per riflesso naturale alle sue parole, aumentai la pressione sul suo polso facendola gemere dal dolore.
Strinse i denti e continuò, sfoggiando un sorriso spaventosamente smagliante, «Spero non ci siano risentimenti.»

«È TUTTO UN FOTTUTO GIOCO PER TE?», esclamai causandomi una lancinante fitta alla gola.
La strattonai per lo stesso punto su cui avevo serrato il mio pugno, digrignando i denti.

«Più o meno, ma posso spieg-»

La parte più primitiva del mio cervello prese totalmente il sopravvento e fu così che un mio destro colpì la sua mascella.
Il mix tra vino, droga e pugno le fecero perdere l'equilibrio, girò su sé stessa fino a trovare sostegno sul cornicione al quale si aggrappò con le braccia e si ritirò in piedi, ancora frastornata.

Avevo il battito accelerato e di conseguenza il respiro più incalzante del normale. Sentivo pulsare le nocche che si erano scontrate con la sua faccia di tolla.
In un attimo troppo repentino per i miei occhi, Cerrie si attaccò ai miei capelli, tirandoli con forza.
Quando le mie mani circondarono il suo collo, desiderose di soffocarla, lei passò ad un contrattacco fatto di graffi al mio viso che bruciava, dove le sue unghie recidevano la pelle.
Iniziammo a schiamazzare, continuando a colpirci senza neanche ponderare i nostri movimenti, talvolta tirando manate in aria, strattonandoci fino a cadere a terra e rotolare.
Dopo qualche sforzo la sovrastai, poggiando un ginocchio sul suo sterno e continuando a colpirla, ma per poco.
Della braccia a me sconosciute mi sollevarono di peso, allontanandomi inesorabilmente da lei.
Scalciai per liberarmi, bramosa della sua fine, della sua gola sgretolata tra le mie dita.

«LASCIATEMI! VOGLIO MORTA QUELLA PUTTANA!», strillai facendo fischiare i miei stessi timpani.
Dopo che le lacrime, quali non avevo neanche notato, smisero di offuscarmi la vista, notai una guardia trattenere Cerrie nello stesso modo col cui placcavano me.
Volevo eliminarla, volevo porre un punto ai respiri, ai battiti del cuore marcio di chi mi stava distruggendo la vita.

«È MATTA, MI VOLEVA UCCIDERE!», urlò come una gallina, mentre terrorizzata si dimenava dalla stretta dell'uomo in divisa.
Perspicace la ragazza, devo ammetterlo.

Giunti in una sala d'attesa, trovai riuniti i volti più cari che avevo. Molti si alzarono allarmati a vedermi immobilizzata, con le braccia congiunte dietro la schiena, da quell'ammasso di muscoli. Di sicuro la presenza di Aurora agitò ulteriormente le acque.
«Sofia!», dal nulla, Charlotte mi buttò le braccia al collo, abbracciandomi calorosamente ed...

Umidamente? Sono lacrime quelle che le rigavano il viso e le sconvolgevano il trucco?

La presa dell'infermiere nerboruto si allentò, permettendo alla ragazza di stringermi meglio.
Sapevo della sua emotività e sensibilità - al limite dell'esagerazione -, ma non di quell'affetto e apprensione nei miei confronti.
«Quando Chris mi ha chiamata sono subito corsa qua. Poi, quando ho parcheggiato, ho visto Ryan e un'altra persona sul tetto ho avvisato di corsa le prime persone che ho trovato. Non immaginavo minimamente che tu e Rick foste lì.»

Soltanto quando sentii il nome di mio marito mi ricordai di averlo scordato; buffo paradosso, vero?
«Ricky?», domandai cercandolo tra i presenti.

«È con Ryan, nella sua stanza. È stato lui a portarlo giù.», mi spiegò apprensiva Charlie, o meglio, Charly - così preferiva esser chiamata.
Ancora scossa da quell'improvvisa ondata d'amore e incredula per lo scontro, non mi resi quasi conto che l'infermiere aveva ripreso a far pressione sui polsi, scortandomi con forza in una saletta appartata e grigia, dove mi sarei ritrovata chiusa in compagnia di Cerrie ed un ufficiale di polizia.

«Bene. Cos'abbiamo qui?», disse il pubblico ufficiale leggendo attentamente la mia fedina penale sul tablet d'ufficio che teneva in mano.
Faceva su e giù per il piccolo ambiente spoglio, finché non si fermò di colpo ed aggrottò le ciglia folte e bionde, tendenti al rossiccio.
Alzò lo sguardo verde speranza su di me e mi sentii a disagio sotto il suo silenzioso esame.
Avrà avuto una quarantina d'anni ed era austero, con una voce abissale e autoritaria.
Sì. Decisamente a disagio.
«Non siamo proprio delle sante, eh?», commentò francamente guardandomi un'ultima volta prima di continuare a leggere.
Cerrie sorrise compiaciuta.
«Mi riferivo ad entrambe.», la gelò senza neanche distrarre la sua attenzione dallo schermo.

