- 46 - Misery

«La smetti di tenere il broncio?», sbottai contro mio marito.
Manteneva l'attenzione sulla strada con sguardo torvo, stringendo convulsamente i pugni attorno il volante che pareva quasi sgretolarsi a quella presa ferrea.
«Puoi anche guardarmi, sai?», insistii iniziando a scaldarmi a mia volta, «Oppure sei talmente infantile che non puoi distrarti minimamente dai tuoi capric-»

Una fitta, che mi ammutolì, seguiva uno sguardo cupo.
I suoi occhi erano torbidi e velati da una rabbia bruciante.
«Dovevi starne fuori, capito?», si limitò a dire in un ringhiò che increspò le sue labbra malridotte dall'ultimo freddo prima della primavera che le screpolava.

«Ricky, io...»

«Sono stufo della tua testa calda!»
Eccolo, il solito copione che dava il via ai litigi che si stavano infoltendo negli ultimi mesi.

«Davvero? Stavo per dire lo stesso di te.», sentenziai sentendo la rabbia spingere contro il diaframma, desiderosa di potersi liberare in un urlo.

«È colpa tua. Tua e delle ragazze, ma sopratutto tua!», continuò voltandosi verso di me completamente, dato che l'auto ormai era ferma sul ciglio della strada che portava all'ospedale.

«Mia? Che ne sapevo io che quella Cerrie si sarebbe intascata i soldi per poi scomparire!», cercai di difendermi con la solita arringa.

«Se fossi rimasta a casa, se tu e le tue amiche non vi foste impicciate riguardo le audizioni, se-»

«Certo, perché se fanno un errore - che non è neanche di nostra responsabilità - allora diventano amiche solo mie. Siete stati voi, con Korel, ad anticiparle tutti i soldi! Veramente molto furbi.», spostai il mio sguardo verso il mio finestrino, notando come il vento freddo infierisse sui rami spogli, quasi pareva al ritmo del nostro litigio.

«Voi l'avete scelta!», Richard esplose.
Sbattè un pugno contro il cruscotto, causando la caduta del profumo per auto sagomato a forma di pino, che prima era affisso, in precario equilibrio, allo specchio retrovisore.

«Basta, non ti voglio più sentire!», strillai aprendo la mia portiera, «Sei un bambino. Non puoi mai ammettere di aver sbagliato, devi scaricare la colpa su di me, non è così?»
Riconobbi all'istante quell'incinfondibile prurito alla gola, che quasi brucia.
Il pizzicore agli occhi presagiva lacrime di frustrazione, d'ira e delusione.
Rimase in silenzio, non per la mortificazione, ma per trattenere l'ira che fluiva dal suo sguardo. Lo guardai altri due secondi, come a concedergli la chance di ritrattare, di scusarsi e ammettere che non era mia responsabilità. Gli attimi passarono. Immutati.
«Va' al diavolo!», sbottai, sbattendo la portiera.

Il nostro rapporto si era ridotto a litigi e sessioni di sesso sfrenato, non più intriso d'affetto, ma di rabbia.
Quello che fino a poco tempo prima era un matrimonio normale, dettato dall'amore e amicizia che legava me e Rick, si era tramutato in quel che speravo non diventasse: il disastrato matrimonio dei miei genitori.
Ricordavo quante volte, in passato, da piccola, mi ero ripromessa che i problemi economici non avrebbero intaccato il mio futuro da lieto fine, e invece, le cause che devastarono l'unione di mamma e papà stavano degradando anche la nostra: i soldi.
I soldi che iniziavano a mancare e che minavano la tranquillità di tutti.
Cerrie, la talentuosa chitarrista che avrebbe dovuto sostituire Ryan durante il tour, si dimostrò altrettanto brava nel mentire; una volta ottenuto il denaro dell'ingaggio si dileguò, lasciando la band con un grande deficit economico oltre che senza chitarra solista.
Da lì, le cose sono peggiorate.
I costi per le cure di Ryan iniziavano a gravare e la sua assicurazione non copriva tutte le spese, quindi iniziammo a pagare noi e le nostre famiglie, nonostante i Balz e i Sola avessero pure figli.
Il tour fu cancellato, portando altra miseria che costrinse i ragazzi ad un avventato tentativo di fare uscire un nuovo album, o quanto meno un EP che rilasciarono e si rivelò un vero fiasco. Fu realizzato in tempo record, con arrangiamenti già sentiti e testi deboli; Chris e Ricky non riuscivano più a comporre, devastati dal peso della questione: Ryan in pericolo vitale, il campo amoroso in declino, la band che sfiora la bancarotta...

Senza rendermene conto, forse perché stavo ripensando a tutto questo, mi ritrovai a camminare al lato della carreggiata desolata, nel senso contrario a quello che aveva preso l'auto di Rick; o almeno così credevo.

«Sofia!», mi chiamò la sua voce, era rimasto in auto e si stava sporgendo dal finestrino abbassato.

«Non ho intenzione di litigare ancora, mandati a cagare da solo e finiamola qua!», gli urlai in risposta, separati da molti metri che iniziò a diminuire venendomi incontro con la macchina, in retromarcia.

