- 31 - The Interview
(Ryan lo tira su come un fagiolo ed io piango, rido, saltello e piango ancora, mamma mia.)
Ciò che avevo sotto la schiena era dannatamente scomodo.
Aprii gli occhi.
Precisi fasci di luce illuminavano il freddo pavimento di cemento, provenivano da una piccola ed alta finestra sopra il mio giaciglio, aveva delle solide sbarre di ferro.
Ce ne erano altre sul lato opposto.
Era una grigia e gelida cella.
Ero sola e in gabbia.
I miei peggiori incubi si materializzarono attorno a me con dei muri inespugnabili.
La testa iniziò a girarmi vorticosamente, la vista mi mostrava una stanza in continuo movimento.
Caddi a terra a ginocchioni sentendo l'ossigeno mancarmi. Strabuzzai gli occhi, portando una mano al petto, sul cuore che batteva a ritmo irregolare, sprigionando un dolore acuto.
Attorno a me i colori di ogni cosa si stavano amalgamando in un turbinio confuso, che destabilizzava la vista.
Una guardia aprì e mi raggiunse mentre boccheggiavo a terra.
«Franco! Chiama un medico, è bianca come un cencio e non respira!», urlò l'uomo in divisa dopo avermi circondata con un braccio.
Mi teneva la testa eretta e mi disse con tono fermo di respirare, ma non ci riuscivo.
Presto quello che pareva un medico di mezza età entrò nella cella seguito da un altro ufficiale.
Mi stesero sul letto che pareva di marmo e si accertarono della mia salute. Sentii un bruciore, come un minuscolo pizzicotto nell'incavo del gomito. Le voci erano ovattate, le figure sfuocate.
«È solo un attacco di panico.», riuscii a catturare quelle parole che mi rimbombavano in testa.
«Ricky...», lo chiamai in un sussurro, disperata, poco prima di scivolare in un sonno lungo, pesante, innaturale.
Aprii nuovamente gli occhi con le palpitazioni, mi faceva male il petto talmente forte pompava il cuore.
Per un attimo pensai, sperai, si trattasse di un incubo notturno, ma sul mio braccio avevo un cerotto.
Mi aveva iniettato un potente ansiolitico e la testa mi pulsava.
Ero vestita di un cotone grezzo e grigio tortora, come la cella.
Notai su un tavolo i miei vestiti ripiegati e ricordai tutto della sera precedente: la cena, il litigio, le risate, i volti dei miei cari, la proposta di Rick interrotta dal nostro arresto, Giulia e... La bambina!
«GUARDIA!», urlai abbattendomi sulle sbarre. Barcollavo per la pressione bassa, ma continuavo a strillare per farmi sentire perquotendo ciò che mi separava dalla libertà.
«GUARDIA!»
«Cosa?», chiese affannato e preoccupato l'uomo che mi soccorse non so quanto tempo prima.
Lo riconobbi dal filo di barba rossiccia, l'unico frammento che rimase impresso nella mia memoria.
«Ho bisogno di chiamare. Le si sono rotte le acque. La mia migliore amica, la bimba.», farfugliai in confusione aggrappata alle sbarre per non cadere.
«Non può.», rispose secco in procinto di allontanarsi.
«Aspetti!», si volto verso di me con sguardo interrogativo.
«Quando potrò telefonare? Ci sono orari di visite?»
Dovevo sapere come stava Giulia.
«Quando suonerà la campana potrà ricevere visite o chiamare.», rispose con sufficienza sistemandosi il copricapo e stringendo a sé le chiavi.
«Cosa ne sarà di me?», chiesi affannata.
Non poteva star succedendo davvero, non in quel momento, non durante la nasciata di mia "nipote", non ad un passo dall'altare con Rick.
Rick.
Come starà? Perché hanno preso anche lui, è innocente, non erano sulle sue tracce.
Perché?
Perché tutto questo?
«Sarà processata, signorina.»
L'uomo in divisa mi strappò via dai miei pensieri, riportandomi alla realtà.
«Dove?», domandai ancora, in balia di mille punti interrogativi.
«In un tribunale.», rispose con ovvietà, «In Italia.», specificò notando il mio sguardo eloquente. Sapeva di me, prima di raggiungermi stava leggendo il mio profilo d'arresto.
«Ricky dov'è?», chiesi sentendo l'ansia risalire nelle vene.
Volevo assolutamente vederlo, rassicurarmi vedendolo sano, accanto a me.
«Il suo complice?», chiese con aria di superiorità.
«Non è mio complice, lui non ha fatto nulla. È mio...», mi guardai l'anulare, ma ancora dell'anello nessuna traccia, anzi, sui polpastrelli portavo qualche residuo di inchiostro nero per la prelevazione delle impronte digitali.
«Il suo amato.», mi tolse le parole di bocca, «Signorina, lasci fare al giudice. Le dico solo che è in buone possibilità di piccola pena. Ho letto il suo caso.», mi concesse uno sguardo sereno, per tranquillizzarmi - e forse non dover più rispondere alle mie ansie -, e se ne andò lasciandomi attaccata alle sbarre, a riflettere.