Mi chiesi come diavolo fosse riuscito a notare la sua silente soddisfazione, se non la degnò minimamente di uno sguardo. Più passavano i secondi e più l'inquietudine si faceva strada nel mio animo. Più lo osservavo e più si rafforzava l'idea che mi ero fatta sul suo conto: era certamente un uomo col fegato, preciso, sicuro di sé e delle sue risorse di cui andava - giustamente - fiero; si notava dai suoi modi, dagli atteggiamenti decisi, ma di classe. In poche parole sapeva il fatto suo e non era un "fatto" con cui scherzare.

«Quindi: una truffatrice ubriaca e con possesso di sostanze stupefacenti, di cui fa pure uso; e una candida assassina con scatti d'aggressività.
Interessante.»

A quelle parole da parte mia e di Cerrie si levò un vivo vociare, confuso e da creare mal di testa. Tutte e due stavamo giustificando le nostre azioni, spiegando le dinamiche secondo i nostri punti di vista.
«Sto cercando di spiegare, stai zitta?», le urlai infastidita.

«È quello che sto facendo io!», s'inviperì a sua volta, battendo un palmo sulla superficie del tavolo al quale eravamo accomodate.
Quando la discussione si animò, a tal punto dal portarci ad alzarci dalle sedie e prolungarci verso l'altra sponda del tavolo nel tentativo di colpirci a vicenda, il poliziotto ci zittì con un unico urlo più simile al boato di un tuono, che ad una voce umana.
Ci voltammo sorprese a guardarlo e nulla sembrava turbarlo, era rilassato e sul suo volto non compariva nemmeno un rossore causato dall'urlo potente di qualche attimo primo.

«Signorina, mi vorrebbe dire cosa è successo?», mi domandò con più garbo quando ottenne il totale silenzio.

«Ha preso i soldi ed è scappata, lasciandoci in un mare di mer-», mi squadrò con aria arcigna, a quanto pareva le scurrilità non gli garbavano. «Ehm, un mare di problemi.», mi corressi timidamente.
L'uomo fece un cenno con la testa per spronarmi a continuare.
«Eh, accidenti! Cos'hai nel cervello per fare ubriacare e drogare un malato di cancro sul tetto di un ospedale?!», sbottai contro la ragazza che, sotto gli effetti della marijuana, iniziò a sghignazzare dei suoi misfatti.

«Lei ha da dire qualcosa?», gli occhi del poliziotto passarono ad esaminare il volto di Cerrie, teso in una risata convulsa, snervante.

«Ho solo esaudito i suoi desideri; soffriva il poveretto, di cuore.», si giustificò.

«Di polmoni.», la corressi, ma lei insistì.

«No, no. Di c-u-o-r-e.», improvvisamente nei suoi occhi balenò un barlume di serietà.
«Ha paura di morire e quindi ha le sue volontà, la lista di cosa fare prima di din-don-dan.», mentre imitava il suono delle campane in lutto, mimò Ryan in punto di morte, urtando notevolmente i miei nervi.
Poggiò i piedi sulla superficie consunta del tavolo e si dondolò sulla sedia, continuando il discorso disinvolta, «Poi si sente in colpa per i costi della chemio, in più credo che soffra d'amore. Cazzo, davvero... Poveraccio, mi dispiace per lui.»
Le sue parole era disinteressate, ma dal suo sguardo, da certe inclinazioni della sua voce, sembrava esser coinvolta emotivamente dallo stato di Sitkowski.
Era incapibile.

«Questo non giustifica le sue azioni, sopratutto il possesso e l'uso di sostanze stupefacenti.», l'agente Butney - così lessi dalla targhetta sulla divisa - sottolineò l'ovvio e si massaggiò gli occhi stanchi essendo chiaramente frustrato da tale situazione; probabilmente sperava in una giornata tranquilla, al limite della noia, senza novità di questo genere.

«Lei può andare, porterò la signorina...», controllò velocemente sul tablet, ma Cerrie gli rispose più prontamente.

«Ceriani.»

«...Ceriani in centrale.», concluse.
Probabilmente mi volle lasciare totalmente impunita per scarsa voglia di lavorare, tratto che stonava con la personalità che gli avevo affibbiato superficialmente.