«Non è per me. È PER RYAN!», disse con tutta la voce che aveva nei polmoni, facendomi sentire anche a quella distanza tutta la preoccupazione che lo avvolgeva.
Una volta che arrivò a solamente cinque metri da me, fermò l'auto e mi raggiunse correndo e prendendomi frettolosamente per il polso, ridestandomi da una sorta di trance in cui neanche mi resi conto di essere caduta.
«Avremo tempo dopo di discutere e insultarci, ora dobbiamo muoverci!», mi disse, probabilmente perché interpretò la mia resistenza alla corsa verso la vettura come un capriccio a continuare il bisticcio.
Le mie gambe mi mossero automaticamente, come se si fossero prese il permesso di dirigere il corpo supplendo il mio cervello che, per il momento, era concentrato su una serie di pensieri confusi.

Ce l'avremmo fatta io e Ricky ad uscire da quel loop di battibecchi e notti, sempre insonni, alterne a lacrime e lotte sotto le coperte?
Ryan sarebbe tornato ad essere il buffone della compagnia?
È stato veramente giusto sposarmi così presto con Rick?

La sua mano grande e calda, si poggiò sulla mia e la strinse con una delicatezza quasi timida.
Sospirò e si leccò le labbra prima di parlare, «Ricorda che ti amo.»
Le sue erano parole sofferte, cariche di pentimento e stanchezza che mi fecero tremare davanti alla mia esitazione a rispondere con un "Anch'io."
Seppur il viaggio fosse veloce, il tempo per parlare, riferirmi cosa fosse successo a Ryan c'era, ma non fu usato; piuttosto preferimmo stare zitti, lasciando come unico punto d'incontro le nostre mani perché le nostre menti erano troppo lontane.

«Non lo troviamo!», Chris ci avvertì col fiatone.
Ci incontrammo in corridoio, quasi scontrandoci perché tutti stavamo correndo senza meta, io addirittura senza sapere il perché, ma le parole di Christopher erano un ovvio indizio.
Guardai verso la stanza di Ryan, la porta aperta lasciava scorgere il letto vuoto, circondato da personale ospedaliero allarmato e macchinari che prima erano attaccati all'uomo.
Una fitta di paura mi trafisse, dove diavolo poteva essere?

«Io vado a vedere nei sotterranei.», ci avvertì Chris, sbrigativo.

«Sicuro che si può?», gli chiese Rick con voce affaticata.

«Sì, hanno dato codice rosso, siamo autorizzati ad accedere ovunque, pur di trovarlo. Basta che dici di essere suo caro e che lo stai cercarlo.», ci informò, mentre già si stava allontanando a passo svelto che, finita la frase, si tramutò in corsa sfrenata.

«Vado sul tetto.», una parte di me, dal profondo del mio essere, forse un sesto senso, mi suggerì di cercare là.

«Come?», si allarmò Ricky vedendomi correre via da lui.
«Aspettami!»
In pochi secondi fui affiancata da lui.

«Tu prendi l'ascensore.», mi ordinò, mentre lui si incamminò verso la tromba di scale d'emergenza.
Si lanciò contro il maniglione antipatico, spingendolo ed entrando. Lo vidi iniziare a salire di corsa, mentre attendevo l'ascensore.
Non appena si aprirono la porte, mi ci fiondai dentro, urtando e ostacolando le persone che volevano uscire.
Schiacciai il tasto per il piano più alto a cui arrivava quella scatola infernale.
Odiavo gli ascensori e la mia claustrofobia, seppur lieve, fu insopportabile perché aggravata dalla situazione. Le quattro pareti sembrano farsi troppo anguste nell'attesa che quel trabiccolo dannatamente lento arrivasse a destinazione.
Col fiato ancora corto, uscii sentendomi già meglio e respirando a fondo, e presi le scale.
Da qualche piano più sotto proveniva l'eco dei rapidi passi di Rick che stava salendo.
Al termine dell'ultima rampa c'era una porta, forzata dal piede di porco in cui stavo per inciampare.

Rantolai per qualche altro metro del tetto e poi, per la fatica, caddi a terra con le ginocchia.
Sputai sul suolo e ripresi a respirare affannosamente.
Ricky mi raggiunse e si sdraiò, stremato. Se le mie gambe erano stanche, allora le sue non lo reggevano più in piedi dopo tutti quei piani.
Mi rialzai un po' traballante e mi diedi un'occhiata intorno, individuando due sagome vicino al cornicione.
«Richard.», lo chiamai a fatica indicando le due persone, «Forse è... È...»
Non finii la frase, non dovevo sprecare fiato utile per correre incontro al possibile Ryan.
Più mi avvicinavo e più dettagli dei due mi si facevano chiari: la figura più bassa ed esile teneva in mano un bottiglione di pessimo vino quasi terminato; l'altra più alta e rubusta, coi capelli che ricoprivano a chiazze il capo chino, portava alla bocca quella che pareva una canna.
«Ryan!», strillai disperata.
I due volti si girarono.
Il primo che notai mi lasciò senza parole: boccoli soffici e castani, sistemati con una bandana rossa a contrasto con la fronte perlacea; grandi occhi grigio-verdi e arrossati, complici di un sorriso sbarazzino ed innaturale.

Quello che presunsi fosse Ricky mi si avvicinò, anche lui perplesso.
Mi posò una mano sulla spalla per reggersi in piedi ed il suo fiato caldo ed affaticato mi solleticava il collo.
Sgranai gli occhi.
«Tu...», fu l'unica cosa che riuscii a dire, presa da uno stupore che velocemente veniva sostituito da un odio cieco.

«Io.», disse in un acuto risolino, reso ancora più odioso dall'alcol che minacciava il suo equlibrio.

Strinsi i pugni e digrignai i denti, perché davanti a me, accanto allo sfiancato Ryan, stava in piedi, a fatica, la causa di tutti quei mesi di sofferenza.

Cerrie.

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