Come faceva a dirlo? Io non avevo deposto nulla, sapevano solo la dinamica dell'omicidio. A meno che Rick avesse già detto qualcosa.
Dopo qualche ora passata in silenzio e rannicchiata sulla brandina sentii una campana suonare, probabilmente quella degli orari di visita.
Qualche minuto dopo Devin si materializzò dietro le sbarre assieme alla mia famiglia ed un uomo in giacca e cravatta. C'era anche una guardia che ci scortò in una stanza dove poter parlare in riservatezza.
Il carcere era piccolo, la mia sistemazione provvisoria; avevo un qualche piccolo vantaggio da questo, come la privacy, appunto.
«Giulia?», domandai in apprensione.
Devin sorrise, la gioia illuminava il suo viso, attorno a me sentii un'aura di calore confronto l'atmosfera fredda della prigione.
«Hazel è nata ed è sana, bellissima. Giulia sta bene, è in ospedale.», mi rassicurò il neopadre poggiando una mano sul mio braccio e scuotendolo un poco, come a volermi infondere coraggio ed euforia.
«I ragazzi sanno tutto, li ho avvisati io. Ti salutano.»
«Grazie.», gli risposi a bassa voce, grata dell'ondata di buon umore che mi portò.
«Ricky?», chiesi rivolgendo la mia attenzione ai miei genitori.
«È nell'ala maschile di questa prigione. Ora Devin andrà da lui e fra qualche ora arriverà anche il suo legale ed un interprete. Probabilmente sarà processato qua.», mi rispose mia madre.
«Sta bene?»
Ne volevo la certezza. Volevo esser sicura che fosse sano e sereno, che avesse più fiducia confronto a me, che non fosse in pensiero.
«Ne sono certo.», tentò mio padre abbracciandomi, sapendo che volevo sapere solo quello, ma non era davvero rassicurante avere una supposizione.
«Questo signore è il tuo avvocato, parla solo in sua presenza.»
L'uomo sulla quarantina e dalla svettante statura mi strinse la mano e mi si presentò col nome di Marco Costanzi. Aveva i capelli corti e curati, completamente neri, occhi scuri e naso prominente. Il volto era asciutto e liscio. Mi disse che a breve avrei dovuto sottopormi ad un interrogatorio ed il primo processo avrebbe avuto luogo il giorno seguente. A quanto pare era passato abbastanza tempo e volevano chiudere in fretta il caso; così mi riferì.
Salutai i miei genitori, Jonny era a scuola, e rimasi sola con Costanzi e la guardia. Devin era già corso da Rick.
«Signorina, venga con noi. Deve rispondere ad alcune domande.», mi disse la guardia incamminandosi con me e l'avvocato.
Un'altra stanzetta, non molto distante dalla precedente, ci accolse.
Era completamente bianca con un tavolo al centro; quattro sedie attorno, due per lato lungo; sul fondo della stanza c'era un vetro oscurato e a capo tavola si trovava un cavalletto che teneva una telecamera accesa.
Anche agli angoli della stanza, in alto, notai delle telecamere a circuito chiuso. Ne osservai una dritta nell'obbiettivo incuriosita notando molto dopo, due uomini seduti.
Mi sedetti spaesata accanto a Costanzi che aprì la valigetta in pelle consunta e ne estrasse dei documenti da firmare.
«Dove si trovava la notte tra il 15 e il 16 novembre 2018?», mi chiese uno dei due poliziotti d'ufficio, quello più giovane.
«Ero a Varese, al palazzetto di basket durante un concerto.», risposi cercando di contenere l'ansia che mi stava divorando con ferocia le interiora.
«Posso bere?», chiesi, l'altro annuì e lo ringraziai. Avvicinai il bicchiere alle labbra prendendo un lungo, calmante sorso d'acqua tiepida.
«E dov'era a mezzanotte della stessa notte?», chiese l'altro guardando delle foto.
«Ero sempre lì.», risposi sentendo il cuore nei timpani. Percepii improvvisamente caldo e sudai freddo, agitata.
«Sta sudando, signorina?», continuò lo stesso quasi con un ghigno divertito, malevolo.
«Conosce quest'uomo?», mi passò sul tavolo una foto che ritraeva un quasi 50'enne pallido con gli occhi serrati come la bocca inespressiva, sulla tempia uno sfregio contornato di lividi. Era steso su un lettino di ferro e non indossava la maglia, si vedevano dei tagli puliti sulla gola e sul petto, come quelli sui corpi sottoposti ad autopsie. Ricordai quando guardavo CSI e vedevo le vittime ritratte con le medesime caratteristiche.
Guardai la fotografia per qualche secondo e poi la respinsi come inorridita.
Strinsi gli occhi terrorizzata, mi sentii male riconoscendo la mia vittima.
Risposi con un verso che non lasciava intendere se fosse di assenso o negazione.
«Mi dica le piace la violenza? Il sangue? Il dolore e la sofferenza? Mi dica signorina!», inveii lo stesso poliziotto tenendo sul tavolo la foto con forza.
Iniziai a piangere.