«Uhm... Scusi, agente. Un'ultima cosa.», attirai la sua attenzione bloccando la sua camminata lenta ed esausta verso la furfante.
Con uno sguardo mi concesse la parola, mantenendo l'attenzione sulla mia figura così bassa confronto alla sua da farmi parere una bambina.

«I soldi della sua truffa, come posso, possiamo riaverli?»

«Non puoi.», rispose prontamente Cerrie, «Li ho spesi quasi tutti.»

«Li restituirai col tempo.», risposi alla sua frecciatina replicando il suo tono spavaldo. Mi voltai vittoriosa e mi diressi verso la porta.

«Non sono tenuta a farlo perché non è stato firmato nessun contratto.», le sue parole mi trafissero alla schiena.
La mia mano era sospesa a mezz'aria, protesa verso la maniglia.
Mi voltai lentamente e la guardai senza parole; tentai di dire qualcosa, ma farfugliai e basta.

Ero rimasta di stucco e nella mia testa mi vorticavano le sue ultime parole.

Nessun contratto.
Nessun contratto.
Nessun contratto.
«Nessun contratto?!», strillai contro Devin, dato che fu il primo che si piazzò sul mio cammino.
Ryan-Ash, Giulia e Charlotte non capirono, ma i ragazzi - che erano a conoscienza - sì.
Tutti i volti dei membri della band, di Korel e gli altri si scurirono all'istante.

«Sof, posso capi-... Senti, calmati che ti spiego.», tentò Josh Korel, facendo cautamente il gesto azzardato di poggiare le mani sulle mie spalle, tentando di rilassarmi.

«Non mi calmo, no!», rivolsi il mio sguardo a Rick, incolpandolo con esso.
Ricordai tutte le volte che incolpò me e le ragazze per "aver scelto Cerrie".
Lui era consapevole e mi aveva tenuta all'oscuro di quella loro enorme cazzata. Altre parole per descrivere quel loro errore madornale non c'erano.
Tutti lo sapevano, tutti loro sapevano, ma nessuno lo disse a noi donne della band.
Ricky abbassò gli occhi non riuscendo a sostenere le mie occhiate furiose.

«Potreste spiegarmi?», intervenì Ryan-Ash che aveva già intuito in parte e per questo stava iniziando a perdere le staffe. Cercò di contenersi stringendo le braccia al petto e strizzando gli occhi.

«Hanno pagato Cerrie senza stilare alcun contratto!», sbottai gesticolando animatamente.

«Avete avuto pure il coraggio di incolparci e criticarci!», Giulia scattò in piedi ed Hazel si agitò nel passeggino.

«Non avevamo il tempo necessario per tutte le pratiche burocratiche. Il tour sarebbe iniziato prima.», spiegò Korel che ricevette uno schiaffo dalla moglie.

«Sei stato un cretino! Tutti i litigi, tutto lo stress, la sofferenza, i problemi di nostro figlio causati dai battibecchi. Mi hai scaricato addosso la colpa, quando è principalmente una tua responsabilità!»
Fu così che diede voce, risentita, a tutto quello che avrei voluto sputare in faccia a Richard.
Mels, rossa in viso, prese in braccio Jace - il suo bambino - e se ne andò via con passo deciso e spedito, lasciando il marito con una guancia dolorante e un volto pentito, seduto mollemente su una sedia nella sala d'aspetto.

«Ci dispiace.», sussurrò Chris.

«Io me ne vado.», annunciò Charly con una nota di delusione nella voce bassa.
Raccolse in fretta borsa e cappotto, che infilò immediatamente con altrettanta lena, poi si allontanò indisturbata, con passo svelto. Come mrs. Korel, era rimasta ferita dall'omertà di Chris, di tutti.

«Chris, Ryan chiede di te!», una donna affannata si affacciò alla porta, spezzando il silenzio teso.
Conoscevo la sua voce e quando possai gli occhi su di lei sorrisi, accantonando per qualche istante il risentimento.

«Allie.», esultai sorpresa e contenta, nonostante il momento e le circostanze dell'incontro. Lei si avvicinò e mi salutò con un caloroso abbraccio e poi passò a stringere la tatuatrice.
Era da molto che non la vedevo, da quando si era trasferita definitivamente fuori Scranton, allontanandosi completamente da noi.
Il motivo, lo scopo, era quello di cambiare vita e non aver assolutamente nulla che le ricordasse Ryan.
Era leggermente più magra di quel che ricordavo e senza un filo di trucco.
I capelli lunghi e scuri erano mortificati in una coda di cavallo disordinata.
Il suo viso trasmetteva tutta la sua stanchezza.
«Vuoi uscire un po', magari andare anche soltanto alla caffetteria dell'ospedale?», le proposi. Avrebbe giovato a tutte. In quel momento non mi andava di stare nella stessa stanza di Rick; ero troppo delusa ed arrabbiata con lui.

«Posso auto-invitarmi?», domandò Ryan-Ashley che, nella mia mente, era già inclusa. Lasciai rispondere ad Allie, essendo lei la diretta interessata. Annuì accennando un sorriso debole.

«Giuli?», chiesi girandomi a guardarla.

«No, grazie. Credo di tornare a casa: Hazel è stanca e non è l'unica.»
Giulia ci salutò e precedette Devin che spinse il passeggino, diretti all'auto.
Lui mi sfilò davanti con la carrozzina e mi guardò, con un sorriso di salutó, di circostanza. Lo guardai male.
Non me ne facevo nulla dei loro sorrisi quando erano stati dei bugiardi, consapevoli di esser nel torto, incolpando noi innocenti e, quindi, aggiungendoci altre sofferenze.
No. Assolutamente. Dei loro sorrisi non me ne facevo nulla, se non ficcarglieli su per cose oscure.

Un po' per il risentimento generale, un po' perché erano già comodi nella loro attesa silenziosa di notizie su Ryan, io e le ragazze non ci curammo degli altri e ci dirigemmo alla caffetteria.
Là ci accomodammo ad un tavolino rotondo e anonimo, il posto era poco affollato e tranquillo; perfetto.
«Alla fine sei venuta a trovarlo. Come stai, è stato difficile rivederlo dopo così tanto?», le chiese Ryan-Ash porgendole la mano in segno di sostegno emotivo.

Allie respirò a fondo, rimuginando sui suoi sentimenti e quando finalmente ci guardò, pronta a raccontare, i suoi occhi erano lucidi.
«A dire il vero, l'ho visto ancora prima.», ci rivelò.
«Quando mi avete chiamata per dirmi del tumore ai polmoni, io non riuscivo a crederci, ho avuto un tuffo al cuore.
Eppure non avevo intenzione di fargli visita, mi ero imposta di rimanergli distante sia fisicamente che emotivamente; mi ero addirittura illusa che non mi importasse, forse per non soffrirci. Poi un giorno sono venuta qua in ospedale per richiedere le copie di alcuni documenti e passando per i corridoi l'ho visto.»
Con la scusa di bere il suo caffè bollente, Allie sciolse la stretta di mano dell'amica, come se la sua confessione fosse troppo intima e dolorosa anche per noi e che, il contatto fisico tra le loro dita, la esponesse di più, rendendola ancor più vulnerabile.
Tremò appena e strinse maggiormente il contenitore della sua bevanda.

«Fai con calma, tranquilla.», la rassicurai apprensiva, scrutando la sua espressione specchio di un umore grigio.

Lei inspirò a fondo, nuovamente, e riprese a parlare.
«Non era solo. C'era una ragazza con lui e gli teneva la mano, gliela accarezzava.»

A quel punto aggrottai la fronte chiedendomi chi mai fosse la ragazza in questione.
Di sicuro aveva fatto conoscenza di Charlotte, quale non faceva parte della combriccola quando lei si allontanò.
Quindi perché non dire il suo nome?
Semplicemente perché non si trattava di lei, ma di qualcun altro che neanche io conoscevo.
Tutti noi, compresa Allie, conoscevamo chiunque fosse caro di Ryan.
Chi era?

«Sì sono baciati, teneramente. A quel punto mi sono sentita trafitta al cuore, ho capito che nonostante il tempo io sono ancora legata a Ryan in modo viscerale e doloroso. Per questo, quando Chris mi ha chiamata dicendomi che era scomparso, la paura di perderlo totalmente mi ha fatta correre qua.», concluse guardandosi le unghie insolitamente non smaltate.
«È stato strano, troppe emozioni assieme per riconoscer-»

«Aspetta.», la fermai.
«Chi era la ragazza con lui?», le chiesi con una terribile ipotesi in mente.

«Non ne ho idea, perc-?»

«Descrivila.», intervenne prontamente Ryan-Ash che fremeva sulle spiene.
Probabilmente anche lei era già arrivata alla mia stessa conclusione e mi scambiò un sguardo preoccupato.

«Non tanto alta e molto snella. Aveva i capelli castani e non lunghi, se non ricordo male aveva una bandana a tenerli lontani dagli occhi. Ecco, gli occhi erano grandi, ma non ricordo il colore...», Ellie la descrisse sforzandosi un poco, confusa dalla nostra irruenta curiosità.

A quelle parole, io e Ryan-Ashley ci alzammo di colpo dal tavolo, in simultanea.
Allo stesso modo le nostre voci strozzate dalla sorpresa si fusero assieme.

«Cerrie.»

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