«Signore, non mi pare il modo di trattare la mia cliente!», mi difese Costanzi alzandosi dalla sedia.
«Conosceva quest'uomo?», insistì non badando al legale.
«No. Non so come si chiami.», risposi spaventata dall'atteggiamento rude dei miei due interlocutori.
«Bene. Conosce quest'altro uomo?», mi domandò porgendomi la foto identificativa di Ricky. La presi tra le mani ed il tremore andò scemando. Sorrisi divertita dalla faccia da flashato che aveva in quella fotografia. Vederlo, anche solo in foto, mi rincuorava.
Il mio avvocato mi guardò con eloquenza e mi ricomposi annuendo.
«Lo conosco.», annuii, riappoggiando Ricky in 2D sul tavolo.
«Che rapporti ci sono tra voi?», domandò il primo poliziotto.
«Non rispondere. Sono fatti di privacy che non sei tenuta a rivelare.», mi consigliò Costanzi guardando fisso negli occhi il poliziotto più anziano, non piaceva a lui e non piaceva neanche a me.
«Era con lei quella notte?», inquisii il più giovane, sistemandosi sul bordo della sedia.
«Sì, ma ancora non lo conoscevo.», dichiarai.
«Eravate qua, per caso?», mi mostrò un'altra foto che dipingeva su quella carta patinata e puzzolente il vicolo dove tutto accadde. Il sangue sull'asfalto era secco, il cadavere era già stato rimosso e rimpiazzato da una sagoma quando fu scattata la foto.
Nell'immagine si vedeva che fosse giorno, si notavano persone in tute bianche, probabilmente agenti della scientifica che raccoglievano prove come mostravano i cartellini numerati a terra.
«La mia cliente non è tenuta a rispondere.», sentenziò Costanzi con tono pacato, ma fermo.
«Sì, invece.», si intromise l'uomo più vecchio.
«Fa niente.», minimizzò l'altro, «Vorrei invece chiederle se riconosce questo oggetto. Sono state rivenute le sue impronte disposte in modo che la bottiglia potesse essere impugnata.»
La nuova foto ritraeva la bottiglia di birra con cui tramortii e uccisi il nostro aggressore. La avevano ricostruita, mancava solo qualche pezzo, tra cui la scheggia più grossa: l'arma del delitto che ancora conservavo - stupidamente - per non farla trovare.
«Avanti, signorina, confessi. Lei ha colpito sulla testa la vittima ed in seguito l'ha sgozzata con il pezzo di bottiglia mancante, di cui alcuni pezzi sono rimasti nella gola del morto.», mi disse il poliziotto anziano tamburllando il dito sopra la foto, indicando la parte mancante della bottiglia.
Non risposi, avevo il capo chino e gli occhi lucidi. Sentivo ancora il dito che puntellava sull'immagine.
Vidi con la coda dell'occhio Costanzi aprire una cartella e leggere dei fogli, ed intervenì.
«Sulla scena del crimine è stato anche trovato un coltello, con le sole impronte della vittima. Non è così?», il silenzio calò nella stanza, ma l'avvocato non si fermò.
«E la mia cliente, all'ora appena 18'enne senza alcuni precedenti di alcun tipo, è accusata di aver usato una bottiglia di vetro contro un uomo armato. Signori scusate, ma questo è chiaro: la vittima aveva premeditato di uccidere la mia cliente e chi era in sua compagnia. Si tratta di legittima difesa. Inoltre, avete tralasciato alcuni fatti importanti che la signorina Pigato non sa.»
Estrasse degli altri fogli lasciando i due ufficiali muti. Alzai gli occhi sulla figura che mi sedeva accanto, accennando un sorriso di gratitudine; era in gamba.
«La vittima era immischiato nella mafia e in traffico di droga e armi. Avete identificato altri mafiosi, suoi compari. Non è così? E grazie ad uno di loro che ha confessato avete altri dettagli: tra cui un video dell'aereoporto Malpensa dove questi hanno nascosto nella fodera delle valigie del signor Olson delle dosi di droga. Così hanno fatto con altri bagagli, ma questo non ci riguarda. Signori, la vittima aveva pianificato tutto. Ne avete le prove, ed il suo obbiettivo era il signor Olson. La mia cliente si è soltanto trovata a difendersi.»
I due poliziotti rimasero in silenzio. Non una sillaba aleggiava nella stanza, solo il rumore della lancette di un orologio che segnava le 16:37.
Quei dettagli chiarivano tutto.
Il perché quell'uomo si trovasse lì, armato.
Perché avesse aggredito Rick.
La verità si estese ai miei piedi dandomi un senso di onniscienza che desideravo sin da quell'avvenimanto, tragico, di anni prima.
Avevo le risposte ai perché riguardo a quella notte che cambio me, la mia vita.
«Può andare.», disse il più anziano, come infastidito.
Ancora sbalordita, fui riaccompagnata in cella e mi sentii sollevata; sicuramente Rick non avrebbe pagato pene e la mia sarebbe stata leggera; come aveva anticipato la guardia della barbetta rossa.
La speranza mi circondò in un abbraccio consolatorio.
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